Il sogno d’amore

Gisella Modica, 8 aprile 2024

Nel dopoguerra il fotoromanzo arrivò anche sulle pagine di Noi donne, dopo un lungo dibattito tra redattrici, scrittrici e politiche come Anna Banti, Antonietta Macciocchi e Nilde Iotti. Erano “decadenti e deteriori”, “una pericolosa forma di evasione dal reale” senza alcun valore letterario o andavano interrogati come oggi facciamo con il romance?

Di Gisella Modica

L’articolo di Gianni Bonina secondo cui le donne leggono, scrivono, comprano (e vendono) solo romance, ha avuto lo strano e imprevisto effetto di riaccendere in me l’antico amore di giovinetta per il fotoromanzo, per nulla affievolito dal passare degli anni e dalla mia lunga carriera di lettrice. Un genere definito fin dal suo nascere, soprattutto a sinistra, “male del secolo”, “roba da servette” o “da gallinelle”.
Erano gli anni Sessanta, avevo 12 o 13 anni e in casa mia, dove non c’era grande disponibilità di denaro né tempo per la lettura, circolavano solo Grand Hotel e Sogno. Un fotoromanzo costava poche lire, si comprava a turno con le amiche, o le cognate, e finito di leggere si passava a un’altra che in cambio dava una copia non ancora letta. Lo scambio era vertiginoso, pari alla velocità con cui la copia veniva divorata, e nello spazio di tempo tra una uscita e l’altra della rivista si immaginava l’evolversi della storia, si scommetteva un gelato o d’inverno un pacchetto di chewin gum, sul finale.
La storia. Era questo che mi seduceva, resa ancora più intrigante dalle fotografie che la rendevano più vera, prossima al tuo vissuto, ai tuoi sogni e desideri, in quanto “incarnata” nei visi e nei gesti degli adorati divi del cinema in voga al momento, Silvana Mangano, Giovanna Ralli, Amedeo Nazari o Massimo Girotti.
Amore per le storie, dunque, che da grande ho continuato a coltivare con intensità pari alla nostalgia per il perduto fotoromanzo che smisi di comprare e scambiare con l’ingresso al ginnasio.
Così quando di recente mi sono ritrovata a sfogliare “Noi Donne” presso l’Archivio della biblioteca delle donne Udi Palermo, per una ricerca sulla nascita della rivista, mi sono attardata con indicibile goduria sui fotoromanzi, pubblicati alla fine del 1949, sostituendo i romanzi a fumetti. Si sceglievano quelli che secondo il giudizio della redazione contenevano messaggi positivi, di “rinascita” e autodeterminazione femminile. Storie che dessero alle affezionate, “resistenti ed eroiche” lettrici un orientamento di costume diverso da quello di Grand Hotel, Sogno, Bolero, Intimità, e che andavano a ruba (tre milioni di copie solo Grand Hotel) sia tra le donne della campagna, spesso analfabete, che tra quelle di città, più istruite, tra le casalinghe, come tra le lavoratrici.
Si cominciò con “Riso Amaro”, il film di Giuseppe De Santis, col volto di Silvana Mangano, pubblicato a puntate insieme ai romanzi “Via col Vento” e “L’Agnese va a morire”, o alle novelle di tale Caterina Mansfield (!).
La decisione di pubblicare fotoromanzi fu molto sofferta, ma inevitabile dal momento che, come racconta Marisa Musu, partigiana dei GAP, c’erano ragazze che andavano alle riunioni dei giovani comunisti «con Grand Hotel sottobraccio». «Le ragazze sognano», scrive sulla rivista Vie Nuove. Che sognassero lo dimostravano le 300 copie vendute di Grand Hotel, contro le 40 copie di Noi Donne. Qualcosa doveva pur significare! L’Udi di Milano organizzò un dibattito alla Casa della cultura nel quale Lina Anghel, dirigente del partito comunista a Milano, riflettendo sulla funzione della piccola posta dei settimanali femminili, compresa quella indirizzata a Noi donne, si chiedeva se «non fossero state superficialmente snobbate le lettere delle giovani donne, quando invece potevano essere un’occasione per interrogarsi su problematiche femminili esistenti e quindi rispettabili. Cosa abbiamo fatto noi donne più avanzate per rispondere a queste problematiche? Forse non le conosciamo nemmeno, nonostante la nostra emancipazione», scrive Anghel nel n. 20 del ‘49 di Noi Donne.
Le grandi scrittrici che collaboravano con Noi Donne rispondendo all’appello di assunzione di responsabilità, affinché si rivolgessero alle donne «con una voce che non le umiliasse e le ingannasse», consideravano il fotoromanzo e il genere “rosa” “dolciastro e insinuante”, come Anna Banti o la giornalista Anna Garofalo, mentre Maria Bellonci li definiva “romanzi matrimoniali”.
Stesso giudizio veniva dato dalle dirigenti comuniste del partito, per le quali la letteratura rosa era “il più povero alfabeto dell’immaginazione”. Insomma “una grande menzogna”. Antonietta Macciocchi la riteneva “sentimentale ed edonista” perché metteva in scena il lusso e il desiderio. Nilde Iotti prese le distanze dai fumetti in quanto “una forma di comunicazione primitiva” e dai fotoromanzi perché “decadenti e deteriori”, “una pericolosa forma di evasione dal reale”.
Da “draghe dell’emancipazione”, quali erano, temevano che il conflitto tra i sessi, nei loro discorsi taciuto o rimosso, ma presente nelle storie fotoromanzate, indebolisse il conflitto di classe, e il “sogno d’amore” distraesse le donne dalla costruzione della società democratica, convinte che “era da lì che dipendeva la felicità delle donne e i loro sogni”.
A favore si mostrarono Teresa Noce e la siciliana Giuliana Saladino che li giudicavano un modo per “evadere” dalle miserie della vita quotidiana. Ma l’evasione secondo Noce poteva anche significare qualcosa di più profondo di una semplice fuga dalla realtà, un modo per aspirare a qualcosa di meglio. Saladino li considerava una forma di espressione molto adatta alla maggioranza delle donne del sud, analfabete e semianalfabete, che frequentavano le Camere del lavoro.
Dal mio punto di vista, quello che i fotoromanzi raccontavano, con ambientazioni e parole certo di gran lunga meno adeguati e più poveri di contenuto, era in fondo la stessa realtà e umanità che con ben altro stile raccontava per esempio Natalia Ginzburg con “E’ stato così”, storia che non a caso verrà pubblicata a puntate sulla rivista.
Tornando a me, prima di scrivere questo articolo sono andata in edicola a comprare alcune copie di Grand Hotel.
La copertina interna ripropone in ogni numero le immagini di copertina degli anni Cinquanta, quando la rivista costava trenta lire. I fotoromanzi, che occupano trenta pagine su cento, non hanno certo il fascino del bianco e nero, e i visi inespressivi delle attrici sono difficili da distinguere perché tutte copie di Barbie. Ma non ho trovato il tema del sogno d’amore, trattandosi di storie di giovani donne moderne ed emancipate che fanno i conti col lesbismo o con il problema delle adozioni internazionali difficili.
Concludendo, non so dare tuttora una risposta a questo mio sentimento politicamente molto scorretto per il fotoromanzo e il genere romance, ma penso c’entri proprio l’amore. Non tanto quello tradizionale del romance, ma come continua apertura ed esposizione all’Altro, che, senza volere generalizzare, le donne cercano per sé, e al contempo non smettono di dare nelle modalità più diverse, perché non hanno paura e gli uomini, tipo il Bonina, invece sì. Un sentimento, questo verso il fotoromanzo, che ho deciso di non censurare o rimuovere avendo imparato in tempi come questi che attraversiamo – dove molto di quanto creduto in passato e trasferito in attivismo militante vacilla davanti ai miei occhi -, ad ascoltare e dare credito prioritariamente alle contraddizioni, ai conti che non tornano, alle ambivalenze, alle stranezze, alle domande che non trovano risposta.

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Gisella Modica

Gisella Modica, attivista femminista scrive per le riviste: Letterate Magazine on line e Leggendaria. È socia della Biblioteca delle donne Udi Palermo e della Società Italiana delle Letterate. Pubblicazioni: per Stampa Alternativa Falce, Martello e cuore di gesù Storie verosimili di donne e occupazioni di terre in Sicilia (2000) e Parole di Terra (2004). I racconti della Cattedrale Storie di occupazioni, rimozioni, immersioni Villaggio Maori (2016). Le personagge sono voci interiori Vita Activa (2017); Come Voci in Balia del Vento Iacobelli (2018); per Mimesis/Eterotopie ha curato con Alessandra Dino Che c’entriamo noi. Racconti di Donne, Mafie, contaminazioni (2022). Ha scritto racconti e saggi in libri collettanei: Terra e parole Le donne riscrivono paesaggi violati a cura di R. Falcone e Serena Guarracino, ebook, @woman, 2017; Abitare la vita abitare la storia. A proposito di Simone Weil a cura di Maria Concetta Sala, Marietti, 2015; Lessico della crisi e del possibile Cento lemmi per praticare il presente a cura di Fabrice Olivier Dubosc, ed. Seb 2019; SIL/labario Conflitti e rivoluzioni di femminismi e letteratura a cura di Giuliana Misserville Rita Svandrlick, Laura Marzi, Iacobelli 2022.

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