INTERVISTE

  • Il silenzio delle isole

    • Stefania Aphel Barzini, scrittrice, giornalista e autrice televisiva, è innamorata di Alicudi: ha scritto ritratti sensoriali su FB finché Cristina Palomba, editor di Ponte alle Grazie, non l’ha contattata per scrivere un libro. Da quello scambio nasce “L’Isola che mi amava. Nell’abbraccio di Alicudi”. Nell’intervista parla della sua scrittura, dell’ispirazione e delle isole
  • Limare le parole

    Fredda, Gingillo e Riccioli d’oro si incontrano in un cassetto. Sono i feticci di un serial killer. Da questa premessa si dipana “Trofeo”, la glaciale e precisa novella di Emanuela Cocco, che sceglie un punto di vista obliquo per esplorare la violenza e l’ossessione, ma anche i meccanismi della memoria e la nostra relazione compulsiva con gli oggetti. L’abbiamo intervistata

    Di Amanda Rosso

  • Quello che non ci siamo mai detti

    Una insegnante di norvegese accetta di accompagnare un suo alunno in Romania, dove ha da sbrigare alcuni affari di famiglia. Durante il viaggio mette in discussione il suo rapporto con il ragazzo, con il linguaggio e con la propria depressione. E poi ci sono i cani abbandonati. Intervista all’autrice Claudia Ulloa Donoso

    Di Amanda Rosso

  • Divinare il futuro

    Nel suo nuovo film “Arancia Bruciata”, Clémentine Roy riscopre la pratica delle predizioni e reinventa l’incanto di un modo dove animali, umani e il cosmo intero vivono in armonia. Al centro una comunità di donne che, come scrive Donna Haraway, ipotizzano un presente e un futuro da inventare insieme. Abbiamo intervistato la regista

    Di Ivana Margarese

  • Carla Lonzi non si tocca

    È notizia di questi giorni che l’attuale direzione della Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea di Roma ha interrotto il comodato d’uso del Fondo Carla Lonzi. Se lo espellesse, lo sottrarrebbe all’accesso pubblico. Abbiamo intervistato la filosofa Annarosa Buttarelli, che ne è la curatrice.

    Di Loredana Magazzeni

  • Che forza Cristina Rivera Garza

    «Siamo pervasi da una narrativa del potere e il mio ruolo come scrittrice è mettere in discussione questo discorso dominante, patriarcale, di sovvertirlo. Perché anche la grammatica è una forma del potere. Ogni frase non è solo una rappresentazione della realtà ma è una forma di realtà a sua volta. Quindi includere diverse esperienze permette di creare nuovi modi di vivere il mondo». Intervista alla scrittrice che oggi ha ha vinto il Pulitzer Prize in memoir

    Di Samanta Picciaiola

  • «La nostra buccia vuota»

    “Questo povero corpo” è il titolo del primo libro sul Lager di Giuliana Tedeschi, pubblicato già nel 1946 dove descrive, oltre la fame e la fatica, il vilipendio alla femminilità di tutte le prigioniere. Intervistiamo Luisa Ricaldone che è stata sua allieva al liceo

    Di Loredana Magazzeni

    Giuliana Tedeschi, sopravvissuta ad Auschwitz dove fu internata in quanto ebrea, ​ci ha lasciato due libri importanti sui Lager: “Questo povero corpo” e “C’è un punto della terra… Una donna nel Lager di Birkenau”. Ci racconta di lei Luisa Ricaldone, sua allieva negli anni Sessanta, poi docente universitaria e autrice di libri e che di recente, nel suo ruolo di dirigente della Sil, ha chiesto al Comune di Torino di intitolarle un giardino nel quartiere in cui Giuliana Tedeschi ha vissuto.

    Qual è stata la tua esperienza personale di conoscenza di Giuliana Tedeschi?

    Giuliana Tedeschi è stata la mia insegnante di materie letterarie negli anni del ginnasio 1964/1966. La scuola era il Liceo classico Vincenzo Gioberti di Torino, che vantava insegnanti di grande levatura intellettuale. Per limitarmi alla mia sezione, la C, ricordo Lidia De Federicis, coautrice dei numerosi volumi di storia e critica della letteratura Il materiale e l’immaginario, sui quali si formeranno intere generazioni di studenti e dei quali noi stessi suoi allievi, eravamo stati le cavie – come mi disse a cose fatte anni dopo davanti a un bicchiere di vino bianco. De Federicis concorse a fondare l’Indice dei Libri del mese e fu particolarmente impegnata per la laicità della scuola. L’altro insegnante di punta era Albino Galvano, pittore e titolare della cattedra di storia e filosofia, che ci aprì il mondo – è proprio il caso di dirlo – della psicoanalisi. La prima condivise con noi il Sessantotto (di cui il liceo Gioberti fu infuocato pioniere), il secondo non risparmiò ironie al riguardo. Ma noi ragazze, complice il nascente movimento delle donne, eleggemmo Lidia a nostro riferimento.

    Altra personalità di rilievo di quella scuola straordinaria era Giuliana Tedeschi, di lì a una manciata di anni autrice di un Corso di lingua latina e, con la titolare della cattedra di greco Alma Borelli (anch’essa insegnante nella C), di un fortunato Corso di lingua greca. Erano anni di grandi cambiamenti che investivano i metodi didattici e le relazioni fra docenti e studenti, e in quel contesto ebbi “la Tedeschi” – come la chiamavamo – insegnante di italiano latino greco storia e geografia. Nella prima ora di storia si presentò in classe e ci “raccontò” la Shoah, a partire da sé. Non ci fu bisogno di tante parole: si rimboccò la manica – mi pare la sinistra – della camicetta e con una semplicità del tutto priva di enfasi ci mostrò il numero impresso sul suo braccio: 76847.

    Ci parlò delle leggi razziali che dal 1938 le avevano impedito di insegnare, nonostante avesse superato il concorso, e ci illustrò brevemente e pacatamente – ricordo che mi colpì la sua serenità – il trasferimento ad Auschwitz e tutto il resto cui andò incontro lei in quanto ebrea e numerose altre e altri. Additò poi l’armadio che stava in fondo all’aula, la “bibliotechina di classe”, come lei la chiamava: «Lì trovate alcune copie di “Se questo è un uomo” di Primo Levi, vi consiglio di leggerlo». E con un largo sorriso – sorrideva sovente Giuliana – avviò il programma scolastico, che quel primo anno prevedeva la storia degli Assiri e dei Babilonesi, se la memoria non mi tradisce.

    Ora che ripenso a quella mattina del mio primo giorno del primo anno delle superiori, mi stupisco del fatto che Giuliana non avesse fatto il minimo cenno al suo primo libro Questo povero corpo, pubblicato nel 1946, all’indomani del suo rientro in Italia, del quale mi pare non vi fosse traccia nella sopra citata bibliotechina; in caso contrario lo avrei preso in prestito, dal momento che lessi, se ben ricordo, tutti i libri a disposizione. È come se la “mia” professoressa, della quale ero molto orgogliosa, avesse deciso di destinare il proprio corpo alla presenza testimoniale della sua tragica esperienza e non volesse aggiungervi altro. «»

    Sai qual è stato il percorso che ha portato a Questo povero corpo? Com’è stata la gestazione editoriale di questo primo libro di Giuliana, edito nel 1946 e poi nel 2005?

    Nei primi anni Duemila, Mariarosa Masoero e Lucio Monaco diedero vita per le edizioni dell’Orso di Alessandria a una collana intitolata “Quaderni della Memoria”, in cui trovò subito posto la riproduzione anastatica di Questo povero corpo. Per quanto riguarda il percorso, rispondo con le parole di Anna Bravo, la quale, introducendo la riedizione del volume, rilevava che nel 1946 la storia era ancora prevalentemente «storia politica in senso stretto» e «la memorialistica del Lager, messa di fronte alle incredulità che cominciano a manifestarsi, reagisce con una volontà forte di certificazione, con la ricerca di un’esattezza e di un linguaggio quasi notarili». Insomma, la soggettività, che pure cominciava a cercare le parole per dirsi, «non viene rivendicata». All’opposto, per Giuliana, essa costituisce “il cuore della storia”. Non si abbandona, in Questo povero corpo, alla narrazione del ricordo commosso e turbato della recentissima orribile esperienza, dal momento che in lei la razionalità è forte e presente; però essa è sempre incarnata, nel suo corpo e in quello delle sue compagne, nella brutalità dei fatti e nei soprusi patiti. Semplicemente è dal soggetto che la sua argomentazione parte ed è al soggetto che ritorna passando da quello che Giuliana stessa definisce «la nostra buccia vuota», il corpo appunto. Anche in ciò ritengo consista la distinzione di queste pagine – fra le prime scritte da una donna sull’esperienza del Lager – dalle simili elaborate da uomini. È la degradazione dell’essere umano femminile ciò che Giuliana ci mostra: ancora prima delle fatiche disumane cui erano sottoposte, ancora prima della ripugnanza suscitata dalla brodaglia, è l’atto bestiale del gruppetto di donne che, sprovviste di cucchiaio, a turno si curvavano “come cuccioli intorno a una ciotola”, sono i gabinetti cui si accede in gruppi, è la riduzione all’animalità ciò che distrugge la dignità e mina la resistenza: insomma l’orrore del Lager come vilipendio della femminilità.

    Un altro aspetto di questo testo, che troverà spazio ancora maggiore nel libro successivo “C’è un punto della terra… Una donna nel Lager di Birkenau”, è la relazione con le altre. Vorrei ricordare anch’io la frase, tratta da quest’ultimo libro e citata molto spesso: «La vita delle prigioniere è come una maglia i cui punti sono solidi se intrecciati l’uno all’altro; ma se il filo si recide, quel punto invisibile sfugge fra gli altri e si perde».

    Lette a distanza di anni, quelle pagine, che argomentano taglienti e pacate l’orrore, mi sono risultate tanto più penetranti e coinvolgenti in quanto scritte da una donna che ho conosciuto e che è stata protagonista imprescindibile della mia formazione. Un libro straordinario scritto da una donna straordinaria.

    Ci sono temi che Giuliana ha approfondito rispetto ad altre scrittrici?

    Non sono una specialista di letteratura concentrazionaria ma posso dire che nelle scritture di donne che hanno subito la prigionia nei campi, il corpo è oggetto di una attenzione molto particolare: lo è per Edith Bruck come per Ginette Kolinka o per Eugenija Ginzburg, che lasciò testimonianza della sua condanna ai lavori forzati nei gulag staliniani in Viaggio nella vertigine. Viceversa non lo è – se non nella dimensione delle sofferenze patite per fame – nel racconto di Dacia Maraini, dato che era bambina quando venne reclusa con i genitori nel campo di prigionia giapponese di Nagoya.

    Il segno che mi pare distintivo in Giuliana è, da una parte, il passaggio continuo dalla restituzione dei fatti così come erano alla riflessione su di essi, e dall’altra, lo spostarsi del racconto da sé o dalla singola prigioniera alla dimensione collettiva, corale, mi verrebbe qui da dire da tragedia greca. Il suo occhio si muove come una cinepresa: entra introspettivamente in se stessa per spostarsi su ciò che accade intorno, sulle guardie, sul paesaggio desolato, sulla massa di disperate nelle quali empaticamente si riconosce.

    Qual è il lascito oggi di Giuliana Tedeschi, che cosa dobbiamo preservare oggi del suo pensiero?

    Finché visse – morì nel 2010 – Giuliana fu molto attiva nel testimoniare pubblicamente la sua esperienza di deportata e sopravvissuta. In questo senso il suo lascito è (stato) comune a quello di molte donne (e molti uomini) tornate dall’inferno di Auschwitz. Possiamo aggiungere che i suoi scritti non lasciano spazio all’invenzione, bensì restituiscono il vissuto, e lo fanno fino alla fine, fino alla liberazione: dall’«animo arido e silente» allo scioglimento dell’emozione che «dapprima sopita, poi trattenuta, ritardata, dosata per paura, proruppe in lacrime e in gemiti di gioia». Ho voluto citare queste righe – stupende – perché proprio le pagine finali di C’è un punto della terra… sono entrate in una recente antologia, Nel buco nero di Auschwitz. Voci narrative sulla Shoah (Interlinea 2021), per la cura di Giovanni Tesio, l’ultima che io conosca, a sottolineare l’importanza di continuare a confrontarsi con quei testi, a non dimenticare. Soprattutto oggi, con le guerre in corso e quelle cui ciecamente governi irresponsabili ci stanno portando.

    Sul piano più personale, direi che il suo lascito è stato di riconoscere il valore di ciascuno e ciascuna indipendentemente dal ceto sociale, cosa per me e per il mio compagno di classe Marcello particolarmente importante, dato che eravamo gli unici figli di operai seduti in quei banchi della quarta C (e tre nell’intera scuola). Ero anche l’unica ragazza di famiglia proletaria, e con il suo esempio Giuliana mi ha trasmesso la consapevolezza che le donne ce la possono fare: se lei ce l’ha fatta a sopravvivere al Lager, sicuramente io, attraverso lo studio – ero infatti una secchiona –, sarei riuscita nella mia “impresa”. Due percorsi imparagonabili, lontani anni luce l’uno dall’altro, ma questo sta scritto, confusamente e un po’ vergognosamente nelle pagine del diario di quegli anni.

    Per concludere: è alla “madre simbolica” che si è rivolto il mio pensiero quando, come referente della Società italiana delle Letterate, sono entrata a far parte della Commissione Comunale per la Toponomastica della città di Torino: la richiesta di intitolarle un giardino in prossimità del quartiere in cui Giuliana visse prima di trasferirsi nella collina torinese è stata accettata. Ora attendiamo la posa della targa che la ricorda.

  • Sorelle in una casa rotta

    «Se non ci fosse una madre perduta non esisterebbero figlie pronte a chiamarsi sorelle. E la mancanza ha una forza generatrice mastodontica. Dove c’è una ferita, un buco, un vuoto, il desiderio preme. Vivere è l’effetto inconscio di una mancanza». Intervista a Ilaria Caffio, poeta, che esordisce in prosa con il romanzo “Bara di seta”

    Di Beatrice Sciarrillo