RACCONTACI UN SOGNO

Gisella Modica, 26 gennaio 2023

«Ogni sogno ha un ombelico attraverso il quale è congiunto all’ignoto», ci ricorda Ivonne Banco, la psicanalista da noi interpellata riportando la frase di Freud. Un’altra puntata del nostro progetto sui sogni

Di Gisella Modica

care lettrici,

Ivonne Banco, la psicoterapeuta da noi intervistata, che ringraziamo, la quale s’è messa in gioco raccontandoci un suo sogno, scrive che «il sogno è un rebus, un testo sacro, dove attingere le nostre paure, i nostri desideri. Ci interrogano, se sappiamo stare in ascolto». Curano e a volte guariscono. Spesso ci inquietano perché «ogni sogno ha un ombelico attraverso il quale è congiunto all’ignoto», ci ricorda Ivonne, riportando la frase di Freud. Ma al contempo ci stimolano a scoprire parti di noi sconosciute, non ancora espresse. Ci aiutano a riconnetterci col nostro mondo interiore. Forse per questo facciamo resistenza? «Io non sogno» – hanno risposto alcune lettrici. «E se sognassi perché dovrei raccontarlo?»
La domanda è legittima, osserva sempre Ivonne. «Il sogno è il dono di qualcosa molto intima, preziosa. Si racconta desiderando che qualcuno ascolti. Capita infatti di svegliarsi col desiderio di raccontare a qualcuno il sogno. Affidare un sogno al web non è la stessa cosa che raccontarlo ad un amico/a. Lo stesso avviene quando si scrive. Anche se c’è una differenza tra ascoltare e scrivere un sogno. Nei sogni pervenuti si riscontra un piacere della scrittura. Sono stati scritti con molta cura, cercando con accortezza la parola, la frase il più possibile aderente alla scena onirica. Benché ci sforziamo di far combaciare l’emozione o una scena del sogno con le parole, ci lasciamo dietro sempre qualcosa d’impreciso o di vago, che ci sfugge. È il mistero e insieme il fascino del sogno. Il sogno ci insegna che la realtà non è soltanto quella che conosciamo. C’è sempre qualcosa di inafferrabile».
Eppure è necessario. Fa parte del nostro vivere. È quanto ci ricorda il regista Wim Wenders nel film A perfect Day, citato da Ivonne Banco. «Nel film le scene oniriche e le immagini nel dormiveglia sono sfuocate, decisamente enigmatiche, tra l’ombra e la luce, il chiaro e lo scuro della vita, che si lascia dietro una forma di mistero, non decifrabile. il passato del protagonista, silenziosa e riservata si mescola col presente fatto di abitudini e ripetizioni».
I sogni creano comunità, abbiamo scritto, «in un momento di spaesamento che ci fa sentire esiliate dal nostro mondo interiore». «Io mi sento sempre più smarrita e preoccupata per tutti gli accadimenti a cui assistiamo. Questa opportunità ci fa sentire meno sole. Grazie davvero». Lo ha scritto alla redazione, Milena Angeli, che ringraziamo insieme alle altre per il suo prezioso dono.

Pubblichiamo pertanto i suoi due sogni, uno dei quali sotto forma di poesia, seguito da quello di Ivonne, e delle nostre lettrici: Daniela Musumeci, Francesca Martino, Serena Todesco.

Milena Angeli
(Primo sogno) Mi sveglio da un sogno, intenta a farmi strada in un intrico di ragnatele. È come uscire da un antro cavernoso, dopo aver intravisto fuggevoli ed eteree forme umane. Il ragno femmina, tesse la sua tela di notte e riesce a farlo in tre ore. I fili di seta che secerne per intrappolare la preda sono appiccicosi e possono essere trasportati a grandi distanze. I ragni e le ragnatele sono simboli di morte. Abitano il mio immaginario onirico da tanto tempo. È la paura di essere paralizzati e divorati. È qualcosa che spaventa e soffoca. I miei occhi, vengono attirati da una figura umana che alza la mano, in segno di saluto. Riconosco il mesto sorriso della nonna materna: – «Che bello rivederti! Tu te ne vai sempre, lo so» China il volto e ritorna nella posizione rannicchiata, come obbedendo ad un ordine implicito che regola il suo stare in quel luogo. L’altra nonna è in piedi, altera. Quel piglio autorevole che la contraddistingue la accompagna anche qui. Mi guarda, sibilando con la sua voce sferzante: – «Tua mamma non capisce mai niente, è sempre a letto!» – «Devi voler bene a tuo padre, se non è a casa con voi, è perché deve lavorare, ricordatelo!»

Gennaio 2022 (Secondo sogno)
La bambina/ girava/ sola/ smarrita/ i piedi intirizziti/ sporchi/ dentro scarpe/ troppo grandi/ raccattate chissà dove La prese in braccio/ che non si perdesse/ in quella folla vociante e soddisfatta La sua pelle/ calda/ morbida/ cedevole/ aderiva alla sua Bambina/ e donna/ si avvinghiarono/ l’una all’altra La folla/ invadeva/ ogni spazio/ urla/ risate/ corpi esausti/ sudati/ cercavano/ riposo Assottigliando/ i loro corpi/ si insinuarono/ nel taglio d’ombra/ di una casa/ abbandonata/ tra un muro scrostato e umido/ e l’alto cassone/ dei rifiuti.

Ivonne Banco
Sipario è l’opera dell’artista J. Kounellis (2007) che si trova in Santacroce in Gerusalemme, il cancello in ferro con i quarzi e pietre colorate. Il mio sogno inizia lì davanti, io piccola di statura difronte a questa opera grande sia realmente che simbolicamente. Sono immobilizzata, guardo, ammiro, ma non cerco di aprire il cancello. Come dire non vado oltre alla possibilità della bellezza che ho davanti, non ho aperto il sipario ma mi si sono aperte le finestre di riflessione. Questo fanno i sogni.

Daniela Musumeci
Da molti anni i miei sogni ricorrenti raccontano smarrimento, spaesamento, impedimento. Una volta mi sono perduta in una foresta abitata da bambole impiccate ai rami degli alberi. Mio fratello, sopraggiunto, mi aiutava a liberarle dal nodo scorsoio e deporle sull’erba.
Più spesso non sono riuscita ad arrivare al mare, perché tutti gli accessi erano bloccati da cancellate e scale private e, se tentavo di intrufolarmi, finivo in cunicoli e teorie di stanzette soffocanti di case sconosciute. Quando, fortunosamente, potevo raggiungere la spiaggia, la sabbia è sporca, l’acqua grigia o stagnante oppure la folla mi impediva di nuotare. In una occasione soltanto ho sfidato le onde altissime e, sulla spinta della cresta spumosa di una di queste, sono balzata sul monolite di 2001 Odissea nello Spazio, che si levava proprio davanti a me come una piccola isola ed era lucente di sole.
Come ho sognato a lungo la mia casa trasformarsi in un luogo sconosciuto o che ero io a confondermi non sapendo più quale di tante dimore fosse mia (e dicono che la casa è l’anima), così ho visto a più riprese la mia città cambiare aspetto e impedirmi di arrivare alla meta (in genere, il luogo di lavoro, la scuola).
Quest’ultimo sogno ricorrente era strano: iniziava con lo stupore di fronte alla bellezza e si concludeva in un incubo. In genere, uscivo di casa su una via conosciuta, ma questa ben presto perdeva la sua fisionomia familiare. Un viale fiancheggiato da ville diveniva una piazza barocca delimitata da facciate di nobili palazzi, decorati con cariatidi di tufo di caldo color ocra e circondata da portici solenni; oppure si tramutava in un’altissima scalinata in cima alla quale si ergeva un monastero o una casina da caccia regale, ma io non ce la facevo a salire tutti i gradini; o ancora gli edifici della scuola, solitamente a due passi nel mio quartiere, si rivelavano dispersi entro immensi vigneti dall’agro profumo e irraggiungibili; la consueta fermata dell’autobus diventava un bosco di eucalipti prospicente il porto, dal quale non potevo ridiscendere in città; il centro storico si restringeva in un labirinto di viuzze e sottopassaggi, che immettevano in cripte e catacombe, chiostri e chiese ricche di mosaici, marmi mischi, enormi quadri religiosi, cori intagliati e colonne tortili. Una bellezza sconvolgente che, però mi irretiva e mi impediva di uscire, sicché l’ammirazione si capovolgeva in disorientamento, una sorta di sublime kantiano alla rovescia.
Infine, molto più banale, il sogno ricorrente di dover ripetere gli esami di maturità, scientifica stavolta, a fianco dei miei studenti che supplicavo di lasciarmi copiare il compito di matematica (qui di solito mi svegliavo, per evitare la bocciatura).
Pare che il leitmotiv sia comunque un mio senso di inadeguatezza a fronteggiare gli ostacoli, che però non mi impedisce di ostinarmi a provare…
Oppure possiamo cercare un significato politico: le bambole sono le donne abusate; nel sogno del mare, la proprietà privata nega il ritorno alle origini, all’accogliente liquido amniotico di madre natura ormai deturpata; nel sogno della città, Palermo-piovra, pure bellissima, si rivela invivibile nei suoi meandri controllati dal potere ecclesiastico (e mafioso).
E potremmo fondere personale e politico: la mia inadeguatezza a lottare contro la proprietà privata, contro il degrado ambientale, contro i poteri forti, contro la mafia, il mio scoramento e il senso di solitudine non mi impediscono di continuare a resistere, nonostante il sentimento della sconfitta.

Francesca Martino

Dormo qualche volta in una casa al mare all’Arenella, balcone di fronte alla magnifica distesa d’acqua che lambisce quel borgo. Una notte, si era di notte, un assordante boato mi sveglia: capisco che è il mare, non ho il tempo di affacciarmi perchè l’Acqua sta invadendo le case fino ai piani un po’ più alti. Realizzo che si tratta di maremoto.
Non scappo, non cerco di raggiungere posizioni che possano aiutarmi a mettermi in salvo.
Chiudo le persiane, chiudo le vetrate, chiudo gli scuri e con le braccia e le mani aperte su quelle imposte chiuse ” fermo il maremoto”.
Quell’acqua, quel disastro non sono entrati a casa mia.

Serena Todesco
Scambio di binari

È notte, è novembre e fa innaturalmente caldo. Però c’è anche una nebbiolina fastidiosa che non fa dormire, perché entra nelle ossa senza andarsene più, è bastata un’uscita sul balcone per l’ultima sigaretta, quando tutti si sono finalmente addormentati.
Mi sono addormentata di colpo e ho sognato. Ero in una stazione ferroviaria, sul binario, pronta a prendere un treno. A sinistra c’era un lunghissimo treno che mi avrebbe portata all’estero, cioè in Italia. La destinazione era Roma, ma la linea si sarebbe spinta ancora oltre, verso Sud. Sapevo che, andando lì, mi sarei vista con una persona desiderata, il corpo tremava per l’emozione e l’aspettativa. Non avevo praticamente bagaglio, solo una giacca pesante e uno zainetto quasi vuoto sulle spalle. Avevo addosso due paia di pantaloni, e tra l’uno e l’altro ero colma di riso con piselli, riso cotto e poi seccato, che cadeva a fiotti dal buco, sul selciato, spargevo cibo a ogni passo.
Ma a destra partiva il treno che sapevo di dover prendere, era diretto a Chiswick, in Inghilterra, un luogo che nel sogno era percepito come locale, come casa di appartenenza alla quale mi toccava tornare per un legame indissolubile. L’idea, il rovello mentale, era che andare in Italia non mi conveniva affatto, nonostante il desiderio per quella persona. Allora salivo sul treno per Chiswick, che si rivelava un mondo fantasmagorico, il culmine del sogno: ovunque corridoi con luce soffusa e calda, stanzette di velluti rossi e stampe alle pareti, sedie antiche, pareti d’epoca, un angolo con un tavolo con un gioco di società su Houdini con pezzi in legno e stupendi toni accesi di rosso e marrone, lettere e ghirigori, un’antica farmacia stile vittoriano con barattoli e tubetti, tanti tavolini… Poi, in ogni ambiente, che attraversavo con un occhio simile a una telecamera, mi sfioravano e mi passavano accanto persone silenziose e gentili, eleganti studenti dislocati sui sedili o intenti a leggere… C’erano poi moltissimi angolini silenziosi e uno slargo dove stavano abbandonati vassoi con vecchi scones, black pudding e altre specialità della cucina britannica. Presa dalla fame, pensavo di afferrarne qualcuna per placare la mia fame momentanea, ma poi decidevo di lasciar perdere. Scendendo e salendo dal treno, in qualche modo, ero riuscita a spargere dietro di me molto di quel riso che faceva parte di me, e una signora – l’unica ostile – si era lamentata, ma io avevo fatto finta di nulla. Alla fine, alle mie spalle, sotto il sedile che avevo appena lasciato per scendere e proseguire non ricordo dove, avevo lasciato cadere un drappo colorato, scintillante (un copritavolino che possiedo davvero a casa, sempre un po’ polveroso, uno di quegli oggetti che dà sempre noia tenere puliti).
Questo treno che viaggiava così lindo ed elegante, con la promessa di portarmi in quella che per me era casa aveva del tutto soppiantato il desiderio per Roma. Uno scambio di binari e di appartenenze.

 

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Gisella Modica

Gisella Modica, attivista femminista scrive per le riviste: Letterate Magazine on line e Leggendaria. È socia della Biblioteca delle donne Udi Palermo e della Società Italiana delle Letterate. Pubblicazioni: per Stampa Alternativa Falce, Martello e cuore di gesù Storie verosimili di donne e occupazioni di terre in Sicilia (2000) e Parole di Terra (2004). I racconti della Cattedrale Storie di occupazioni, rimozioni, immersioni Villaggio Maori (2016). Le personagge sono voci interiori Vita Activa (2017); Come Voci in Balia del Vento Iacobelli (2018); per Mimesis/Eterotopie ha curato con Alessandra Dino Che c’entriamo noi. Racconti di Donne, Mafie, contaminazioni (2022). Ha scritto racconti e saggi in libri collettanei: Terra e parole Le donne riscrivono paesaggi violati a cura di R. Falcone e Serena Guarracino, ebook, @woman, 2017; Abitare la vita abitare la storia. A proposito di Simone Weil a cura di Maria Concetta Sala, Marietti, 2015; Lessico della crisi e del possibile Cento lemmi per praticare il presente a cura di Fabrice Olivier Dubosc, ed. Seb 2019; SIL/labario Conflitti e rivoluzioni di femminismi e letteratura a cura di Giuliana Misserville Rita Svandrlick, Laura Marzi, Iacobelli 2022.
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