Che forza Cristina Rivera Garza

Samanta Picciaiola, 7 maggio 2024

«Siamo pervasi da una narrativa del potere e il mio ruolo come scrittrice è mettere in discussione questo discorso dominante, patriarcale, di sovvertirlo. Perché anche la grammatica è una forma del potere. Ogni frase non è solo una rappresentazione della realtà ma è una forma di realtà a sua volta. Quindi includere diverse esperienze permette di creare nuovi modi di vivere il mondo». Intervista alla scrittrice che oggi ha ha vinto il Pulitzer Prize in memoir

Di Samanta Picciaiola

Ho conosciuto la scrittrice e docente Cristina Rivera Garza a Bologna, lo scorso marzo, quando ha presentato il suo ultimo romanzo L’invincibile estate di Liliana, per il quale proprio oggi ha vinto il Pulitzer Prize in memoir. Devo l’opportunità di incontrarla a Gender Bender Festival che ha organizzato l’evento insieme a Sur e Salaborsa, in collaborazione con Libreria Trame, Casa delle donne per non subire violenza Bologna, Biblioteca Amilcar Cabral, Patto per la lettura di Bologna. Ringrazio il tempo sospeso di questa toccante conversazione, un tempo concesso grazie al rifugio accogliente della Libreria Trame e alla sua libraia Nicoletta, alla cura e maestria di Giulia Zavagna, interprete per noi e traduttrice del romanzo per Sur e certamente all’invincibile generosità di Cristina Rivera Garza. La lettura del libro – L’invincibile estate di Liliana – apre a tantissime domande. Partirei dal fatto che del lutto non si parla e quando lo si fa ciò accade sempre in maniera molto stereotipata. Ho trovato invece bellissima quest’operazione di riparazione, questa modalità di lavoro sul lutto personale di Cristina Rivera Garza dopo il femminicidio della sorella Liliana.

La mia prima domanda riguarda la tua attività di critica letteraria, la tua attenzione alla storia della letteratura. Faccio parte della Società italiana delle letterate, che si occupa di recuperare quella genealogia di scrittrici ancora oggi assenti dai manuali scolastici così come dalla storiografia letteraria canonica. Il nostro è un lavoro di scavo e di emersione per rintracciare una genealogia dentro cui non solo recuperare le scritture delle donne, ma anche collocare la propria opera di scrittrice. Hai pubblicato “Escrituras geológicas”, un libro di critica letteraria sulla letteratura messicana in prospettiva decoloniale. Questa attività di critica e di riscoperta sulla tradizione, come collega con te come scrittrice?

Grazie, perché questa è una domanda nuova che non è mai uscita in questi giorni. Per me è fondamentale accompagnare la scrittura creativa a una scrittura critica. Oltre a essere scrittrice sono insegnante di scrittura creativa: organizzo seminari che non sono soltanto di produzione di scrittura ma anche di lettura e di analisi. Ho studiato sociologia, storia, e leggo anche moltissima teoria e sono convinta che sia sempre meglio conoscere il contesto all’interno del quale ci muoviamo. C’è chi dice che è meglio non conoscerlo perché è una sorta di costrizione, una camicia di forza. Invece per me è il contrario e credo che tenere in piedi i due discorsi, o anche più discorsi ancora, ci faccia guadagnare spazio e con esso capacità critica e creativa. Anche per questo quando ho scritto questo libro, Escrituras geológicas, ho inserito alcune letture di scrittrici contemporanee come ad esempio Selva Almada, Gabriela Cabezón Cámara, ma anche autori e autrici del passato. Mi interessa la letteratura, negli ultimi anni soprattutto alla luce dei nuovi materialismi. Penso che sia importante, per chiunque cerchi di scrivere e discuta sul processo di scrittura, conoscere anche le esperienze di chi è venuto prima. Io ho sempre avuto una sorta di conflitto con quella che intendiamo come finzione pura. Negli ultimi anni mi sono mossa a cavallo tra fiction e non fiction – in quello che negli Stati Uniti si definisce cross-gender quindi attraverso i generi letterari – soprattutto perché ciò mi permette di includere in qualche modo le voci e le esperienze di chi ha discusso cose che mi interessano, prima di me, e di tenere traccia delle loro esperienze, del registro che loro stessi hanno avuto di queste esperienze. Ho definito questo tipo di letteratura come “desapropiativa”, di disappropriazione. Mi sembra che metta in discussione la finzione pura, il ruolo dell’autore e il concetto stesso di verità e permetta far comunicare esperienze umane e non umane intendendo la terra, il mondo intero, come un grande archivio.

L’immagine del mondo come archivio mi conduce a una domanda che per me è stata una chiave d’acceso al romanzo L’invincibile estate di Liliana. C’è una tradizione di pensiero che vede negli archivi i meccanismi coloniali per eccellenza, perché la memoria che lì si costruisce è la narrazione dal punto di vista del potere. In alcune tue interviste hai sottolineato come, in realtà, tutto dipende dal modo con cui interroghiamo gli archivi. Gli archivi recano tracce anche di altre voci ma soprattutto è necessario “decontestualizzarli”. Troviamo archivi in luoghi che non sono istituzionalmente destinati alla memoria. Anche nel romanzo tu contamini i materiali che riguardano l’archivio personale di tua sorella Liliana, lettere, biglietti, lettere dei tuoi genitori e tue, e li metti insieme, fai un’opera di montaggio. Penso che sia un gesto molto femminista di decostruzione della narrazione unica ma anche di disarticolazione del discorso che mostra i nessi del potere.
Esiste un’idea stereotipata secondo la quale l’archivio sta sempre dal lato del potere. Perché il potere ha bisogno di questo tipo di memoria e dei documenti. Tuttavia, chiunque abbia utilizzato dei documenti di archivio, sa che queste istanze del potere non sono già lì, pronte ed evidenti. In realtà esse stanno soprattutto nel modo di leggere e di interpretare gli archivi, nel modo in cui vengono messi insieme alcuni elementi dei vari archivi e lì entra in gioco la nostra volontà critica. L’archivio è incompleto, sempre, per definizione: se non fosse incompleto sarebbe il mondo intero. È un qualcosa di molto poroso, di duttile, di fragile. E poi c’è anche un altro aspetto: in alcune istituzioni di rappresentazione del potere, come le carceri e gli ospedali, noi ritroviamo gli archivi di chi è stato prigioniero, gli archivi dei malati. In questi archivi ci sono proprio le voci di quei soggetti più fragili che non hanno avuto voce in vita. Io ho scritto un romanzo che si intitola Nessuno mi vedrà piangere in cui ripercorro e ricostruisco l’archivio di un manicomio, in particolare soffermandomi sui casi di donne che sono state lì internate e che hanno lasciato tracce scritte che ho potuto consultare. Quando lavoriamo con quelle altre voci, noi, in qualche modo, le riattiviamo cambiando la narrazione di chi è stato socialmente sconfitto, le riattiviamo per dar loro una nuova forza nel presente. Non consulto mai l’archivio per tornare al passato ma per riattivarlo nel nostro presente.
Nel caso di mia sorella Liliana mi preoccupava tantissimo che la sua memoria istituzionale scomparisse con la scomparsa del suo caso giuridico. Per questo è diventato fondamentale quel suo archivio personale che io ho chiamato archivio degli affetti. È importante per tanti motivi: perché è un archivio che va al di là dello Stato, non è l’archivio di un soggetto cittadino ma quello di una soggettività affettiva molto più ampia e credo che esistano molti così nel mondo. Tutti ne abbiamo diritto, perché archivio significa anche memoria collettiva e quindi chi vuole distruggere gli archivi tenta anche di distruggere questa memoria collettiva.

Nel saggio Vietato scrivere Joanna Russ parla della condizione della scrittura femminile che spesso viene considerata o un’eccezione rispetto al canone maschile, oppure una dimensione episodica. D’altra parte c’è stata una letteratura femminista che ha tentato le riscritture, penso a Christa Wolf con il mito. Il lavoro che io intravedo nella tua produzione mi sembra un passaggio ulteriore: ovvero decostruire l’idea di identità e fare del soggetto un’entità relazionale, portare in vita tante voci e restituire sfaccettature, dimensioni differenti anche contraddittorie. Lo hai fatto con Liliana e mi sembra che abbia una sua centratura nel rapporto tra la scrittura e le identità o soggettività. È così?
Io credo che la grande potenza della scrittura stia proprio nella possibilità di risvegliare in qualche modo il linguaggio. Credo che nella vita quotidiana siamo pervasi da una narrativa del potere che è un discorso ovviamente patriarcale e il mio ruolo come scrittrice è quello di mettere in discussione questo discorso dominante, di interrogarlo, di sovvertirlo quando mi è possibile. Perché chiaramente anche la grammatica è una forma, un’espressione, del potere. Ogni frase non è solo una rappresentazione della realtà ma è una forma di realtà a sua volta. Quindi includere diverse esperienze permette di cambiare la grammatica e di cambiare il discorso e permette di creare effettivamente nuovi modi di vivere il mondo, non soltanto di vederlo. A me interessa moltissimo che ci sia una connessione con la vita materiale, mi sembra fondamentale. Ogni volta che scrivo mi piace produrre delle scene che ragionino proprio sulla relazione materiale tra il corpo e il territorio. Certamente è una relazione fondamentale e complessissima e per questo mi interessa creare delle situazioni narrative che possano problematizzare questo tipo di relazione e rapporto. Credo che sia un discorso che va un po’ oltre quello dell’identità, nel senso che spesso l’identità rimane all’interno di un contesto culturale un po’ staccato da quella che è la nostra relazione materiale che ci permette di entrare in contatto gli uni con gli altri e all’interno della nostra comunità. E credo che la scrittura sia capace di fare questo. Penso che sia un’esperienza estetica ma anche di conoscenza a tutti gli effetti: ha a che fare con le nostre emozioni, con gli affetti, ma ha a che fare anche con le idee, con il modo di vedere il mondo. Ci sono alcuni concetti che riguardano la nostra visione del mondo che ci sembrano intoccabili, irreversibili. A me interessa la scrittura in senso critico proprio perché mi chiedo continuamente se le cose devono per forza essere così o potrebbero essere in un altro modo. E sono molto partigiana dell’“altro” modo, lo difendo sempre.

In Italia l’organizzazione dell’istruzione prevede che l’insegnamento nei gradi superiori -liceo e Università – un insegnamento formale ancora improntato sull’idea dell’auctoritas che trasmette. Io sono un’insegnante di scuola primaria e la mia esperienza è diversa, capovolta perché passa dai corpi. Il corpo è il luogo centrale dell’apprendere ed è una pedagogia necessariamente basata sulla domanda, sul dubbio, sull’interrogazione. Come mai si fa così tanta fatica a decostruire quest’idea di sapere che diviene un sapere della tradizione, un sapere patriarcale? Perché tanta resistenza alla pedagogia dei corpi? È differente l’approccio in Messico, nell’America del Sud o negli Stati Uniti.

Mi sembra un cambiamento assolutamente necessario. Io ho esperienza di insegnamento solo a livello universitario ma è sempre stato per me importantissimo creare degli spazi orizzontali che fossero spazi di dialogo, di conversazione. Ho avuto a mia volta esperienze nei miei anni universitari con professori, soprattutto uomini, che si auto-ergevano a detentori di un sapere che cercavano di trasmettere quasi fisicamente da testa a testa. Anche la struttura delle aule trasmetteva tutto questo: il professore in alto, gli studenti in basso. L’architettura stessa fa parte della pedagogia che vogliamo impostare. Ecco, se vogliamo sovvertire tutti questi discorsi e queste narrative che in qualche modo ci limitano, io credo sia necessario vedere l’aula stessa come una relazione, come un luogo privilegiato che però può anche diventare un luogo di resistenza. Ho lavorato molto a partire dalla pedagogia laboratoriale: ho condotto laboratori di scrittura creativa da una prospettiva, tipica degli Stati Uniti, che mi ha dato proprio le basi per mettere in discussione tutto quello che invece mi infastidiva della tradizione della “tertulia” latinoamericana in cui c’era chi pensava di poterti dire questo va bene, questo va male, questo è letteratura e questo non lo è. Come se si potesse effettivamente decidere una cosa del genere.
Ho dunque prediletto una formula laboratoriale orizzontale, di scambio continuo in cui ognuno è responsabile per ciò che dice, per il proprio discorso, e si creano delle relazioni intellettuali ma in tutti i sensi possibili di questa parola, che non hanno a che vedere soltanto con la mente, ma che coinvolgono anche il corpo, essendo fisicamente coinvolti nella discussione. Quindi non è casuale che nei miei laboratori si facciano attività, si esca fuori dall’aula, si creino progetti con la comunità circostante. Attività che permettano al corpo di non stare seduto o fermo tutto quanto il giorno: per esempio camminare e scrivere, scrivere e camminare. Credo che proprio lì sta l’apprendimento e anzi sono convinta che all’interno di un’aula tutti possano imparare, che non ci sia questa differenza tra studenti e professori.
Una frase di Maria Negroni dice: “L’idea è un’emozione dell’intelletto”, è molto preziosa perché apre a una nuova antropologia. È un’autrice argentina, intellettuale e poeta che ha tenuto un laboratorio di scrittura con gli studenti nel nostro dottorato a Houston. All’università è tutto troppo regolato, troppo frammentato però penso che poco a poco si può modificare quest’approccio. D’altra parte sono convinta che la mia esperienza come professoressa sia fondamentale per la mia scrittura perché mi tiene contatto con le domande e con le nuove generazioni. E questo è vero privilegio.

Cristina Rivera Garza è insegnante, scrittrice, poeta e saggista. Nell’intervista sono citate tra le sue opere Escrituras geológicas, una raccolta di saggi su autori e autrici contemporanee e del passato, Nessuno mi vedrà piangere del 1999 e Il segreto, del 2010 editi entrambi da Voland, e L’invincibile estate di Liliana tradotto in italiano da Giulia Zavagna per Sur edizioni nel 2023. Le sue raccolte poetiche e la scrittura critica non sono ancora state tradotte in italiano.

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Samanta Picciaiola

Samanta Picciaiola, phd in Letteratura Italiana presso La Sorbonnel Paris IV, direttiva della Società italiana delle letterate, già presidente dell'associazione Orlando di Bologna, esercita la professione di docente di scuola primaria dal 2005. Lavora sul nesso genere educazione collaborando con istituzioni scolastiche, università, istituti e gruppi di ricerca e riviste tra cui il Educare alle Differenze, Cesp, Femmsdc, Leggendaria. Ha fondato l’associazione Falling Book Aps, ha coordinato la ludoteca Lab in Cantiere e il gruppo Scuola e formazione presso il Centro delle donne di Bologna. È cocuratrice della collana La Biblioteca di Sofia sulla letteratura per bambine e ragazze della Biblioteca Italiana delle donne di Bologna per Tab Edizioni per cui ha pubblicato insieme a Roberta Ortolano "Sono stata anch’io bambina. Dialoghi con Elena Gianini Belotti".

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