VARCARE CONFINI 8.  CHRISTIANA DE CALDAS BRITO

Clotilde Barbarulli, 11 gennaio 2023

Nel dicembre 2019, durante il convegno biennale della SIL dedicato al lavoro delle donne, si tenne un workshop sulla rappresentazione letteraria, e non solo, della migrazione femminile. (Per saperne di più sul convegno, e scaricare l’ebook con gli atti dei workshop clicca qui). Coordinava uno dei workshop Lidia Curti, una donna straordinaria che purtroppo abbiamo perso lo scorso anno.
Fra i numerosi interventi, una riflessione di Chiara Ingrao sulle sfide da lei affrontate nella scrittura del suo romanzo “Migrante per sempre”, ispirato ad una storia vera di emigrazione italiana ma anche di immigrazione in Italia. Quando abbiamo deciso di pubblicare questo testo su Letterate Magazine, Chiara ci ha proposto di allargare lo sguardo anche ad altre storie di donne migranti. La scelta che abbiamo fatto non pretende di essere esaustiva, solo di sollecitare curiosità e spunti di riflessione. Vi proporremo sia vicende di migrazione dall’Italia verso altri paesi, in diversi luoghi e diverse epoche, sia storie di immigrazione in Italia da vari angoli del mondo: dalla Somalia alla Romania, dalla Bosnia alla Palestina, dall’India agli Stati Uniti, all’Argentina, al Belgio.


«Col portuliano la lingua viaggia»

“Maroggia”, donna di mare e pioggia, è la protagonista di uno dei romanzi in cui l’autrice brasiliana trasforma le parole italiane. Un’esperienza nomadica che mette in discussione l’appartenenza nazionale e linguistica senza dimenticare un conflitto dove si mescolano interessi, sfruttamento, bisogni, diritti e speranze

Di Clotilde Barbarulli

 

Se Le parole per dirlo rievoca immediatamente il libro di Marie Cardinal (1975) nell’affrontare la fatica e il dolore di una donna che cerca di riprendersi la vita attraverso il linguaggio, qui si riferisce a Christiana De Caldas Brito che, nel variegato mondo della letteratura della migrazione,  ha saputo lavorare  in particolare sul lessico, come il poeta-mendicante che in un suo racconto raccoglie e scopre le parole abbandonate simili a monete dai passanti: la sua interessante e riuscita sperimentazione sull’italiano, sia sonoro che scritto, rivela una capacità creativa che deriva da un profondo intreccio con la lingua in cui ha scelto di scrivere.

In “Chi” e “Azzurra” emerge lo stupore dei suoni della nuova lingua, in “Ana de Jesus” la mescolanza delle due lingue fino a “Maroggia”, dove l’autrice, nata a Rio de Janeiro ma residente in Italia dal 1989,  gioca con le parole italiane e le trasforma, un esperimento e strumento affabulatore. Ha contribuito così, insieme ad altre autrici (in Ali Farah, Aden, Ibrahimi e Vorpsi, ad esempio, l’italiano è ibridato a seconda della lingua d’origine di chi scrive) ad arricchire ed inquietare il sistema letterario italiano con un’esperienza nomadica che attraversa i sensi della lingua e rimette in discussione nozioni codificate di appartenenza nazionale e linguistica, favorendo una  letteratura italiana contemporanea sempre più mischiata, offrendo segni di contaminazione anche in questa Europa che ha come dichiarato guerra a una parte dell’umanità.

De Caldas Brito ha cominciato a scrivere narrando del conflitto fra parole della lingua d’origine, depositarie di emozioni e ricordi, e parole della nuova lingua ancora non legate ai vissuti personali (“Linea B”), delineando  giovani donne lacerate dal dover lasciare affetti e  lingua, spaesate nell’abbandonare il familiare per l’ignoto, e che, quando prendono a raccontarsi, spesso ricorrono ad un  miscuglio di portoghese ed italiano, un’invenzione lessicale che manifesta  la nostalgia:  «Pesante e vuoto, il zaino, come la mia vita adesso. Di tanta saudade mi sinto spezzettare dentro. Se nonna estava in Italia, con certezza mi insegnaria a rammendarmi». Così Ana de Jesus usa il “portuliano”, un italiano sgrammaticato e contaminato dal portoghese, molto simile a quella degli emigrati italiani arrivati in Brasile alla fine dell’Ottocento e inizio del Novecento. Una lingua – dice de Caldas – prima di essere fatta di parole è permeata di sensazioni, di odori, di suoni, di cose viste, toccate, assaporate: la lingua dà una struttura mentale ad un essere umano, ed è anche un modo di interpretare la realtà.

All’origine  di questa  scrittura così intensa, di questi racconti  fulminei nelle rivelazioni, nelle silenziose catastrofi o nelle epifanie di gioia e dolore, sta uno sguardo che sa penetrare nel labirintico castello dell’esistenza, uno sguardo che sa dire  le difficoltà ed i silenzi dell’oggi, ma sta anche Christiana, un soggetto in transito tra più spazi culturali: è, per me, il linguaggio del desiderio, della corporeità, delle relazioni, un linguaggio  che attraversa i sensi e libera le parole dalla loro natura sedentaria.

Non accetta l’ordine reale e simbolico dato, non accetta che sia ridotto al silenzio un conflitto dove si mescolano interessi, potere, sfruttamento, bisogni, diritti e speranze: è una scrittura che non dimentica il sociale e le sue ingiustizie, come in “Io, polpastrello 5.423”, dove i  seimila polpastrelli maschili e femminili, «neri, sudamericani, africani, asiatici e dell’Europa dell’Est» – alcuni con «rughe così profonde che sembravano pieni di cicatrici» o «sporchi di pomodoro» per la raccolta, altri «macchiati di sangue» per il lavoro nelle corsie – decidono di recarsi in questura per adempiere all’obbligo delle impronte digitali, provocando il caos e, addirittura, qualche dubbio su tale forma di controllo da parte degli stessi funzionari, mentre l’Italia, senza il lavoro di quei migranti, rischia di fermarsi. Con una intensità visionaria ed ironica, come è nella cifra dell’autrice, le parole possono sembrare uno sfarfallio lieve, ma l’ironia è tagliente, nell’interrogare l’Italia che vede il fenomeno dell’immigrazione come una «invasione da fermare», in cui donne e uomini sono solo vite di scarto.

Nei romanzi “500 temporali” (2006) e “Colpo di mare” (2018), ad esempio si è coinvolt* in una narrazione in cui emerge il sottile confine fra conoscibile e inconoscibile, fra ieri e oggi, fra realtà e visionarietà e – come nei racconti   “Memoria invasa” e “In fondo all’occhio” –  si attraversano confini della mente, del tempo, dei luoghi. Se il terreno del familiare è spinto a ridisegnarsi continuamente nel grande esodo dell’oggi, il linguaggio di deCaldas Brito ci offre un continuo passaggio fra quotidiano, onirico, fantasmatico, in un pianeta «confuso, mischiato,  complicato dalla nuova e complessa mobilità delle migrazioni» (Said). Di fronte agli arroccamenti identitari odierni, Christiana de Caldas Brito dà rilievo ad  una poetica impastata con l’utopia: apre delle crepe sia nel monolitismo dell’odierna società, sia nell’appiattimento seriale sui modelli massmediatici. É una narratrice del mutamento, del transito di persone, di identità, di tempi, di sentimenti.

Le voci di donne migranti e nomadi che – nei suoi testi – cominciano a narrare e a narrarsi in un italiano spezzato/arricchito da parole e frammenti culturalmente ‘estranei’, inquietano dunque la lingua  dominante. Le parole migranti, sottratte ad un significato codificato, sono immerse nel fluire del linguaggio, attraversando etichette e confini: «le lingue s’impollinano reciprocamente e sono rivitalizzate (Gloria Anzaldua)». Ma de Caldas va oltre.  Fra parole impolverate e parole libere, fra corpi e mondi che irrompono nella Storia, viene incontro la figura di Maroggia, che porta nel nome la fusione del mare e della pioggia: sussurra sulla spiaggia parole «inesistenti» quali «marondamare, spazzoventolato, marnulla», e vive isolata nella comunità di pescatori, perturbati dalla sua diversità. Con la morte in una tempesta del marito pescatore – che accettava  di ‘dividerla’ col mare – Maroggia non torna più a casa ed  è felice di stare  dove le onde finivano in bianca schiuma,  fino a diventarne lentamente parte, a maresfarsi.

De Caldas Brito con Maroggia arriva ad immergersi, letteralmente e figurativamente, nel mare, nella complessità odierna della contaminazione, dell’essere ai confini di identità stabili. L’autrice qui fonde e impasta i termini («unghiglie, pioggiarono, massacqua, marinverno») con una  invenzione lessicale che mi sembra rappresentare poeticamente il polimorfismo dell’oggi,  una metamorfosi della parola che accompagna la metamorfosi della donna, figura eccentrica oltre  i rassicuranti confini del senso comune.

Chi legge può non accettare di vedere la figura eccentrica di Maroggia nel «mucchio di maralgheconchiglioggia seduto sulla spiaggia», senza lasciarsi  attraversare dalla parola liquida che, disfacendosi nell’indistinto, accompagna il progressivo sconfinare della donna nel mare e nella sabbia, mentre gli occhi si sciolgono in «verdacqua» ed i seni si mutano in «morbide meduse», ed allora si sentirà abbandonat* sulle linee di confine. Oppure, consapevole del molteplice attraverso la contaminazione di storie, culture e corpi dell’altrove, accetta di entrare nello spazio della perturbante, in quel sottile crinale fra conoscibile e inconoscibile, ed allora riuscirà  ad operare il necessario scarto radicale – che  questi  testi migranti attraversati propongono – rispetto alle tradizionali piattaforme identitarie. È tale lessico poetico, impastato col vissuto, con la visionarietà e l’utopia, a far comprendere – creando un contagio affettivo e intellettivo in chi legge – la realtà di un mondo profondamente conflittuale, diviso, a livello di classi e di stati, tra dominatori e dominati, tra ricchi e poveri, tra integrati ed emarginati: proprio questa letteratura, tratteggiando un percorso obliquo, mobile, articolato non su criteri di inclusione/esclusione, ma sulla fatica e sul piacere dell’incontro e dell’ascolto, crea spazi di resistenza.

Le  inquietanti pagine poetiche di De Caldas Brito, transazioni corpo-mondo della diaspora, si oppongono così alla pietrificazione dell’eterno presente della globalizzazione che tende a svuotare tutt* di ogni futuro. È un mescolamento di codici che, mettendo in discussione storia, canone, centro e periferia, ci induce a leggere atri/menti, secondo scansioni irregolari, e passa così, interrogandoci, in un continuo divenire, sul nostro corpo, il corpo del pianeta, il corpo del linguaggio.

Christiana de Caldas Brito, Amanda Olinda Azzurra e le altre,  Lilith, 1998

Christiana de Caldas Brito, Qui e là. Racconti, Iannone 2004

Christiana de Caldas Brito, 500 temporali, Iannone 2006

Christiana de Caldas Brito, Colpo di mare, Effigi, 2018

Edward Said, Nel segno dell’esilio, Feltrinelli 2008.

Gloria Anzaldua, Terre di confine. La frontera, Palomar, 2000

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Clotilde Barbarulli

Clotilde Barbarulli collabora attivamente con associazioni quali il Giardino dei Ciliegi di Firenze, la Libera Università Ipazia, la Società Italiana delle Letterate. Si occupa di autrici contemporanee fra lingue e culture e di scrittrici '800/900. Tra le sue pubblicazioni: con L. Brandi, I colori del silenzio. Strategie narrative e linguistiche in Maria Messina (1996); con M. Farnetti, Tra amiche. Epistolari femminili tra Otto e Novecento (2005); con L. Borghi Visioni in/sostenibili. Genere e intercultura (2003), Forme della diversità. Genere, precarietà e intercultura (2006), Il Sorriso dello Stregatto (2010)."Scrittrici migranti: la lingua, il caos, una stella" (ETS 2010),

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