Sorelle in una casa rotta

Beatrice Sciarrillo, 6 aprile 2024

«Se non ci fosse una madre perduta non esisterebbero figlie pronte a chiamarsi sorelle. E la mancanza ha una forza generatrice mastodontica. Dove c’è una ferita, un buco, un vuoto, il desiderio preme. Vivere è l’effetto inconscio di una mancanza». Intervista a Ilaria Caffio, poeta, che esordisce in prosa con il romanzo “Bara di seta”

Di Beatrice Sciarrillo

La famiglia è un organismo feroce, spietato, che non ammette errori, non mantiene promesse, non esenta i suoi membri da sensi di colpa, rancori, risentimenti. Nella narrativa, la famiglia è spesso il punto di partenza per raccontare la propria storia personale, la storia di un sé che tenta di staccarsi da un’istituzione sociale che vuole invece fagocitarlo, ridurlo a una funzione predefinita e stereotipata.
Raccontare la storia della propria famiglia, ma allo stesso tempo distanziarsene per continuare a vivere, questo è il tentativo della protagonista e voce narrante di Bara di Seta, l’esordio di Ilaria Caffio, edito da Solferino nella collana I pavoni, diretta da Teresa Ciabatti. La storia di una donna che, dopo l’inaspettata scomparsa della sorella, si ritrova sola con due genitori anziani. Questa donna, di cui non conosciamo il nome, tenta di mantenere vivo il ricordo della sorella, la persona a lei più cara, scrivendole, ricordandola, venendo a capo degli errori, degli abusi e degli smarrimenti che hanno dovuto affrontare insieme. Conscia però che, con la perdita della persona più amata al mondo, ha perduto la capacità di amare.

Nel 2022, nell’antologia Data di nascita, curata da Teresa Ciabatti per Solferino, usciva il tuo primo racconto: Il tuffo. La protagonista, una bambina innamorata del proprio fratello maggiore viene costretta a vederne il cadavere nella bara. Dopo due anni, la bara ritorna nel titolo del tuo esordio, ma, invece del legame tra una bambina e il fratello maggiore, Bara di seta è la storia di una sorellanza tra due bambine, in una casa triste, invasa dalla malattia della madre che, fin dalla loro nascita, ha abdicato alla sua funzione di cura. Quanto la nascita di un rapporto totalizzante tra le due bambine è condizionata dall’assenza della figura materna?
Se non ci fosse una madre perduta non esisterebbero figlie pronte a chiamarsi sorelle. L’assenza, questa presenza speciale e rarefatta, si esplica con il prodigio della mancanza. E la mancanza ha una forza generatrice mastodontica perché è strettamente legata al desiderio. Dove c’è una ferita, un buco, un vuoto, il desiderio preme. Vivere è l’effetto inconscio di una mancanza.

Parlare di famiglia nel XXI secolo significa mettere in discussione etichette predefinite, ruoli tradizionali, il fatto che una madre biologica possa non essere l’unica madre, il fatto che la cura possa essere dispensata non dalla donna che ti ha messo al mondo, ma da una sorella, da un padre, da una persona priva di legami di sangue. Rivendicare, nella letteratura, nuovi ruoli sociali, non più fondati sulla consanguineità, può essere il mezzo per rivendicare questa scelta nella vita?
I legami di sangue sono un intoppo, ciò che ci è stato consegnato. Famiglia, invece, sono le persone che scegliamo e che ci scelgono. La letteratura è un sogno spietato. Che cosa puoi rivendicare con un coltello puntato in mezzo agli occhi? La letteratura accende, urla, ma prima c’è la vita.

Il teatro di ogni famiglia è la casa, dove la forzata relazione può generare un’aria pesante, oppressiva. Nel tuo romanzo, madre e padre vivono separati, rivendicando entrambi la proprietà di una stanza – la madre la camera da letto, il padre la cucina. Fuori dai confini della propria camera, madre e padre si sentono come forestieri, delegittimati a entrare e abitare nelle stanze altrui. Le bambine, invece, condividono la cameretta: due letti, un tetto spiovente, un armadio dentro cui si rifugiano per non sentire i litigi dei genitori. Cosa significa sentirsi stranieri tra le mura della propria casa? Cambia qualcosa, nella suddivisione degli spazi, quando le bambine diventano prima adolescenti, poi donne?
Sono stati gli esseri umani ad avermi gettata in quella condizione di estraneità. La rabbia nasce dove non c’è uno sguardo nel quale riconoscersi. I luoghi non possono tradirti, sono grandi guaritori e ascoltatori. Ma non voglio essere distruttiva. A volte le persone diventano luoghi e la meraviglia si amplifica.
Bara di seta è un racconto claustrofobico ambientato in una casa rotta, il riassunto delle case della mia infanzia. Quelle perse, quelle scambiate, quelle abitate da estranei come me. Io e i miei familiari siamo stati un gruppo di estranei che gridavano amore senza saperselo scambiare.
Il bagno, la cucina, le camere da letto, sono spazi identici solo per quelle sorelle che non hanno ancora superato la soglia. Aspetta che penetrino. Ognuna di loro penserà, entrandoci per la prima volta, spero che sia mia la stanza più grande.

Nel tuo romanzo si avverte una grande cura nella scelta delle parole, una limatura attenta, rigorosa. Hai esordito giovanissima in poesia: come è stato il paesaggio dalla poesia alla narrativa?
Ho scritto Bara di seta con la selvatichezza con la quale scrivo le poesie. Dopodiché ho affinato ogni parola. Ho preteso un’armonia. Per me, le parole devono produrre un suono intonato altrimenti la scrittura resta un gesto inespresso.

Questo è il tuo esordio nella narrativa: da quali autrici e autori trai il nutrimento per la tua scrittura?
Giovanna Sicari.

Ilaria Caffio, “Bara di seta”, Solferino 2024

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Beatrice Sciarrillo

Beatrice Sciarrillo è nata a Torino nel 1998. Ha studiato Beni Culturali presso l'Università degli Studi di Torino e ha frequentato corsi di Giornalismo Culturale e il corso di editoria della Giulio Perrone editore. Attualmente vive a Roma dove frequenta il Master di scrittura creativa dell'Accademia Molly Bloom. La sua scrittura si nutre della lettura di romanzi di Moravia, Ginzburg, Ernaux, Nothomb ed Elena Ferrante.

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