SULLA CREAZIONE. Itinerari. Il lungo viaggio di una fotografa

Chiara Cremaschi e Silvia Neonato, 23 marzo 2024

È uscito il suo libro “Itinerari. Il lungo viaggio di una fotografa”, un’autobiografia per immagini e parole dove Paola racconta come ha appreso e amato il suo mestiere. E poi l’impegno politico, in Cile come in Sudafrica, nel movimento delle donne, tra gli operai e i contadini del suo Piemonte

Di Chiara Cremaschi e Silvia Neonato

Cara Silvia,
A Paris Photo ho conosciuto il lavoro di Paola Agosti, e il suo libro Itinerari. Il lungo viaggio di una fotografa. È un libro autobiografico, che racconta una vita in rapporto alle immagini incontrate e create. Paola Agosti parte dalla sua Torino per incontrare il mondo, e ce lo restituisce con passione e cura. La fotografa entra in relazione con le persone più diverse, nei luoghi più disparati. È una dote, saper incontrare. Ti ho pensata perché, in un capitolo del libro, parla della rivista “Noi Donne” con affetto. Ho immaginato che tu fossi lì negli stessi anni, che abbiate condiviso un pezzo di storia. Mi ha fatto immaginare una Roma potente e vivace che io non ho conosciuto e che per lei (per voi?) è stata fondamentale, per il lavoro, ma anche per le amicizie, come quella di cui lei racconta con Augusta Conchiglia. A Parigi le ho incontrate insieme. È bello vedere le amicizie che attraversano i decenni. Ti ho pensata anche in un altro punto del libro, quando Agosti racconta che, giovanissima, si isola in un pranzo ufficiale in una conversazione fittissima con Salvador Allende parlando dei rispettivi cani.
Tu hai letto il libro? Conosci il suo lavoro di fotografa?

Silvia Neonato risponde. Sono arrivata da Genova a “Noi donne”, la rivista dell’Udi, nel 1977 e mi sono stabilita a Roma. Paola Agosti collaborava già da anni e la ricordo leggera, rapida, efficiente, di non molte parole in quella redazione di donne alle prese con il femminismo e la storia gloriosa dell’Udi, Unione donne italiane. Una redazione ciarliera, politicizzata, allegra, di giovani giornaliste e fotoreporter in cui la caporedattrice, Gabriella Lapasini, socialista, veneta, grande maestra di giornalismo, era una delle “madri”. L’altra “madre” era la direttrice, Vania Chiurlotto, una dirigente dell’Udi, intelligente, aperta, a volte severa, ma sempre giusta. Noi tutte, anche Paola credo, eravamo delle “figlie” alla ricerca di un posto nel mondo. Come lei racconta nel libro, anch’io stavo imparando sul campo un mestiere e avevo bisogno di mantenermi. Come lei, fotoreporter impegnata politicamente, mi interessava molto di più il senso del mio lavoro che non i guadagni (scarsi, a dire il vero) o l’affermazione professionale.
Non lo dico per idealizzare quel periodo: ricordo però che eravamo assetate di esperienze, a tratti spavalde, sfidanti, e pure studiose e militanti. Il bello di quella redazione – che Paola ricorda come il suo miglior posto di lavoro di quei tempi – è che noi tutte credevamo in quello che facevamo, nella libertà femminile, nelle lotte per legalizzare l’aborto, per portare il tema del maschilismo e della violenza maschile all’attenzione della politica e dei nostri compagni.
Io ero l’unica che non veniva né dal Pci né dal Psi, non avevo una famiglia militante alle spalle come Paola e come molte redattrici della rivista, legate al Partito comunista italiano. Arrivavo direttamente dal collettivo femminista del Manifesto di Genova, dove avevo cominciato a scrivere qualcosa per “Noi donne” (grazie alla mia frequentazione all’Udi) e per i quotidiani “il manifesto” e pure “Il Secolo XIX” di Genova, dove poi sono tornata nel ’90 e ho concluso la mia carriera.
Ma allora non sapevo neppure se volevo fare la giornalista e tanto meno pensavo alla carriera. Desideravo essere economicamente autonoma facendo un lavoro che avesse un senso politico: facevo supplenze a scuola, scrivevo qualche articolo ed ero una femminista a tempo pieno. Un po’ per caso un po’ per amore e un po’ per il desiderio di avventurarmi nel mondo lasciai Genova e partii da sola per Roma, dove vissi sei mesi ospite nella casa di Roberta Tatafiore, che poi coinvolsi a “Noi donne”, che allora era una rivista settimanale per cui avevo già fatto qualche articolo e che alla fine del 1980 mi avrebbe assunto. In redazione passavano, in quegli anni, collaboratrici come Elena Gianini Belotti e Rosetta Loy. Poi divenne direttrice Anna Maria Guadagni, una di noi, una “figlia”, appena trentenne. E noi lentamente ci liberavamo del padre, ovvero il Pci che tanto peso aveva avuto nella storia di “Noi donne”. Ero felicissima perché scrivevo ciò che pensavo e stavo in mezzo a donne e uomini che stimavo. La presidente della cooperativa Libera Stampa era la staffetta partigiana comunista Marisa Ombra, la prima che conoscevo nella mia vita.
Paola era rimasta una freelance e lavorava per molte testate, ma di sicuro è quella che ha scattato più immagini del movimento delle donne di qualunque fotografo italiano: e lo scrive nel suo appassionantissimo libro. La ricordo quando fotografava le manifestazioni femministe, correva avanti e indietro lungo i cortei con le sue macchine a tracolla. E poi veniva in redazione a venderci i suoi scatti, a chiacchierare, commentare. Le piaceva che le chiedessimo sempre il suo parere su ciò che andavamo progettando e facendo. L’ho scoperto soltanto lo scorso anno quando ho presentato il suo libro a Genova. Amava “Noi donne” per l’atmosfera che vi regnava e anche perché a noi incuriosivano sia la sua capacità di catturare immagini sia le sue idee, cosa che pare agli altri giornali non interessava proprio. Rivederci settantenni, dopo tanti anni, e ritrovarci fedeli a quei tempi senza essere nostalgiche, è stata una bella consolazione.

CHIARA CREMASCHI DIALOGA CON PAOLA AGOSTI

Nel racconto che fai nel tuo libro, la macchina fotografica entra nella tua vita quasi per caso, tramite il lavoro in camera oscura a Roma, e ci resta, declinando nel tempo la forma espressiva e contribuendo alla costruzione di rapporti e relazioni. Sembra la descrizione di un rapporto d’amicizia.
Ero approdata a Roma il 1° marzo del 1968, non c’era ancora la fotografia nella mia vita, però ero stata assunta in qualità di apprendista nello studio di grafica dei Fantastici Quattro, dove mi misero a lavorare in camera oscura. Da Charlie, un ragazzo giamaicano, appresi i primi rudimenti. Il lavoro di camera oscura però non mi piacque, né allora né mai. Le mie foto le ho sempre fatte sviluppare e stampare da laboratori per professionisti. Devo però a quell’esperienza l’incontro con Augusta Conchiglia, che in quella stessa camera oscura stampava le proprie fotografie, e che sarebbe stata importante, poi, per la mia formazione professionale. Augusta era reduce da un viaggio assai
impegnativo in Angola, dove aveva trascorso molti mesi fotografando i guerriglieri del MPLA, il movimento popolare di liberazione dell’Angola, all’epoca in lotta contro il regime coloniale portoghese. Fu lei a trovarmi anche casa, nel suo stesso condominio, e nel mio appartamento installammo una piccola camera oscura.
Augusta aveva già lavorato per il Piccolo Teatro a Milano e quindi le venne naturale cercare una collaborazione come fotografa di scena. In un primo tempo al Teatro Sistina ci diedero la possibilità di fotografare alcuni spettacoli. Ne ricordo in particolare uno, in cui si esibì la cantante Miriam Makeba. Purtroppo, tutto ciò durò poco, perché Augusta ripartì per l’Africa, e io mi ritrovai sola, senza arte né parte, a inventarmi un mestiere, senza aver frequentato alcuna scuola. Per fortuna, però, a Roma mi sentii subito accolta da fotografi anche più grandi di me, tra questi in particolare Mario Orfini, Mario Dondero, Franco Pinna, che mi aiutarono a muovere i primi passi. Ognuno di loro mi insegnò qualche cosa e diede sempre un giudizio sulle mie fotografie che mi aiutò molto. Ricordo che, con Mario Orfini, e con la sua futura moglie Franca De Bartolomeis, feci un primo reportage in Sardegna.

Avere in mano una macchina fotografica ti ha avvantaggiato nella relazione con il soggetto che volevi ritrarre o hai dovuto imparare a gestire questa relazione?
Questo è venuto in un secondo momento, quando mi sono dedicata di più al ritratto. Nel periodo in cui ho fotografato gli spettacoli, soprattutto in teatro, la relazione con l’altro non esiste. Poi,
certo, ho fatto lavori anche per giornali come “Radiocorriere” e “Sorrisi e canzoni tv”. In quel caso, andavo negli studi RAI, ma non mi interessava particolarmente la relazione con l’altro. Poi, mi sono dedicata a fotografare l’attualità politica, ma in quel contesto lavoravano anche altre persone. C’era piuttosto il problema di doversi giostrare fisicamente per farsi spazio in mezzo agli altri colleghi, un po’ aggressivi. Certamente, non mi ponevo in quel momento il problema di “mettermi in relazione con”. Il problema era portare a casa le fotografie, poterle vendere, guadagnare i primi soldi. Il problema di relazionarmi con il soggetto che fotografo arriva più tardi e sicuramente è un elemento molto importante. Però, in quella fase di apprendistato, no. Ma anche più avanti, non è qualcosa che mi ha mai turbato più di tanto. Io ho facilità a mettermi in relazione con le persone, non sono timida. L’ho visto, ad esempio, molto più avanti, quando ho lavorato con Giovanna Borgese, al libro “Mi pare un secolo”, in cui abbiamo fatto ritratti a più di 100 intellettuali europei che
avevano attraversato il 900: lei, più timida di me, la vedevo, a volte, in difficoltà.

Come hai allenato il tuo sguardo, affinando la tua capacità di fotografare?
Con un duro lavoro, anche grazie all’apprendimento delle opere dei grandi maestri. Questo mi ha aiutato molto, le scuole di fotografia in Italia non c’erano. Quindi io ho molto studiato l’opera dei grandi maestri, dei fotografi umanisti francesi, degli americani della Farm Security Administration…potrei fare mille nomi. Sicuramente, aver comprato, sfogliato e studiato molti libri di fotografi è stato importante. Io raccomando sempre di studiare l’opera dei grandi maestri.

Quanto l’arte e il cinema hanno influenzato il tuo lavoro?
La storia dell’arte certamente moltissimo, ho fatto il liceo artistico e mi è sempre interessata l’arte contemporanea. Sono cresciuta con una mamma molto attenta a tutto ciò, che mi ha trasmesso qualcosa di innato rispetto a riconoscere i grandi nomi tra i pittori del ‘900. Quindi mi sono formata in un contesto in cui l’arte era importante. Il cinema forse meno. Peròricordo che mi piacevano moltissimo i  film in bianco e nero, e che sognavo, quando sarei andata in pensione, di passare il resto dei miei giorni guardando solo film in bianco e nero, possibilmente quelle commedie americane anni ’40 in cui tutto finisce bene! Però, sicuramente, nella composizione, l’inquadratura, l’utilizzo della luce naturale, tutto quello che avevo visto al cinema è servito.

Mi interessa molto la tua dichiarazione che «in fotografia si debba raccontare per quanto possibile la verità o, almeno quello che il fotografo crede sia la verità. Per un fotografo è fondamentale l’umiltà, l’onestà, il non prevalere mai come protagonista su chi e cosa si sta fotografando»

Questo penso che sia uno dei principi del fotogiornalismo che ha praticato la mia generazione di fotografi. Credo che l’artificio fotografico, se così lo possiamo definire, è qualcosa che non mi appartiene: io le foto non le ho mai costruite, ho sempre cercato di cogliere l’attimo fuggente. Poi, certo,
ci possono essere state delle situazioni in cui ho aiutato il soggetto a spostarsi da una parte o dall’altra, però, in questo senso quando dico: “la verità”, penso: “riprodurre la realtà senza infingimenti”. E poi ricordarsi sempre che non sei tu protagonista, ma che lo è la persona, la
situazione, quello che tu stai ritraendo; quindi, non sentirti mai in nessun modo tu al centro, ma chi o cosa stai ritraendo.

Perché il bianco e nero?
Ho fatto colore tanto quanto bianco e nero. Il bianco e nero l’ho scelto poi per fare i libri, gli ho dato più un segno autoriale. Ma per campare fotografavo tantissimo anche a colori. È importante che ci si ricordi che Paola Agosti ha fatto questo mestiere anche per mantenersi. Quello era il mio mestiere. Non è che potevo fare delle scelte artistiche. Poi certo, il bianco e nero mi piace di più, trovo che sia più essenziale. Poi, per me il bianco e nero è il colore della memoria, è molto più elegante. Però sogno in bianco e nero. Oppure, se sono dei colori, sono talmente sfumati che sembrano bianco e nero.

È molto importante, secondo me, che tu dichiari più volte che essere fotografa è un lavoro, che deve essere retribuito. So per esperienza che imparare a farsi pagare non è semplice, e che spesso si glissa sulla questione, per i lavori ritenuti “artistici”.
Sicuramente c’è una co-responsabilità dei fotografi, in tutto questo. Soprattutto dei fotografi alle prime armi, che pur di avere qualcosa di pubblicato- sono disposti a dire: “se mi pubblichi la prima foto, la firmo, allora io sono contento e mi accontento”. Ha senso. Quello che mi indigna, mi scandalizza è che questa cosa non finisce mai. Ancora adesso io ricevo delle proposte di lavoro dove non è nemmeno contemplato il fatto che il lavoro va retribuito. Ormai ho una formula:
“guardi, io campo da 50 anni con il mio diritto d’autore, quindi o pagare o niente”.
Quando inizi, devi avere le spalle coperte, perché ora che inizi a guadagnare qualcosa di tempo ne passerà. Poi dipende anche da quello che scegli di fotografare, puoi fare la pubblicità, puoi fare
l’architettura, puoi fare l’attualità…Dipende anche dove vivi. Io ho avuto la fortuna di vivere a Roma e quindi di fotografare tutto quello che a Roma capita ogni giorno, dalla politica al cinema al Vaticano alla televisione …se uno vive in una città di provincia, o anche in una grande città che però non è il centro, devi ritagliarti un tuo spazio. Io non credo che sia facile, anzi credo che sia molto difficile.
Per i miei lavori più autoriali, a volte sono un po’ partita “sperando di…”, a volte con un minimo di copertura, però la copertura rispetto ai reportage legati più all’attualità era difficile averla, perché c’erano le agenzie che arrivavano sempre prima di te. Per i lavori costruiti più su una mia idea ho cercato quindi di partire avendo trovato prima dei clienti, o editori, ma potevano essere anche enti locali. Perché un minimo dovevi rischiare. A volte ho rischiato un massimo, a volte un minimo, ne è sempre valsa la pena. Ancora adesso, che sono tanti anni che non faccio più foto e lavoro solo con le foto d’archivio, paga il fatto di aver, allora, deciso di andare in certi paesi e di averli fotografati in una certa fase storica, di aver coperto certi avvenimenti di cronaca importanti.

«Custodire la memoria. Testimoniare. Questo per me è il valore ultimo della fotografia»: sono le ultime parole del tuo libro. Mi sembra il filo rosso che lega il tuo lavoro di fotografa non solo nel reportage, ma anche nella pratica archivistica che ti ha sempre accompagnata: testimoniare e custodire.
Sì, ma anche in quello che ho cominciato a fare quando ho smesso di fare la fotografa: la curatela di libri, sempre fotografici, ma con un taglio storico. In questo senso, forse, custodire la memoria è più legato a quell’aspetto del mio lavoro. Per quanto riguarda l’archivio, è sicuramente molto importante averlo tenuto in ordine dal primo momento del mio lavoro, perché con quello poi ho potuto continuare a lavorare tanto, anche quando ho smesso di fare la fotografa. Prima di avvicinarmi al mestiere, di mio ero piuttosto disordinata, venivo sempre rimproverata dai genitori per il mio disordine. Poi, nel tempo, vedendo come mio padre e mia madre hanno conservato le loro carte, i loro taccuini, i loro diari, i loro carteggi, è incredibile come questa cosa mi sia arrivata poi “geneticamente”, come io abbia capito che era qualcosa che mi arrivava evidentemente da un modello, che in famiglia c’era, di conservare e di valorizzare. Forse questo lavoro di valorizzazione delle memorie famigliari l’abbiamo fatto meglio mio fratello, in qualità di storico, ed io. Quindi io ho iniziato dall’inizio del mio lavoro a formare il mio archivio. Una amica, Franca De Bartomeleis, che aveva lavorato 9 anni alla De Agostini, mi spiegò come si faceva, anche se commise un errore imperdonabile: le sfuggì di dirmi che bisogna mettere anche la data. Quindi all’inizio ho navigato un po’ così, cercando di ricordarmi se quella foto era del 69 o del 70…poi ho imparato. Il mio è un archivio analogico, archivio ancora con le schede, come si faceva un tempo.
Io credo che le relazioni sentimentali, affettive, amicali, mi aiutino molto, ma anche mettere mano tutti i giorni al mio archivio mi aiuta. Mentre giravamo il documentario “Il mondo in uno scatto”, Claudia Pampinella, la regista, mi ha chiesto quale fosse la mia identità e io risposto “L’archivio”.
Mi ha colpito, rivedendolo. Una volta ero a Milano a casa di Laura Lepetit, fondatrice de La Tartaruga, casa editrice di libri di sole donne. Le dissi che la ammiravo molto, non solo per quello che aveva creato, ma anche perché era riuscita a mettere al mondo due figli, cosa che io non ero riuscita a fare. Lei mi rispose: “Ma figurati, i tuoi figli sono le tue fotografie”. Ma io non ero
d’accordo, le dissi che sentivo che è un po’ diverso. In effetti è molto diverso, ma lei aveva visto lontano, nel senso che tutta questa dedizione, tutto questa cura, per l’archivio, non dico che la dedicherei a dei figli, però sicuramente un po’ di vero c’è.

Paola Agosti, “Itinerari. Il lungo viaggio di una fotografa”, Postcart, 2023

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Redazione LM

Scritture, politiche, culture delle donne. E non solo. Alla ricerca di parole, linguaggi, narrazioni che interpretino e raccontino cambiamenti e spostamenti in corso. Nello scambio tra lettrici, autrici e autori – e personagge. REDAZIONE: Silvia Neonato (direttrice), Giulia Caminito, Laura Marzi, Loredana Magazzeni, Gisella Modica, Gabriella Musetti, Sarah Perruccio
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