Cara Giulia, ho letto il poderoso, Donne d’America. Diciotto scrittrici raccontano gli Stati Uniti del secolo scorso (Racconti Bompiani, 2022) per la cura tua e di Paola Moretti, e ho sentito il desiderio di scriverti per saperne di più. Il volume è frutto di un lavoro di squadra, finalizzato alla ricostruzione di un canone narrativo statunitense visto dalla parte delle sue protagoniste, e si avvale della traduzione di Paola Moretti e Amanda Rosso.
«Così funziona, spesso, con le donne scrittrici, che tu devi metterti gli stivali alti, al ginocchio, infilarti nell’erba, battere forte i piedi, scacciare i serpenti e avvicinarti alle lapidi, far pulizia, spostare le foglie, ripulire la pietra”: Giulia Caminito descrive in questo modo il loro coraggioso lavoro di scavo ed esumazione delle scrittrici americane.
Diciotto scrittrici, dicevamo, dai nomi noti e meno noti, da Djuna Barnes a Kate Chopin, da Charlotte Perkins Gilman a Edith Wharton, alle scrittrici afrodiscendenti, come Zora Neale Hurston, ci raccontano un’America minore, in cui le donne popolano un universo spesso rurale, fatto di relazioni familiari, destini, storie perturbanti e misteriose, indugiando sempre su particolari che ne disegnano vividamente la scena: utensili, arredamenti, stoffe, fattorie sperdute nelle grandi pianure, fienili adibiti a case che non si sono possedute, carte da parati e stanzette misteriose.
Spesso la narrazione di queste scrittrici americane è magica: si avvicina al gotico ma più spesso la sensazione che ne discende è quella della difficile maturazione di una identità femminile, vista affermarsi con sospetto e sempre un po’ soffocata.
Una raccolta corale, una “terradilei”, scrivi nella bella introduzione, mentre Amanda parla di “una eredità senza testamento” nella sua Nota di Traduzione, «rinegoziando il linguaggio di allora con la sensibilità del presente».
Come è nato il vostro lavoro collettivo che ha portato alla pubblicazione dei racconti inclusi in Donne d’America?
Giulia. È stato un lavoro pieno di emozioni e molto vivificante. Siamo felici ti abbia convinta e appassionata.
L’idea nasce vari anni fa, circa nel 2016. Lavoravo per una casa editrice che si occupava di recuperi letterari e avevo iniziato a mettere da parte alcuni nomi e alcuni racconti di scrittrici statunitensi, poi li avevo accantonati. La cartellina in cui erano salvati si intitolava appunto “Donne d’America”. Un giorno ho pensato di riprendere in mano la raccolta e di coinvolgere anche Paola Moretti e Amanda Rosso nella ricerca e poi nella traduzione. Sono entrambe lettrici e studiose di letteratura di genere e amanti delle ricerche storiche e letterarie. Insieme ci siamo mosse in varie direzioni, ognuna di noi ha cercato delle autrici e dei racconti che ci sembrassero adatti alla raccolta e poi abbiamo fatto delle letture incrociate confrontandoci.
Non tutte le scrittrici trovate e lette sono finite nella raccolta, in alcuni casi perché a una di noi non convinceva la loro scrittura, altre perché non abbiamo trovato il racconto adatto, in altri casi ancora abbiamo fatto delle scelte di metodo. Per esempio, per quanto riguarda le afroamericane abbiamo deciso di non includere le memorie di schiavitù ma concentrarci sulla produzione narrativa. Questo perché non volevamo schiacciare la scrittura delle donne nere sulla schiavitù, ma riportare la loro vena creativa e letteraria. Abbiamo provato a muoverci cercando commistioni culturali e geografiche e siamo approdate ad autrici che neanche noi avevamo mai sentito nominare, che ci hanno abbagliate. Volevamo trovare racconti molto diversi tra loro che raccontassero spaccati della vita delle donne nelle campagne, nelle fabbriche, nelle città. Donne religiose, donne artiste, donne sposate, donne libere, madri e non, povere e ricche, per seguirne le tracce attraverso i loro racconti.
Ci siamo divertite, ma è stato anche un lavoro delicato, fatto di decisioni difficili. Non è mai semplice, infatti, creare una raccolta di questo tipo, qualcosa rimarrà sempre fuori e non tutto verrà rappresentato nelle pagine scelte. Però abbiamo messo insieme i racconti più noti dell’epoca con quelli meno conosciuti e raggiunto una bella varietà e consistenza. Ci siamo molto focalizzate anche sugli apparati, le introduzioni, le note biografiche e la cronologia, così da fornire degli strumenti in più per collocare i racconti e le scrittrici.
Giulia. Ad Amanda e Paola vorrei chiedere qual è stato l’aspetto più complicato di questo lavoro di traduzione. So che ci hanno lavorato tanto e si sono confrontate senza sosta. Com’è andata lavorare a quattro mani a racconti così diversi?
Amanda. Premetto che io sono una sostenitrice del lavoro a più mani. La traduzione è una ricetta, secondo me, si possono seguire le istruzioni e ottenere risultati sempre diversi. E soprattutto, si deve valorizzare l’aspetto creativo e l’immaginazione di chi traduce, perché anche quello è un ingrediente essenziale. Nello spazio liminale dell’intervento di chi traduce, avviene un incontro che beneficia della presenza di più voci.
Per proseguire con l’analogia culinaria, c’è chi dice che troppi chef in cucina non si dovrebbero mai avere, ma penso che questa esperienza così “vivificante”, come l’hai definita tu, sia stata possibile perché ci abbiamo lavorato tutte e tre insieme. Paola è una traduttrice esperta e una scrittrice, mentre io mi approcciavo alla traduzione letteraria quasi da neofita, avendo tradotto fino a quel momento solo brevi racconti e articoli divulgativi. Ci è voluto un po’ prima di trovare il ritmo, di comprendere i rispettivi stili di traduzione – che sono molto diversi, elemento azzeccato in una raccolta così polifonica –, ma quel processo di reciproca lettura e ascolto ci è servito per sintonizzarci sulle voci delle scrittrici. Il nostro obiettivo era restituire al testo quella specifica “grana della voce” di cui parla Roland Barthes, e prima di tutto abbiamo dovuto imparare a riconoscerla l’una nell’altra. La revisione di traduzione di Paola, che è attenta e precisa laddove io sono più confusionaria e istintiva, è stata fondamentale nell’ambito della traduzione, ma soprattutto nel trovare un metodo, una calma e una sistematicità che a me mancano e che lei possiede.
Paola. Sarebbe ingenuo pensare che una traduttrice faccia tutto il lavoro da sola, è sempre necessario un passaggio finale in cui gli occhi più freschi di chi fa la revisione facciano girare bene una frase che non si riusciva a sbloccare, trovino il sinonimo più azzeccato, rendano più fluida la prosa laddove si incrosta di una lingua posticcia a metà tra quella di origine e quella di arrivo. Nel caso di questa antologia c’è stato un passaggio in più, non solo lo studio e la ricerca ci hanno permesso di acquisire una notevole confidenza con i testi, ma la revisione incrociata che ci siamo fatte io e Amanda prima di consegnare, il dialogo costante e lo scambio reciproco ha reso i testi tradotti più vitali di quanto lo sarebbero stati altrimenti. Come dice Amanda, è vero che abbiamo un approccio diverso alla traduzione, delle inclinazioni naturali differenti, lavorare insieme è stato un ottimo metodo per arricchirci a vicenda, si può dire che ci siamo completate in maniera molto naturale. Così come è stato naturale dividerci i testi a seconda di quanto li sentivamo vicini alla nostra sensibilità. L’esperienza di traduzione di Donne D’America, ad oggi, è stata una delle più belle e stimolanti in cui mi sia trovata a lavorare.
Loredana: Amanda e Paola, quali sfide avete affrontato nella traduzione e quali racconti vi hanno più impegnata dal punto di vista linguistico ma anche di potenza della voce da restituire?
Amanda. Trovo azzeccato soprattutto l’aggettivo perturbante, che usa Loredana, perché è spesso presente, nella vita quotidiana di queste donne, un elemento di negoziazione con una realtà mai davvero progettata per accoglierle, che rimane sempre estranea e quietamente minacciosa.
Per quanto riguarda la traduzione, uno dei racconti più complessi per me è stato il brevissimo Storia di un’ora, di Kate Chopin, proprio per quella tonalità rarefatta e immediata, “liscia come un osso” direbbe James Baldwin, che richiede di mantenere il senso di straniamento dell’originale senza però apportare alcun abbellimento.
Per ragioni di linguaggio e sfumature del testo, molto complesso da tradurre è stato Vita nelle ferriere di Rebecca Harding, un racconto dalla sintassi complessa e palpabile, che fa della lingua parlata dai personaggi un elemento chiave per definirne le relazioni. Harding trascrive l’accento gallese quasi foneticamente e applica al registro e alla sintassi la stessa distanza che esiste fra un immigrato gallese working-class e i suoi borghesi datori di lavoro statunitensi. Era importante per me restituire al testo in italiano quell’impossibilità di accedere alla “lingua del padrone” di Wolfe e Deborah senza vilificare la loro, senza che questa contrapposizione si traducesse in una gerarchia di valore. Ho cercato di restituire al testo sia la ricchezza dell’oralità che la densità della prosa evocativa di Harding.
Paola. Affrontare la traduzione senza Amanda mi avrebbe atterrita, mentre sapere di avere una compagna in questo compito lo ha reso molto più gioioso e gestibile. I racconti più difficili, per quanto mi riguarda, sono spesso anche quelli a cui mi affeziono di più perché ho passato più tempo a ragionarci sopra.
Penso in particolare a Il profilo di Willa Cather – la storia di un pittore che sposa una donna dal volto sfigurato – che con la sua prosa avvolgente e sinuosa è particolarmente distante dalla narrativa che leggo e che scrivo, ma non per questo meno affascinante. E a Una giuria di suoi pari di Susan Glaspell, tra i miei preferiti della raccolta. In questo caso l’argomento trattato è un omicidio, in un’isolata fattoria in campagna viene trovato morto un uomo, strangolato nel letto, e la vedova non sa dire cosa sia successo. Sulla scena del crimine sono presenti il pubblico ministero, lo sceriffo con la moglie e l’uomo che ha scoperto l’accaduto insieme alla rispettiva moglie. Quello che succede mentre gli uomini sono impegnati a perlustrare l’abitazione è che le due donne, tramite indizi molto più sottili e ardui da cogliere, riescono a ricostruire le dinamiche coniugali e rintracciare un possibile movente. Il racconto si gioca tutto su una serie di equilibri e contrapposizioni, gli uomini e le donne, il lavoro ufficialmente riconosciuto e il lavoro domestico, la legge oggettiva e la morale personale. Tutto ciò è sottoposto alla tensione del genere “giallo” e allo stesso tempo pervaso di ironia. Per tornare alla metafora culinaria di Amanda, era un dosaggio di ingredienti delicato da gestire, ma alla fine delizioso.
Donne d’America. Diciotto scrittrici raccontano gli Stati Uniti del secolo scorso, a cura di Giulia Caminito e Paola Moretti, traduzione di Amanda Rosso e Paola Moretti, Racconti Bompiani, 2022
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