Uomini e donne in divenire, sballottati dagli elementi e immersi in un paesaggio brulicante di vita e di presagi, sono i protagonisti di Espropriazioni, la raccolta di racconti di Barbara Buoso. Che qui racconta il suo processo creativo, le sue ispirazioni letterarie e i suoi progetti futuri
Di Amanda Rosso
Espropriazioni è una raccolta che ha un odore, un sapore, un tepore specifici. Pubblicato quest’anno da Vita Activa Nuova nella collana La Rosa dei Venti, quello di Barbara Buoso è un libro che racconta con i sensi. Dall’immagine di copertina, Valli Grandi Veronesi di Luigi Ghirri, alla fattura zigrinata della sovraccoperta, Espropriazioni rimane impresso nell’epidermide, si accuccia sulla retina.
Si colloca all’interno di quella tradizione letteraria che affida al linguaggio l’onere e l’onore di farsi multimediale: Barbara Buoso sa virare con maestria dal tattile al metaforico, dal sulfureo al cristallino, dalla grandine alla siccità nello spazio di un paragrafo, e restituisce testi quasi fotografici, documentaristici e pittorici.
Figli e figlie di un Polesine che è forza centrifuga e centripeta, centro nevralgico e custode di una natura impervia e impietosa, i suoi personaggi si muovono in un territorio che Buoso tratteggia con una precisione linguistica minuziosa e una volontà politica partecipe. Il lavoro, la fatica, le ingiustizie e crudeltà dell’esistenza vengono filtrati da un linguaggio immaginifico che sa rievocare lo spazio e il tempo eterno dell’universo e il minuscolo dettaglio del quotidiano.
La penna di Buoso è millimetrica, ma possiede un respiro ampio e una volontà poetica di sperimentare con il linguaggio e le immagini. Nella sua scrittura gli astri, gli eventi naturali, gli animali e gli insetti della campagna si animano di una pulsante potenza descrittiva e di una potente vitalità metaforica.
Ho avuto il piacere di dialogare con l’autrice sulla genesi della raccolta, le tematiche, i personaggi, le sue influenze, e i suoi progetti futuri.
Amanda: Carissima Barbara, grazie ancora di aver accolto con entusiasmo le mie domande. Prima di tutto vorrei partire dall’inizio, tal titolo, Espropriazioni. Il termine “espropriazione” appare solo una volta, nel racconto La casa del figlio, ma è un sentire strisciante, che impregna le vicissitudini di tutti gli altri personaggi…
Barbara Buoso: possiamo parlare di filo conduttore, del filo che entra nelle crune mi verrebbe da dire, dei vari racconti fino a stringerli tutti assieme. Mi è venuta in mente la cruna perché tutte queste vite, nei racconti, sono esistenze che faticano a entrare, che vedono un pertugio molto stretto per farsi largo nella propria esistenza: ci riescono sempre, ci tengo a dirlo anche se ci sono entrati da espropriati per poi essere riammessi con giravolte e capitomboli che solo la vita dà.
A: Qual è stata la genesi di questa raccolta, raccontaci qualcosa di più del suo viaggio…
BB: il disegno complessivo, il recinto entro cui mi sono mossa ha come perno “la cacciata dal paradiso”, l’espulsione, il frame sui cui mi sono fermata è l’istante in cui – se fosse un fermo immagine – vedi i volti, le mani, le voci di chi “è rimasto” fuori, è stato mandato via, ha perduto e come campo largo ho una terra polesana che mi rappresenta “il fondale” entro cui si muove l’umanità. Per me la pianura padana è la terra perfetta per la messa in scena perché a guardare queste vastità mai potresti pensare che ne resti fuori, sono talmente vaste, ti perdi a guardare. Questa espulsione mi ha impegnato nella parte centrale di tutti i racconti: dovevo mostrarli al largo, smarriti, alle prese con le risorse estreme di sé per – nella parte finale – ricomporli, vederle come persone nuove che escono dalla cruna, da una fessura stretta nella melma, tra la lacrime per poi vagire, forse, essere nuove persone. Non necessariamente rispondenti alle aspettative che il lettore aveva per loro! Si sono ripresi la vita: sono liberi, anche da me che li ho creati!
A: Leggendo Espropriazioni ho avuto la sensazione che fosse una raccolta che ha al centro dei temi fondamentali: uno di questi è il lavoro, sia perché in alcuni casi, come in Falene d’estate, è la tematica portante del racconto, ma anche quando non si pone al centro è un elemento sempre presente, un sipario, quasi, pronto a richiudersi per inghiottire tutto.
BB: abbiamo parlato di quinte poco fa e ora c’è il sipario: certamente mi sono mossa nel teatro della vita e il lavoro occupa buona parte della nostra vita, è un tempo che si mangia i nostri giorni, gli anni e spesso, va detto, la vita tutta. In Falene d’estate il lavoro è la “sfida” dei due compari, è la sfida alla loro giovinezza, ai loro piani amorosi, ai loro progetti “farabutteschi”. Il lavoro pesantissimo e sfiancante non gli impedisce, anzi, li fa brillare, riguardo alla loro esistenza, li esalta e ce li fa vedere anche nella loro “fanciullezza” pura. Quando sentono i boati prendono paura, tornano infanti, cercano la fuga, la mamma in qualche modo: temono la morte; ecco il rovesciamento di fronte, il basculante tra vita e decadimento.
A: I tuoi racconti delineano una raggiera di relazioni: quelle fra amanti, fra coppie sposate, fra figli e madri, fra parenti, ma la relazione che ho sentito attraversare la narrazione è quella con la terra, sia quella geografica, il Polesine e il Veneto, che la terra dei campi, da arare, da curare, da amare, e da cui fuggire…
BB: tutto si svolge sotto questo cielo, su questa terra: siamo tutti qui con i nostri drammi, con le preoccupazioni, con gli entusiasmi. Io sono nata in provincia di Rovigo, in mezzo ai campi in una famiglia patriarcale: vivevamo in dodici in una casa colonica all’interno di un fondo agrario di cui eravamo conduttori (una forma di contratto agricolo). Erano 14 ettari di terra che, secondo il padrone, dovevano sfamare tutti (prima di tutto lui) coltivati a mais, barbabietole, granturco, soia, vigneto. A lavorare la terra c’era mio zio, suo figlio, mia mamma e mia zia, mio padre non ha mai lavorato perché aveva una malformazione cardiaca e veniva chiamato in casa “capeina”, o “jachetina” perché non era in tuta da lavoro ma vestiva abiti “civili”. Si è preso tante pietrate da mio zio e da suo nipote perché secondo loro rubava pane a tradimento: non era stato operato da giovane perché soldi non ce ne erano, prendeva una pensione di poche lire che, quando morì, nemmeno fu riversata a mia mamma che aveva 4 figli piccoli. Siamo rimasti lì fino a 14 anni, poi il padrone ci ha cacciati e mia mamma con la buona uscita si è comprata una casa in paese. Io sogno quella casa, quei campi, quelle lotte in casa, quelle sconfitte da parte di tutti, donne e uomini: non so parlare di altro.
A: Uno degli elementi che ho apprezzato maggiormente della tua scrittura, Barbara, è la tua precisione immaginifica. Racconti con minuzia le procedure di smaltimento dei rifiuti, di raccolta dei cocomeri, e allo stesso modo sei capace di infondere un afflato metaforico e metafisico alle tue descrizioni di pelli lunari, cascate di efelidi, e insetti che sembrano un’orchestra. Puoi parlarci un po’ del tuo processo di scrittura, del modo in cui ti approcci al racconto?
BB: tendo a non imbarcarmi mai in cose che non conosco: quando ho un’idea narrativa la prima domanda che mi faccio è “se ne so” di quanto andrò a scrivere, ovvero quello che hai ben evidenziato tu: se so, visto che parlo di un RLS (rappresentante lavoratore sicurezza) che deve fare dei corsi per mantenere il titolo, che tute deve mettere, che DPI (dispositivi individuali di sicurezza) deve avere: il tutto per usare il materiale portandolo nella direzione del senso del mio racconto. Clara – in DPI – sa ben adottare i suoi dispositivi di sicurezza (che non sono certo le scarpe con la punta di metallo o la visiera) per proteggersi dal desiderare la vita. Io, poi, all’interno della mia azienda sono una RLS! (E, ovviamente, sono una esperta cocomeraia)!
A: Nei tuoi scritti c’è una presenza, una fisicità, direi quasi, molto pronunciata. I corpi si abbronzano, la pelle si scortica sotto il sole, i corpi ingrassano e deperiscono, eiaculano, si spogliano e si bagnano di secrezioni. Il corpo sembra parlare delle relazioni, si fa linguaggio per esprimere un dolore, i suoi cambiamenti delimitano i movimenti ondivaghi delle relazioni fra i personaggi…
BB: Cesare Pavese scrive che «L’amore è la più a buon prezzo delle religioni». Anche quando si fa la comunione si “prende” il corpo di Cristo, no? Perfino la religione ci impone di essere “cannibali”, di mangiare corpo e sangue. Come si può scrivere, quindi, senza parlare della pelle, del sudore, degli umori, dell’adipe, del cazzo? Che esseri imperfetti avrebbe creato Dio se non fossimo così ardimentosi da parlare di questo involucro entro cui la gente ci connota? Troppo poco ancora se ne parla.
A: Ogni racconto è accompagnato da una citazione. E le tue citazioni, dalla Bibbia alle scrittrici del Novecento, dalla poesia a Pier Vittorio Tondelli. Potresti parlarci un po’ delle tue influenze, degli/lle antenati/e letterari che ti sono di riferimento?
BB: io purtroppo sono una che procede per ossessioni. Ho letto Camere separate di Tondelli quando cercavo dei libri che parlassero della mia omosessualità, in realtà cercavo scene di sesso per dirla come si vede: quindi lo ho scoperto e me ne sono innamorata e ho letto tutto. Come per Aldo Busi, cercavo dei libri che parlassero della violenza subita e della voglia di morire e l’ho scoperto e la voglia di morire mi è passata (almeno in quel momento). Poi ero innamorata di una donna che amava Pavese e, ovviamente, ho letto tutto Pavese. Ecco, dici ancora bene tu: procedo in modo ondivago!
Mi sono resa conto di aver citato solo uomini, lo so. Ho scoperto tardi le scrittrici, dico la verità. Fino a una decina di anni fa, anzi, quando ho conosciuto la libreria delle donne di Padova e mi sono innamorata di Ilaria Durigon (la mia povera editor, anche, tra le varie cose) io pensavo che i maschi fossero più bravi a scrivere delle donne. Poi ho letto Ortese, Romano, Ramondino, L’Opera al nero di Yourcenar, Morante, Deledda…Virginia Woolf e che dire, ho letto capolavori. Non penso più che i maschi siano più bravi, però io li leggo sempre volentieri.
A: Infine, e ne approfitto per ringraziarti di cuore della tua disponibilità e rinnovare i miei più sentiti complimenti per la raccolta, vorrei chiederti dei tuoi progetti futuri, se hai in mente nuovi racconti, magari un romanzo, o ti dedicherai ad altri progetti?
BB: grazie a te delle domande che mi hanno dato modo di “parlarti” di me, anche, conoscerci. Progetti ne ho tanti, come direbbe mia nonna «ho gli occhi più grandi della bocca» (ti devi cercare il significato e le lettrici e i lettori anche). A settembre uscirà un romanzo che tanto ha spinto Mario Martone e sono felicissima e poi… poi non roviniamo le sorprese! Grazie di cuore.
PASSAPAROLA:








Amanda Rosso

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