Armida, Solidea, Rosina, le erbe, la guerra, l’amore. Le guaritrici e le famiglie numerose di contadini e contadine della Bassa modenese (tra cui la sua) nel romanzo “L’argine delle erbarie” con cui Silvia Cavaliere ha vinto la terza edizione di LetteraFutura, il premio creato dal Festival inQuiete per le autrici esordienti
Di Silvia Neonato
«Ho scritto negli anni qualche racconto e mai avrei pensato di esordire cinquantenne con un romanzo. E tanto meno avrei pensato di scrivere a partire dalle mie radici. Ho un dottorato in letteratura portoghese, me ne sono occupata a lungo, ho studiato anche quella mozambicana, in portoghese naturalmente. Nel 2009, quando ho visitato la mostra per Fabrizio De André a Genova sono scoppiata a piangere. Mi chiedevo: ma io ho fatto quello che desideravo? Così ho deciso che avrei cominciato a studiare canto e ora canto da solista nel quartetto Cantiga Caracol… E poi sono tornata nella Bassa modenese per scrivere il mio romanzo». Canta in portoghese ma scrive in un italiano ricercato Silvia Cavalieri, docente delle medie a Bologna, vincitrice con il romanzo “L’argine delle erbarie”, della terza edizione di LetteraFutura, il premio creato dal Festival inQuiete per le autrici esordienti, in collaborazione con BPER e l’editore Solferino, che pubblica l’opera vincitrice.
La vita di tre generazioni di guaritrici (o erbarie o erbane, ne parleremo poi), si intreccia a quella di uomini e donne di Motta degli Azzolini, un borgo della Bassa modenese percorso da Secchia, il fiume sempre chiamato così, Secchia, senza articolo, perché umanizzato, esso stesso personaggio del corale romanzo d’esordio di Cavalieri. Della Bassa Modenese è suo padre, proprio della frazione dove si svolge buona parte del romanzo. «Mio padre non ama le fiabe, mi ha sempre raccontato le storie dei suoi posti, della sua famiglia e del fiume. Suo papà, ovvero mio nonno, era uno dei 15 figli di Giovanni Cavalieri e di sua moglie Matilde: le loro vite si sono svolte a Motta tra due guerre, la vita dei campi, i figli, i nipoti, la ripartenza dopo il 25 aprile 1945».
Nel borgo agricolo d’inverno scendono i pastori con le loro bestie e trovano ricovero nelle stalle degli abitanti con i quali scambiano un bicchiere di vino e i propri prodotti ed è uno di questi pastori a far innamorare la giovane erbaria Armida con la sua testa selvaggia di capelli neri. Arrivano sempre ugualmente gli zingari coi loro figli e il loro piccolo circo, zingari che riparano padelle di rame e coltelli, che il nazifascismo perseguita, mentre gli abitanti di Motta li accoglieranno memori anche dei giochi comuni dei loro bambini. Personaggi e personagge non mancano nell’intenso e appassionato romanzo di Silvia, molti e molte sono suoi avi e ave di cui ha intrecciato le storie, naturalmente inventando ma a partire da documenti, foto, racconti orali.
Ci sono due prozii, Pipi e Morris, che sono stati partigiani e poi incarcerati nel dopoguerra. E anche la prozia Rosina era salita in montagna. «Dei miei prozii ci sono le lettere dal carcere e tanti racconti familiari, di Rosina nulla. Ho trovato negli archivi storici la data di entrata nella Resistenza, il nome di battaglia, Luisa, le sue imprese. Sua figlia non sapeva niente, Rosina non ne ha mai più parlato, come del resto molte partigiane che, finita la guerra, sono ritornate al loro posto in famiglia, quasi in fretta per far dimenticare l’avventura partigiana».
L’ha aiutata il fratello Enrico, uno storico orale. E moltissimo le ha narrato anche la zia paterna Solidea quando Silvia ha deciso di scrivere questo romanzo. E con quel suo incredibile nome tratto dalla canzone anarchica Addio Lugano al verso in cui si dice “è sol idea d’amore”, Solidea è diventata una delle giovani protagoniste del libro. È l’amica della piccola, magica Liuba, figlia di Armida e nipote di Zaira, le erbarie residenti a Motta. Nel romanzo c’è una grande cura della lingua, ci sono i nomi di tante piante e uccelli e molti vocaboli sono frutto di una ricerca dell’autrice. Dove hai trovato erbarie per esempio? «Erbarie, o anche erbane, non è dialetto, si usa poco, ma deriva dalla forma latina. Ho letto i lavori di Erica Maderna, studiosa della medicina delle streghe o medichesse o erbarie, sono stata ad ascoltarla. “Herba et verba” sono gli strumenti delle guaritrici che conoscevano benissimo le erbe e usavano poi anche le parole, le formule diciamo magiche che facevano parte del rito della guarigione. Usavano anche parole segrete, sussurrate, non perché nascondessero chissà cosa, ma perché facevano appunto parte delle cure a cui la comunità ricorreva per umani e animali, anche se per qualcuno erano streghe».
Cavalieri ha il blog “Le Vocianti, voci dal pluriverso femminile”, nato nel 2011 da un’associazione femminista bolognese. Sei interessata al femminismo sciamanico? «Sì, molto, anche se poi mi colloco sempre sui bordi, sui margini e infatti le donne del mio libro sono così. La piccola Liuba è di così poche parole, ma è in comunione totale con la natura. E pure sua madre Armida è una guerriera schiva e silente: è una mia ispirazione personale, questa, ma vorrei anche che l’armonia col vivente facesse maggiormente parte della nostra cultura, come la circolarità del tempo e la relazione con le altre. Mi piacerebbe che la relazione tra donne ricalcasse quella complice e solidale delle medichesse».
A Genova Cavalieri arriva perché l’ha invitata Ivana Librici, la vincitrice genovese del concorso LetteraFutura dello scorso anno. E questo è un bel passaggio di testimone, complice e solidale come piace a Silvia Cavalieri.
Silvia Cavalieri, “L’argine delle erbarie”, Solferino 2024
PASSAPAROLA: GRAZIE ♥Silvia Neonato
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