Cara Amanda,
hai voglia di leggere il libro di Adriana Lorenzi “Dalla parte sbagliata”? Ho pensato a te dopo aver ascoltato il tuo incontro con Giusi Palomba, l’autrice de “La trama alternativa”. I due testi si parlano. Mi ha colpito anche la scelta delle scritture differenti che compongono il testo. È un dialogo epistolare, ma c’è anche una voce importante che monologa, ed è quella del carcere stesso. Il libro è edito da Sensibili alle foglie, che si definisce in questo modo: “una cooperativa di produzione e lavoro, ma è anzitutto un modo di guardare, un modo di cercare, un modo di porre domande sui vissuti delle esperienze estreme, sui dispositivi totalizzanti che sono all’opera nelle istituzioni, sull’immaginario, sulle risposte adattative e sulle risorse creative delle persone che le attraversano. Le esperienze estreme, d’altra parte, affondano le loro radici nella normalità, e per questo possono porsi di fronte ad essa come efficaci specchi di consapevolezza.”
Cara Chiara,
“Dalla parte sbagliata” è un libro potente, intrinsecamente politico, non solo per il suo intento di educare e risvegliare le coscienze su un tema complesso come quello del carcere, ma perché per farlo alterna la voce del penitenziario, l’edificio antropomorfizzato, alla voce narrante, a quella delle persone detenute. C’è una volontà di offrire uno spazio di narrazione del sé diretta e senza filtri, un intento non pedagogico o giustizialistico, ma fortemente solidale.
La narratrice scrive lettere a Cristina, una persona che non le risponde, e questa condizione si specchia in quella dei detenuti e delle detenute, che si trovano privati non solo della libertà e del comfort, ma anche di interlocutori. Anche della possibilità di riappropriarsi della narrazione di sé scevra da sensazionalismi e tecnicismi, in un quadro che non li riduca alla pena e al reato, ma che restituisca vitalità e complessità alla loro condizione umana.
Adriana Lorenzi è scrittrice e formatrice nell’ambito della scrittura autobiografica, e si percepisce dalla volontà inamovibile di portare quelle biografie alla luce. La sofferenza e il dolore, la violenza esercitata e subita, ma soprattutto i luoghi e le persone che li abitano, talvolta nel degrado e nell’indifferenza, talvolta nella tenerezza. Ho apprezzato in particolar modo la capacità di Lorenzi di mantenere un equilibrio sottile fra la narrazione del sistema carcerario e dei suoi abitanti, fra la critica legittima a un sistema palesemente fallimentare e il percorso di presa di coscienza – che talvolta non si compie – di chi ha commesso un crimine. Riconoscere ai detenuti e le detenute dignità non significa sminuire il dolore che possono aver inferto ad altri, significa riconoscere che l’essere umano non è condannato all’immutabilità e che il portone del carcere non è il confine dove i diritti umani smettono di contare, dove le persone si spogliano della loro umanità e dove il nostro sguardo, quello della società civile, non deve più avventurarsi. È semmai il contrario. È proprio nei luoghi liminali della giustizia che si deve essere vigili, partecipi e coinvolti.
CHIARA CREMASCHI DIALOGA CON ADRIANA LORENZI
Quando è nata l’idea del libro? Da dove hai iniziato a scrivere?
È nata quando ho ‘perso’ la docente di lettere, amica che lavorava da anni con me nel laboratorio di scrittura perché aveva deciso di prendersi una pausa dall’insegnamento in carcere. Mi mancava molto nella quotidianità della progettazione di percorsi di scrittura, di idee di scrittura. Così ho cominciato a scrivere per ovviare a quell’assenza e nello stesso tempo per riflettere sull’efficacia del laboratorio di scrittura come motore di cambiamento nelle persone detenute che vi aderiscono.
Il carcere parla in prima persona. Come hai trovato la sua voce?
Ho sempre avvertito che il carcere è un corpo con una voce: è una creatura. Ne avverto la forza, lo spessore, gli odori, gli umori ogni volta che varco il suo cancello. Volevo che fosse lui a raccontare di sé, e non i detenuti e neppure io, così sono stata anche più libera di dire del carcere.
Perché hai deciso di costruire un’assenza attraverso un epistolario?
Perché la lettera colma l’assenza: la distanza tra due persone – chi scrive la lettera e chi la riceve – il tempo che trascorre dal momento della scrittura a quello della lettura. In carcere i detenuti scrivono lettere senza averlo mai fatto prima perché sentono la mancanza delle persone care e non bastano mai i pochi minuti di telefonata a settimana. La forma epistolare mi è sembrata la più naturale: loro scrivono lettere per chi abita all’esterno e scrivono a me lettere di settimana in settimana. Adoro poi la forma epistolare.
La protagonista del libro racconta: «Perché́ far scrivere i detenuti? Questa è la domanda che ci è stata fatta infinite volte, quando siamo andate nelle scuole a parlare di carcere e a presentare il nostro giornale. Abbiamo risposto che si trattava di non relegarli al ruolo di detenuti, ma di valorizzare il loro essere anche figli, mariti, compagni, fratelli, padri e amici che hanno qualcosa da raccontare. Un modo per non partire dal reato compiuto, piuttosto per arrivarci lentamente, ma inesorabilmente e poterlo affrontare, guardandolo come fosse un dipinto appeso alla parete, magari anche sfiorandolo senza farsi troppo male.» Quanto hanno apportato alla tua scrittura, le loro? Anche per te, come per la protagonista, i «testi fanno sbocciare altri testi?»
La protagonista è la donna senza nome che scrive lettere, che si firma in modo diverso e che riflette sui temi legati al carcere: è la maestra di scrittura, colei che guida la redazione del giornale in carcere e il laboratorio di scrittura. La risposta alla tua domanda è comunque che sì: i testi degli altri fanno sbocciare i miei, e i testi che mi invitano a scrivere sono quelli letterari ma anche quelli dei detenuti ai quali devo comunque l’idea del libro.
Chi è la prima persona a cui hai fatto leggere il tuo testo?
Mio marito, perché da sempre legge per primo ciò che scrivo ed è un lettore – e un giudice – onesto e imparziale che fa osservazioni che sono sempre per me preziose per rivedere poi il libro.
Mi faresti l’elenco delle cose amate e detestate del tuo lavoro, l’esercizio ispirato a Roland Barthes che fai fare alla tua classe in carcere?
Mi piace scrivere e leggere all’interno dello spazio del laboratorio
Adoro il rumore delle penne che scivolano sul foglio e il silenzio operoso che cala nell’aula
Mi piace quando qualcuno dice “Basta parlare, adesso scriviamo”
Mi piace quando qualcuno dice “Leggo io per primo” … e un altro aggiunge “io per ultimo”
Mi piace essere aspettata per scrivere, per leggere, perché il lunedì c’è il laboratorio di scrittura in carcere
Mi piace quando a ogni mia proposta, anche azzardata a volte, mi rispondono “Va bene… iniziamo”
Mi piace che al tempo della scrittura segua quello della lettura ad alta voce e mi piace quando i testi sono divertenti e soprattutto quando sono intensi, autentici ed esprimono tutta la ricerca avviata per dire di sé attraverso la parola scritta
Mi piace quando al termine del laboratorio abbiamo sorrisi stampati sulle labbra e pure negli occhi
Mi piace tutto di quello che faccio nel mio laboratorio scrittura e ci sto come un pesce nella sua acqua
Adriana Lorenzi, Dalla parte sbagliata, Sensibili alle foglie, 2022









Redazione LM

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