Il senso delle femmine per l’inadeguatezza

Francesca Frediani, 12 luglio 2022

«Lo vedi che ci ricadi in questo gusto a sminuire? Ti viene dal senso comico di tuo padre o dal tragico di tua madre per cui nient’altro è mai all’altezza? Dillo. Ti viene dalla provincia dove sei nata o dalle città da cui hai cercato di farti adottare?». Il nuovo romanzo di Caterina Venturini

di Francesca Frediani

Ci ha messo di mezzo l’Oceano, Carla Longhi, per prendere le distanze da se stessa, dal senso d’inadeguatezza che si porta dietro da sempre. Dall’Umbria è fuggita a Milano, poi a Roma, infine a Los Angeles con il figlio e il marito, ma ovviamente nulla è cambiato, la sua insicurezza è rimasta. Solo, è come se Carla avesse ingoiato tutta l’acqua del mare che ha attraversato, per risputarla qui adesso, davanti a noi che leggiamo, dopo che un boccone sfuggito dalla bocca di una professoressa americana durante una presentazione è finito per sbaglio sulla sua bocca, e lei lo ha ingoiato come un’ostia sull’altare di un imbarazzo che avrebbe dovuto essere dell’altra e invece è stato solo e inspiegabilmente suo.
Si dice spesso che noi donne siamo vittime di senso d’inadeguatezza, di complesso di inferiorità, a volte si parla addirittura di sindrome dell’impostore, che però ci trasforma in bersaglio di critiche ancora più feroci. In “Quchi – Quello che ho ingoiato”, terzo romanzo dopo “Le tue stelle sono nane” (Fazi, 2009) e “L’anno breve” (Rizzoli, 2016), la scrittrice umbra Caterina Venturini (in trasferta a Los Angeles) dà dell’insicurezza come cifra esistenziale una rappresentazione plastica, quasi cinematografica, estremamente letteraria, ricca di suggestioni e rimandi (non solo femminili, in realtà, se a chi scrive sono venuti in mente i film-seduta psicanalitica di Woody Allen, ad altri le pellicole di Nanni Moretti; e il rimando al cinema è tutt’altro che casuale, dato che l’autrice ha partecipato alla sceneggiatura di uno dei film che più abbiamo amato di Daniele Luchetti, “Anni felici”, quello dove Kim Rossi Stuart e Micaela Ramazzotti interpretano i genitori del regista, lui artista sempre in fuga dalla famiglia, lei moglie innamoratissima.
E insomma questo bolo mal masticato dalla professoressa americana, finito per caso sulla bocca di Carla, diventa per lei provvidenziale pretesto per dire tutte le cose che le sono andate di traverso, tutte le volte che avrebbe voluto essere diversa, più bella più colta più sicura di sé, in una dimensione di minorità psicologica che nulla ha a che vedere con la realtà oggettiva, come ben sa chiunque soffra della stessa distorsione percettiva.
Con lei in scena appaiono Rita, la psicanalista italiana che le fa terapia online, la sua agente “maniaca del plot” sempre con l’impermeabile addosso, l’amica Lù morta a Roma, ed è chiaro che in quel paesaggio losangelino per lei vuoto di senso (Carla non riesce a imparare la lingua, frequenta un corso per stranieri insieme a coreani, giapponesi, indonesiani) sono personaggi prima di tutto interiori, così come Asmara Cordelli, dimenticata scrittrice italo-eritrea dell’Africa coloniale, di cui Carla aveva ritrovato le lettere in un Fondo Manoscritti delle Marche ma poi il merito era stato attribuito a un’altra ricercatrice, o le femministe del collettivo a cui anni prima aveva partecipato, che immagina le rinfaccino la sua piccola operazione di rinoplastica.
Carla si danna, si strugge, ma non riesce a venire a capo di se stessa, dopo due libri pubblicati e subito dimenticati non riesce a pubblicare il terzo, così dall’altra parte del mondo è ancora lì a fare i conti con le sue paure: le recensioni degli ospiti della stanza che affitta su Ring, il professore tedesco che insegna arte all’Università della California da cui è un po’ attratta un po’ respinta, il figlio fatto con uno sconosciuto, che le è venuto bene proprio perché l’ha fatto per caso. Le dimensioni temporali si mescolano, non si capisce bene cosa è stato causa cosa effetto, ma non importa, tutto materiale per un altro romanzo, per altri cento romanzi.
Caterina Venturini/Carla Longhi condensa così bene che si continua a leggerla e non si vorrebbe smettere, e si vorrebbe abbracciarla, dirle di smettere, se solo fosse possibile, di vedersi così distorta, di smettere di pensare che tutto dipenda da lei, sempre, in un afflato di sorellanza che travalica le pagine e diventa autentico slancio vitalistico. Segno che esiste una scrittura di sé che non è memoir, non è autobiografia, non è diario (il libro è scritto in terza persona, per scivolare a volte insensibilmente nella prima) ma un universale filare giù a profondità siderali, nei nostri abissi, senza respirare, come sub in apnea, per poi tornare a galla e risputare fuori all’improvviso l’acqua che era rimasta di traverso.
Fra tutte, abbiamo scelto questa frase, capace come poche di leggerci dentro mentre leggiamo: «Lo vedi che ci ricadi in questo gusto a sminuire? Ti viene dal senso comico di tuo padre o dal tragico di tua madre per cui nient’altro è mai all’altezza? Dillo. Capiscilo una buona volta perché non riesci a mantenere un’unità di tono. Ti viene dalla provincia dove sei nata o dalle città da cui hai cercato di farti adottare? Dalle colline o dai palazzi di cemento armato? Da dove ti viene quest’impossibilità di concentrarti? Questa incapacità continua di decidere il senso. Questo perenne senso di colpa, di essere ricattatoria quando parli di morti, di vivi, di una cosa qualsiasi, questa incapacità di tenere la nota alta. Questa maggiore familiarità con lo sberleffo, con la presa in giro, come se al mito potessero dedicarsi solo gli altri, come se la tua onda non potesse mai crescere che di pochi centimetri per paura di essere tronfia, o perché anche la felicità più acuta rischia di capovolgersi subito nel ridicolo».

Venturini Caterina, “Quchi – Quello che ho ingoiato”, edizioni e/o, 2022

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Francesca Frediani

Francesca Frediani, giornalista pubblicista freelance, è nata nel 1970 a Carrara, al confine tra Toscana, Liguria, Emilia Romagna; ha vissuto a Firenze, Reggio Calabria, Milano, ma è sempre tornata a casa, da dove viaggia appena possibile (Covid permettendo). Ha un marito, un figlio, un cane. Laureata in Giurisprudenza controvoglia, avvocato contronatura, ha gettato la toga alle ortiche iniziando tardi a collaborare con varie testate giornalistiche: La Nazione (cronaca locale), poi Max, Elle (dove ha anche lavorato un anno come interna), D e Venerdì di Repubblica. In quasi vent’anni si è occupata di libri, scritture, cinema, fotografia, fumetti, arti varie, viaggi, intervistando scrittrici, fotografe, mosaiciste, editrici, scienziate, contadine, ceramiste, pastore, gioielliere, imprenditrici, registe, con una particolare attenzione alle biografie femminili (per Il Venerdì, Huguette Clark ereditiera americana dalla fine misteriosa, Betty Halbreich consulente di stile da Bergdorf Goodman e dei film di Woody Allen, Elizabeth Magie vera inventrice del Monopoly, Ethel Payne prima giornalista nera alla Casa Bianca, Christina Broom prima fotoreporter inglese; per Elle, Angela e Luciana Giussani inventrici di Diabolik, Brooke Astor miliardaria e socialite newyorchese, Micaela Feldman “Mika” comandante di una milizia antifranchista in Spagna, Ileana Sonnabend gallerista che portò la Pop Art in Europa e l’Arte Povera in America, Indra Devi che introdusse lo yoga fra le star di Los Angeles). Per D ha letto, amato e recensito centinaia di romanzi italiani e stranieri, tra cui i primi due di Caterina Venturini.

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