STRENNA Che fine hanno fatto le antenate?

Amanda Rosso 15 dicembre 2022

«Entusiasta per il tesoro» ma «atterrita dal patrimonio», Giulia Caminito rintraccia i passi nelle vie di Roma e nelle pagine dei loro romanzi di Morante, Masino, Ginzburg, Bonanni e De Stefani. Le loro storie si mescolano con la vita e le ricerche di Giulia che in “Amatissime” ci restituisce dei ritratti inediti e affascinanti, ovviando così alle dimenticanze di tante scrittrici del nostro Novecento in libreria e nei programmi scolastici

Di Amanda Rosso

In On Writing: Autobiografia di un mestiere, Stephen King dice che «Scrivere è un’occupazione solitaria», e aggiunge: «avere qualcuno che crede in te fa una grande differenza». Leggendo Amatissime – l’ultimo volume della collana Mosche d’Oro – di Giulia Caminito, riflettevo sull’identità della scrittura come processo episodico e ondivago, fatto di ispirazioni e risacche, “studio matto e disperatissimo” ma soprattutto di relazioni complesse con il sé, il lettorato, il medium libro, il mondo editoriale e gli antenati e le antenate.
In questo saggio, che è sì biografia ma anche memoir e riflessione su quell’entità aliena e misteriosa che è la scrittrice, la stanza tutta per sé della scrittura femminile diventa missione di salvataggio e scavo archeologico in cui l’autrice si fa «speleologa» e «palombara», si arma di vanga e setaccio e ispeziona i meandri degli archivi alla ricerca di una civiltà ancora a molti sconosciuta, quella delle scrittrici italiane del Novecento.
Di Elsa Morante conosciamo l’anemia infantile e i giochi crudeli, di Paola Masino gli abiti smessi della sorella e i maglioni blu da marinaio regalati al compagno Massimo Bontempelli e a Luigi Pirandello. Natalia Ginzburg ci incanta con i suoi giardini e commuove nel raccontare del lenzuolo sollevato sul viso tumefatto del marito Leone Ginzburg, ucciso dai nazisti, il dolore «come uno sparo in mezzo agli occhi»; proviamo a risolvere il mistero dell’ultimo romanzo di Laudomia Bonanni rifiutato dalla sua casa editrice storica, Bompiani, e facciamo liste degli oggetti che custodiscono la vita di Livia De Stefani, la scrittrice senza «biografia ufficiale», solo «fotografie chiuse in una scatola, la macchina per scrivere in cantina, la sedia a fiori su cui si sedeva ogni pomeriggio per battere i tasti».
Alla trama del saggio biografico si inanella l’intreccio del memoir, dall’infanzia di bambina «pallida e meditabonda» dell’autrice che si tiene «tutto in pancia, sotto le ascelle e tra le cosce», l’adolescenza di esperimenti di stile, ballerine, top con le paillette e zaini a forma di orsetto, l’incontro con il mondo dell’editoria e la professione di scrittrice, fino alla quieta ricerca che è al contempo letteraria e umana.
Caminito si fa guida di un tour anche fisico e geografico, muovendosi in una Roma contemporanea e famigliare ma anche nella città falcidiata dalle bombe della Seconda Guerra Mondiale, gli eserciti di donne bambini per le strade, la capitale puntellata di salotti letterari, ammiraglia di flotte di intellettuali e quartier generale di una fervente coterie editoriale, impegnata a fondare premi e imbastire fiere. Una Roma che l’autrice incontra davvero a poco più di vent’anni quando comincia a lavorare in una piccola casa editrice, quando il “mestiere di scrivere” diventa architettura, impalcatura di regole e comportamenti, una performance che la scuote e le fa trovare riparo solo nelle biblioteche, a scartabellare, a «tornare studentessa, alunna, appagata».
Le biografie di alcune di queste scrittrici si rivelano autopsie di una dimenticanza e cronache di una scoperta che è quasi archeologica. Una ricerca che muove i primi passi dalla loro roboante assenza sugli scaffali delle librerie e nei programmi scolastici.
In Amatissime la Caminito scrittrice non si limita a dissotterrare le antenate, ma si relaziona con la propria eredità letteraria, con la fotografia di Morante appesa in casa, «gli occhi che ti fissano come se tu fossi ladro o amico, alieno», l’impossibilità di scriverne, «come se anche il solo nominarla la sgualcisse, la disturbasse», ma anche con il lavoro editoriale di Natalia Ginzburg a Einaudi, l’intima ma fervente vibrazione dei salotti, di sinergie e incontri, la portata rivoluzionaria di quella mobilitazione postbellica che è la culla della letteratura contemporanea per come la conosciamo. Tratteggia bozzetti di carteggi e viaggi, atmosfere rarefatte e laboriose, riviste letterarie e traduzioni.

Come raccontare quindi “le signore della scrittura”?
Attraverso l’elemento autobiografico Caminito si fa parte dello scavo archeologico, offre la propria nudità e candore a una narrazione che «non vuole essere un rovistare ma un raccontare». Specialmente nei capitoli dedicati a Laudomia Bonanni e Livia de Stefani l’autrice si confronta con le antenate e problematizza sia «il ruolo dell’intellettuale», colei che si trova «sul bordo della ferita» e deve «rimestare, tirare fuori da lì dentro i mostri», che quello più specifico della studiosa.
L’ultimo romanzo di Bonanni, La rappresaglia (rifiutato da Bompiani e pubblicato postumo, nel 2007, da Textus, piccola casa editrice aquilana) è un romanzo sul fascismo scritto da un’autrice che ha aderito al fascismo, una storia controversa di personaggi dalla morale dubbia, in cui la responsabilità è ripartita senza una chiara definizione di vittime e carnefici. «[S]pesso il successo e il riconoscimento di un libro dipendono in maniera evidente dal momento in cui questo appare nel mondo», scrive Caminito a proposito del capolavoro di Masino Nascita e morte della massaia (Bompiani, 1945) – la cui visibilità si deve alla ristampa degli anni ’70 –, ma vale per molti romanzi che hanno trovato un posto sugli scaffali al di fuori del tradizionale ciclo vitale delle pubblicazioni. La rappresaglia sfugge alle classificazioni e pone al lettorato un problema etico ancestrale che, se non si risolve fra le pagine di Amatissime, neppure si ritrae timidamente.
Caminito scrive con il genuino intento di rivendicare quella di scrittrice come un’identità politica, una posizione capillare nella relazione fra opera e contesto che interagisce con le correnti e i sobbalzi dell’industria editoriale, che si traduce in una scrittrice che si metamorfizza in scrittore, come voleva farsi chiamare Elsa Morante, per rivendicare l’universalità del proprio lavoro, o un’altra che rinuncia alla scrittura dopo il ritiro dalla mondanità.
Come scompaiono “le signore della scrittura”?
Livia de Stefani di sé ha detto «a volte mi chiedo se io non abbia contratto una inconscia abitudine a rifiutare la fama», e nell’ultimo capitolo dedicato alla scrittrice siciliana, Caminito affronta il nodo scorsoio della memoria:

«Chi arriva dopo, in seguito, ha il compito di farsi carico della restituzione oppure dovrebbe abbandonare il peso della successione, fare pasto delle maestre, dimenticare gli antenati per una scrittura che sia leggera, che superi le remore e le antichità. Continuare a capo chino la ricerca delle radici o prendere un coltellaccio e intaccare il passato, scordarlo?» (p.163)

Farsi biografa è prima di tutto un esercizio di equilibrio – fra l’essere «entusiasta per il tesoro» e «atterrita dal patrimonio» – e di dubbio, una dichiarazione di vulnerabilità e pudore, significa rinegoziare costantemente i confini della narrazione.
Nel suo saggio l’autrice rifiuta i panni di vestale e sacerdotessa devota e non cede alla tentazione dello smascheramento e l’invasione, ma coltiva l’incertezza e la cautela come strumenti di lavoro in una cassetta degli attrezzi che è prima di tutto interrogazione di sé:

«Quando il desiderio di venire raccontante a posteriori non è evidente, non è espresso, quando non si capisce se c’era l’intenzione di rimanere ignote o di rendersi pubbliche, come si fa a sciogliere il dubbio?» (p.167)

Una volta accettato il rischio dell’errore non resta che tracciare le traiettorie della eredità che custodiamo e di quella che speriamo di lasciar cadere nel mondo.
Tornando alla citazione iniziale di Stephen King, forse chi scrive è sola nel momento in cui la scrittura viene considerata strettamente come processo individuale di produzione letteraria, ma nello sguardo storicizzato di Caminito e delle antenate, il mestiere di scrittrice e il corpus della scrittura diventano moti ondosi di eterno ritorno, di espansione costante, di dialogo con i contemporanei e chi ci ha precedute, di progettualità collettiva e di riscoperta, e non ultimo di speranza.

«E non è forse una domanda per noi: che fine ha fatto la bambina? La bambina che io sono stata, la bambina che partorirò, la bambina che ci attende nel futuro. A lei lascio il compito di risolvere ogni mistero, di trovare la soluzione, di pacificare i nostri conflitti. Sono convinta che recupererà tutti i manoscritti dimenticati, tutte le carte sepolte, anche quelle stracciate, anche le più dimesse, e farà bottino della nostra eredità.» (p.140)

Giulia Caminito, “Amatissime”. Giulio Perrone Editore, 2022.

Sandra Petrignani, “Le signore della scrittura”. La Tartaruga Edizioni, 1984.
Paola Masino, “Vita e morte della massaia”, Bompiani, 1945.
Laudomia Bonanni, “La rappresaglia”, Textus, 2007.
Stephen King, “On writing: autobiografia di un mestiere”. Sperling & Kupfer, 2001.

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Amanda Rosso

Amanda è nata e cresciuta nell'entroterra ligure. Si è laureata in Comunicazione all'Università di Pavia e ora vive e lavora a Londra, dove ha conseguito un Master of Arts in Modern Languages and Comparative Literatures alla Birkbeck University. I suoi racconti sono apparsi su "Narrandom", "Quaerere", "Malgrado le Mosche", e in alcune antologie online e cartacee, fra cui “Musa e getta. I racconti delle lettrici e dei lettori” (Ponte alle Grazie, 2021) e “Il corpo c'è” (Vita Activa Nuova, 2023). Ha co-tradotto la raccolta di racconti "Donne d'America" (Bompiani, 2022) a cura di Giulia Caminito e Paola Moretti. Fa parte dell'attuale direttivo della Società Italiana delle Letterate.

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