La regista franco senegalese Alice Diop racconta la storia vera, accaduta in Francia, di una giovane ricercatrice infanticida. E non dà risposte, piuttosto chiede a chi guarda: «Che cosa significa essere una donna nera e francese nel XXI secolo? Che cosa significa essere plasmati dal dolore dell’esilio delle nostre madri?».Il film, premiato a Venezia, è ora nei cinema italiani
di Chiara Cremaschi
«Il silenzio non ci proteggerà». Sul palco della Mostra del Cinema di Venezia, Alice Diop riceve: il Leone D’Argento, e il Leone del Futuro per il suo film “Saint Omer”. Li accoglie citando Audre Lorde. Il suo discorso inizia con il passaggio sopra riportato e poi continua: «Beh, stasera mi sento di dire che non saremo più in silenzio!». Parole.
Eppure, all’inizio, c’è un’immagine. L’autrice racconta che, a colpirla fino a diventare un’ossessione, è stata la fotografia pubblicata da Le Monde, tratta da una telecamera di sorveglianza della stazione Gare du Nord di Parigi: ritraeva una donna di colore che spingeva un passeggino con un bambino. Le sembrò famigliare e subito pensò che la donna fosse senegalese.
È vero, Fabienne Kaboul, la donna al cui caso il film si ispira, è di origine senegalese. Mi sono chiesta da cosa Alice Diop l’abbia capito: la posa, la pettinatura, un dettaglio del vestito …attraverso cosa ci riconosciamo l’una l’altra? Dove si posa il nostro sguardo?
Mi piacerebbe saperlo perché, poi, nel suo film, la cineasta sceglie di presentare la sua protagonista, ribattezzata Laurence, senza nulla che la renda evidente: pettinata con una coda bassa, il trucco e gli abiti nei toni del marrone, si confonde con lo spazio del Tribunale, dalle pareti e gli arredi dello stesso colore.
Perché l’ha voluta rendere “invisibile”, anche se lei l’aveva immediatamente “vista”?
Forse perché, appunto, tutto deve essere detto, non più solo visto.
Il “genere processuale” lo permette: l’aula del Tribunale è un teatro, dove le parole si sfidano. L’Accusa è un uomo, bianco, ringhioso. La Difesa è una donna, bianca, razionale anche nella sua protezione verso l’accusata. L’Accusa chiama in causa la stregoneria, facendo leva sulle credenze della donna in forze oscure e invisibili; la Difesa sottolinea la vigliaccheria del compagno dell’accusata che, interessato a una relazione opportunistica, l’ha abbandonata in un momento delicato. Ci aspetteremmo un testa a testa che ci coinvolga. Invece, la regista si tiene a distanza da Difesa e Accusa e ci mette nelle condizioni della Giudice, che chiede all’accusata di spiegare il suo gesto e che riceve questa risposta: «Non so perché ho ucciso mia figlia, spero che il processo possa dirmelo».
È su questo mistero, che non verrà svelato, che Alice Diop costruisce il suo film.
Il caso di Fabienne Kabou ha sconvolto l’opinione pubblica francese. La giovane donna, colta, cresciuta in una famiglia agiata, arrivò in Francia per studiare filosofia. Rimasta incinta di un uomo più anziano, visse la sua gravidanza isolata, senza mai confidarsi con nessuno e senza mai iscrivere sua figlia all’anagrafe. Tutti i media francesi seguirono quel processo, senza che nessuno trovasse una motivazione al suo gesto.
Anche Alice Diop andò al tribunale di Saint-Omer. E, racconta che il film ha preso forma a metà del processo, quando: «è successo qualcosa di molto strano, perché la donna nella confessione ha cominciato a descrivere il suo omicidio nei minimi dettagli: come aveva nutrito la bambina e in che modo l’aveva fatta riposare e cullata, prima di lasciarla al gelo, all’alta marea. Un racconto, il suo, molto letterario, nei minimi dettagli, talmente minuzioso da risultare lirico». Ed è così che lei, Alice, decide: «spinta da un’immaginazione intrisa di figure mitologiche, ho scritto questo film su una madre infanticida con lo scopo di scrivere una rivisitazione contemporanea del mito di Medea»
Questo è evidentemente il punto di partenza dell’autrice, ma poi, la domanda che il film pone e si pone diventa più complessa. Lo dichiara la stessa regista, quando dice «Come possiamo guardare questa donna, che è un mistero? Il film non vuole rispondere. Penso addirittura che il mistero si infittisca di minuto in minuto. Ma in questo modo ci costringe a scendere nel nostro mondo sotterraneo per far luce su questioni oscure, scomode, tabù, come il legame che ci unisce a nostra madre, a nostro figlio…».
È il personaggio di Rama, la scrittrice che segue il processo nel tribunale di Saint Omer, che vive questa esperienza: sta per avere un figlio e ha un rapporto sofferto con la propria madre, definita una donna “spezzata”. Più il processo va avanti, più Rama vede in Laurence il riflesso delle proprie paure, il fantasma di una maternità che può non essere gioia, appagamento.
Dichiara la regista: «Senza Rama, il film non esiste e il personaggio di Laurence diventa assolutamente impossibile da guardare. Avrei avuto l’impressione di dare lo spettacolo di una donna che parla di un crimine sordido, il che sarebbe stato osceno. Rama è un personaggio che solleva questioni che ho vissuto e che molte donne nere che conosco hanno vissuto: “Che cosa significa essere una donna nera e francese nel XXI secolo? Che cosa significa essere plasmati dal dolore dell’esilio delle nostre madri? Che cosa costruisce questo nel nostro rapporto con la maternità?”».
Per Laurence dove non arriva la legge – l’ordinato e classificatorio pensiero normativo dell’Accusa – arriva il mistero della genetica, che cerca di spiegare la mostruosità del suo gesto. Nell’arringa finale del processo, infatti, la Difesa parla delle cellule chimera, parte di quello scambio reciproco tra cellule materne e cellule fetali.
Parole che non spiegano nulla, anzi, che portano ad altre domande. Perché in questo film le parole sono importanti, ma sembra che non costruiscano un dialogo, che non si incontrino mai.
Saint Omer non è un film perfetto, ma è un film che ci interroga. È un film importante, per chiedersi come non restare in silenzio, ma anche come non farci usare dalle parole. Uscendo dal cinema, l’amica con cui ero mi ha chiesto: ma di chi è il punto di vista? Io, intanto, mi stavo domandando: ma perché Laurence guardando Rama (e noi) sorride complice?
“Saint Omer”, regia di Alice Diop con Kayije Kagame, Guslagie Malanga, Valérie Dréville, Aurélia Petit, Xavier Maly, Francia, 122 min
Sceneggiatura di Alice Diop, Marie N’Diaye, Fotografia di Claire Mathon, Montaggio di Amrita David, Faruk Yusuf Akayran.
Alice Diop
Nata nel 1979 a Aulnay-sous-Bois, ha esordito nel 2005 con La Tour du monde, un documentario in cui racconta la diversità del suo quartiere. A questo sono seguiti Les Sénégalaises et la Sénégauloise, (2007), La Mort de Danton, (2011) La Permanence, (2016). Nel 2016 ha vinto il César per il miglior cortometraggio con Vers la tendresse,nel 2017 La Permanence è stato premiato a Cinéma du Réel, nel 2021 Nous ha vinto la sezione Encounters al Festival di Berlino. Il suo impegno militante si esprime anche attraverso la lotta contro la violenza della polizia e la partecipazione al collettivo 50/50, impegnato per una migliore rappresentazione delle donne e delle minoranze nell’industria cinematografica.

Chiara Cremaschi

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