Della mamma, amata, presente e assente? Dell’Etiopia? Dei 19 anni perduti a far carte per diventare cittadina italiana? Di Frankenstein? Tezeta Abraham in “Nostalgia” descrive la vita della seconda generazione di chi migra, giovani sospesi tra la lingua d’origine e l’italiano che conoscono meglio dei propri genitori, traduttori tra due mondi
Di Chiara Cremaschi
«Quando ero più̀ piccola le signore anziane ci chiedevano, sempre con ostentata gentilezza, da dove venissimo. “Etiopia” rispondevamo noi. E il loro commento di rito era: “E come mai non tornate a casa vostra?”».
Iniziando a leggere, mi è sembrato che la “nostalgia” del titolo di Tezeta Abraham partisse dall’immagine di quella bambina sperduta, in una città enorme e confusa come Roma, accanto ad una mamma che conosce poco, che viene continuamente invitata ad andarsene.
Dove, però? Qual è la casa di Tezeta? Come può trovarla?
È difficile capirlo, per quella bambina, che parte dal fatto che “Nostalgia” è il significato del suo nome in aramaico: Tezetà, nostalgia, ricordo, e che chiede insistentemente: ” Nostalgia di cosa?”.
Mi sono chiesta se la nostalgia evocata non fosse legata al tempo perso e non più recuperabile dedicato, invece, a richieste di documenti, burocrazia, errori di trascrittura…
Oppure a quello che sarebbe potuto succedere se in collegio lei non fosse stata solo la “numero quindici”: «Eravamo una trentina di bambine provenienti da tutto il mondo, pochissime italiane, ognuna con i propri drammi familiari: chi fuggita dalla guerra, chi in cerca di fortuna, molte di noi non avevano conosciuto o non avevano alcun legame con il proprio padre. Per poterci distinguere, le suore ci avevano assegnato un numero ciascuna: io ero la 15. E quel numero era ricamato sul corredo di ognuna di noi: canottiere, mutandine, T-shirt, pantaloni, calzini e tovaglioli. Non potevano sbagliare».
Mi sono fatta molte domande, leggendo questo libro, e trovandomi a immaginare le situazioni che l’autrice descrive con semplicità e passione. Sono situazioni che vive la seconda generazione di migranti, nata in Italia o arrivata giovanissima, che è costretta ad essere il filo d’unione – soprattutto linguistico – tra la famiglia d’origine e la società in cui cresce.
Tezeta Abraham lo racconta con ironia: «Qualche mese dopo che aveva iniziato a districarsi nel traffico delle strade di Roma, un giorno mia madre mi ha chiesto: «Tztà, oggi mentre ero in macchina, uno per strada mi ha detto: “Non mi rompere i colioni!”. Cosa significa colioni?». Io sono scoppiata a ridere e mi sono tappata le orecchie. Le ho risposto che era una parolaccia e non si doveva dire. Lei ha riso. Insomma, ero diventata più̀ di un punto di riferimento linguistico, per me mia madre era una sorella maggiore, ci prendevamo cura l’una dell’altra». In molte interviste dichiara che lei è diventata attivista dei diritti dei giovani nati o cresciuti in Italia non tanto per principio quanto per necessità: le storture e i cavilli dello ius sanguinis sono un insulto ad una autentica integrazione. Arrivata in Italia a 5 anni e con un percorso scolastico tutto italiano ha impiegato 19 anni per ottenere la cittadinanza. E, nel libro, ci sbatte anche in faccia quello che facciamo fatica a guardare: «Mia zia Aster, una volta che era andata a Hurutà a trovare i parenti, disse loro: “Nella prossima vita, se esiste, vorrei rinascere come cane di un bianco”».
Lasciato il collegio, Tezeta vince il concorso di Miss Africa, e la sua vita cambia. Lei, che per anni, si è sentita «a disagio in un corpo che attira gli sguardi. Sguardi che rimangono ammaliati da forme con cui non ho ancora piena confidenza e non so bene come gestire.»
Ma ha sempre avuto qualcosa che le ha dato la forza di non arrendersi: «leggevo tanti classici, tra cui il mio preferito, Frankenstein, di Mary Shelley. Era uno dei compiti assegnati da un professore, ma l’avevo divorato e, non appena avevo chiuso il libro – era un’edizione Feltrinelli, sulla cui quarta di copertina appariva disegnato il mostro, piccolo, sullo sfondo – passando le dita sul disegno le lacrime erano scese giù. Ricordo quel momento come fosse oggi: mia madre, a fianco a me, guarda uno dei suoi film con Arnold Sciuasinker, come lo pronunciava lei, e quando si gira, notando la mia commozione, mi chiede: «Tizzu, che hai fatto? Che succede?». E io: «Nulla ma’, è solo un libro».
Da subito, leggendo, mi ero immedesimata in quel mostro che veniva giudicato solo per essere uscito di casa, che tutti notavano perché era assemblato male e la cui bontà non poteva essere colta dai più. Un corpo come una prigione. Non importa quanti buoni propositi il mostro avesse. Bastava che comparisse per mettere in fuga chiunque incontrasse lungo il suo cammino.»
Il percorso della protagonista e autrice è da lei organizzato cronologicamente e ogni capitolo è introdotto da una frase che fa riferimento ad uno studio: sull’animismo, sul cattolicesimo, sull’ebraismo, sullo yoga, sull’induismo, sull’ortodossia, sull’islamismo. Ognuna delle brevi frasi riportate è una risposta a come trovare una riconciliazione, a come chiedere e dare perdono in un rapporto. Nessuna di queste risposte può essere definitiva, sono solo tracce della ricerca instancabile di Tezeta Abraham, e sono forse il fil rouge della sua nostalgia, che ad un certo punto mi sono chiesta se non fosse quella per una mamma che ha sempre lottato per lei:
«Grazie, mamma. Per avermi amata e protetta. Grazie per avermi fatto ridere fino ad avere mal di pancia, per le lacrime di gioia e di dolore. Grazie per esserci stata come hai potuto, per avermi abbandonata, per essere tornata ed essertene riandata. Grazie per avermi guardata da lontano. Grazie per avermi resa diffidente, per avermi dato il buon esempio. Grazie per essere stata il riferimento più grande, per avermi insegnato concretamente cosa significa essere femminista. Grazie per i tuoi sacrifici. Grazie per avermi alleggerito il peso della vita e alleggerita dallo sguardo giudicante degli altri. Grazie per avermi fatto credere alle favole, per avermi insegnato a sognare senza pormi limiti. In fondo, cos’è la vita se non il tentativo di realizzare i propri sogni? Grazie, perché senza di te non sarei stata io»
Forse sì, la nostalgia è per un’infanzia non vissuta, una mamma inseguita, una verità non raccontata, per tutto quello che non è stato. Ma la nostalgia di Tezeta Abraham è anche per futuro che si è costruita, con forza, tenacia, passione e amore: «Questo viaggio a lungo sognato è il perdono che concedo a me stessa per non aver trovato prima il coraggio di andare verso una destinazione ignota, di cui sapevo troppo poco, una calamita che ha sempre attirato la parte più nascosta di me mentre io strattonavo in senso opposto.»
Il libro sarà presentato il 12 settembre a Roma, Villetta Social Lab, via degli Armatori 3 (ore 19) e il 24 presso Casetta Rossa, via Magnaghi 14 (ore 18.30). Il 27 settembre, ancora a Roma, al Festival Multi (ore 15)
Chiara Cremaschi
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