Maria Occhipinti (1921-96) si è ribellata alla guerra, alle ingiustizie, ai soprusi: parla, grida, agisce e scrive. Un libro di diverse autrici dedicato all’attivista pacifista, scrittrice, emigrata siciliana che scrive nel suo “Una donna libera”: «volevo avere le ali per volare e vedere le meraviglie del mondo»
Di Clotilde Barbarulli
È interessante notare che nel libro le varie relatrici abbiano sentito il bisogno di riferirsi a tante scrittrici e pensatrici, da Barad a Lonzi, da Zambrano a Aleramo, come alla ricerca di coordinate per l’oggi, mettendo in luce la potenza di richiamo di Maria Occhipinti. In particolare mi intriga l’accenno ad Anzaldúa, evocata da Todesco e da Elvira Federici, per raccontare il suo corpo come frontera (fra scontro e contaminazione) e fare della scrittura la promessa di una presa di parola per chi della parola è stato privat*.
La filosofa e attivista argentina Marìa Lugones indaga a partire dalla modernità coloniale le potenzialità di immaginare e praticare un femminismo decoloniale, allargando all’analisi de-coloniale la riflessione sul genere come dispositivo integrante dei sistemi di dominazione. Il concetto di modernità viene individuato come un sistema che categorizza gli elementi della realtà in termini di categorie atomizzate, omogenee e separabili, che siano persone, materie prime, territori ecc., soggettività che intersecano o sfondano questi confini diventando quindi invisibili e oppresse. A questo si oppone il movimento dal basso che pone al centro storie e pratiche di resistenza alla colonialità di genere, ancora persistente, ed è in questo senso che ci sembra di poter delineare la pratica e la scrittura di Occhipinti: l’unico spazio che possiede la donna oppressa per generare una trasformazione sociale è quello della scrittura: «Le parole sono una guerra per me […]. Potrò creare un mostro, gonfio di colori ed eccitante» (Anzaldúa). Così le parole di Occhipinti «toccano in modo pregnante il corpo e l’esperienza», ricucendo una forma personale di «soggettivazione politica con una di svelamento collettivo» (Todesco). Nell’interstizio del margine si può vedere la possibilità di sovvertire le proprie categorie, sia per mezzo di lotte situate, sia per mezzo della produzione discorsiva, in dis-apprendimento dalla modernità capitalista, patriarcale e colonialista. «Cos’era la Patria? E gli eroi e i martiri della storia che avevo letti nel mio libro di terza classe, cos’erano? (…) Non vedevo che un mondo di stracci incolori che venivano spazzati nell’aria a colpi di cannone», scrive in Una donna di Ragusa.
Maria, come Anzaldúa, può considerarsi «abitatrice di più mondi», migrante per sempre, fuori luogo, nell’attraversare e riattraversare le frontiere: «Mi sentivo straniera in patria, perseguitata, incompresa. Allora ho cominciato a girare per il Nord Italia, per la Svizzera, Francia, Inghilterra, Marocco, Stati Uniti, Hawaji, Messico. Facevo la bambinaia, l’aiuto sarta, la pellicciaia, ho saldato le corde delle navi per vivere» (filmato Rai 1975). Da qui la sua attualità.
Da qui il suo porci domande, come per la parola pacifismo che forse va sostituita con antimilitarismo/non-violenza, se, come riflette Modica, la violenza può essere anche espressione di rabbia e indignazione (Judith Butler): il gesto di inazione di Maria incinta – stendersi davanti al camion militare per impedire il rastrellamento dei giovani nel 1945 con il governo Badoglio – è una deliberata esposizione del corpo al potere della polizia. È anche una ricerca di relazioni, consapevole – come scrive – che i diversi e gli ultimi «lasciati da soli sono pestati come vermi dal piede del destino», «pezze che vanno per aria». Per questo gesto di protesta sarà incarcerata, poi confinata a Ustica e schedata a vita come sovversiva. La sua azione politica di grande coraggio viene misconosciuta: la famiglia e i paesani l’accolgono con ostilità, considerandola quasi una donna indegna perché coinvolta nella rivolta, animata dalla voglia di studiare, lontana dalla siciliana media, perché si ribella alla guerra, alle ingiustizie, ai soprusi, perché parla, grida, agisce.
«Per me», scrive Anzaldúa, «la scrittura comincia con l’impulso a varcare i confini, a forgiare idee, immagini e parole che viaggiano lungo il corpo e si fanno eco nella mente di un qualcosa che non è mai esistito». Così la scrittura di Maria, legata alla materialità del suo spazio-corpo, partecipa alla creazione di una nuova geografia immaginaria della Sicilia e dei corpi che la abitano, smascherando rapporti di potere e narrazioni essenzialiste.
Occhipinti smaschera anche i meccanismi di occultamento del potere, incluso quello di alcuni circoli femministi anni Settanta/ Ottanta (Federici, Todesco, Nadia Terranova): si sente marginalizzata (ad eccezione dell’amicizia di Adele Cambria) e ne soffre. Per un Convegno femminista a Palermo del 1977, scrive: «Mi meravigliai di non essere presentata come una compagna che aveva lottato contro le ingiustizie sociali, ancor prima che loro fossero venute al mondo». La sua appartenenza di classe, oltre all’essere siciliana, la poneva in una linea marginale rispetto alle femministe dei grandi centri urbani: il suo desiderio di trasmissione fu accolto con indifferenza. Ma, proprio grazie a Maria, è possibile ripensare ora «un Sud dei corpi e delle soggettività femminili che creano una differenza». Poteva essere schiacciata dall’ambiente «arretrato e barbarico» del paese, poteva soccombere sotto le «nerbate» del padre, ma – come scrive in Una donna libera – «volevo avere le ali per volare e vedere le meraviglie del mondo».
Gisella Modica e Serena Todesco (a cura di), Maria Occhipinti: i luoghi, le voci, la memoria, Vita Activa Nuova 2024
PASSAPAROLA: GRAZIE ♥Clotilde Barbarulli
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