La catena infinita delle madri e delle figlie (che saranno madri) mostra come indispensabile la relazione, non verticale ma “inclinata”, che si sporge verso l’altra/o.
Di Ivana Margarese
Dopo aver letto le interessanti riflessioni di Gisella Modica sull’ultimo saggio di Adriana Cavarero, Donne che allattano cuccioli di lupo. Icone dell’ipermaterno (edito da Castelvecchi), provo a delineare meglio il mio pensiero su questo tema concentrandomi su quella che Cavarero definisce nel corso del testo «relazione originaria».
Scrive la filosofa:
«Se il nascere come venire al mondo è l’origine, là trova anche origine la relazione fra madre e figlia; se la nascita da corpo di donna è l’apparire nel mondo dell’individuo singolare come unicità incarnata, là trova anche e innanzitutto il suo principio quella singolarità relazionale, immersa nella catena infinita delle madri generanti, che è la figlia piuttosto che il figlio».
Cavarero nomina quella catena infinita delle madri che sperimenta l’origine come scissione e mostra come indispensabile la forma della relazione.
Ogni relazione primaria è fatta dallo scindersi di «un organismo di carne, vita pulsante, mente e corpo di un esistente singolare che mette al mondo un’altra esistenza singolare frantumandosi».
Questo dal mio punto di vista risponde al primo dei quesiti posto da Gisella Modica quando si domanda se attribuire all’ «ipermaternità di stampo arcaico» – definita «un delirio» ma con un valore positivo – non si rischi di ricacciare le donne nella corporeità e nella Zoe, favorendo il dualismo corpo-mente.
A me pare invece che ponendo l’accento sulla relazione originaria, Cavarero ribadisca il sinolo aristotelico di materia e forma che ogni esistenza incarna e si ponga pertanto oltre una prospettiva dualistica.
Cavarero già nel suo Inclinazioni. Critica della rettitudine propone di ripensare la soggettività non in termini di postura verticale ma in termini di inclinazioni, ovvero di un sé aperto e spinto a uscire dal suo asse per sporgersi sull’altro. E questo per me il senso del richiamo a «quella sorta di frantumazione originaria che è metter al mondo-venire al mondo».
In Inclinazioni si legge:
«Non si tratta di correggere l’ontologia individualista innestandovi la categoria di relazione. Si tratta invece di pensare la relazione stessa come originaria e costitutiva ovvero come una dimensione essenziale dell’umano che, lungi dal mettere semplicemente in rapporto individui liberi e autonomi l’uno con l’altro – come vorrebbe, in fondo, la dottrina del patto sociale -chiama in causa il nostro essere creature vulnerabili che materialmente, e spesso in circostanze di forte sbilanciamento, si consegnano l’una all’altra» (Cavarero, Inclinazioni, Raffaello Cortina editore, p.24).
Cavarero sottolinea come il modello relazionale preveda un intreccio continuo di dipendenze plurime e singolari, e come la scena primaria ben esemplifichi questo modello tanto da indicare un suo possibile ripensamento come un orizzonte di pensiero necessario. Ecco perché lo stereotipo materno meriterebbe di essere rinterrogato fino in fondo. La potenzialità critica della iper rappresentata maternità è snodo di accesso a un diverso modello etico e politico in diretto contrasto con la rappresentazione verticalizzante di un soggetto autonomo ed egoico.
In questo mettere l’accento sulla vulnerabilità del soggetto e non sulla sua postura belligerante e performante la filosofa si avvicina alla visione di Butler e Haraway. L’esperienza della maternità, anche nel caso in cui si concluda con l’aborto come raffinatamente narrato da Annie Ernaux e Lispector, è un fatto degno di essere messo in parole, una materia di conoscenza: il punto non è che tutte le donne siano o debbano essere madri, bensì che tutti gli esseri umani, almeno finora, sono nati da una madre.
«Deinon to tiktein estin» – «tremendo è il figliare» – dice Clitemnestra nell’Elettra di Sofocle, espressione che è stata tradotta da Virginia Woolf con «C’è uno strano potere nella maternità». Ed è proprio di questo strano potere di cui il libro si occupa cercando un equilibrio tra più istanze e recuperando il valore di esperienza e di pensiero che si accompagna all’atto di generare dalla scissione della propria carne. È l’inclinazione materna che porta con sé un’immediata tonalità etica che potremmo indicare come cura dell’altro, un altro non indeterminato e astratto ma incarnato e vulnerabile. Come Arendt sottolinea l’essere umano è costitutivamente esposto all’altro e questa esposizione appare in prima istanza nella relazione originaria di una madre verso i figli e della figlia e del figlio verso la madre. La vulnerabilità non è determinata né dipende dalla differenza sessuale:
«è l’assolutamente vulnerabile ad assurgere a figura essenziale dell’etica, e prima ancora, dell’ontologia e della politica» (Cavarero, Inclinazioni, p.145).
Il discorso è un crescendo di riferimenti che scardinano la visione tradizionale per affermare che nella maternità si ha una conoscenza viscerale: si conosce l’estrema contingenza della carne che procrea, ovvero – stando all’etimo della parola “contingenza” – l’accidentalità, la casualità, la non prevedibilità di quella forma singolare di vita che il corpo materno partorisce:
«Quasi, che, nell’esperienza del generare, ovvero nel suo corpo singolare, la donna facesse contemporaneamente conoscenza, da un lato della necessità che caratterizza il processo generale della vita, e dall’altro della contingenza che contrassegna tuttavia le incorporazioni della vita stessa nel vivente singolare».
Nella nascita si è in due e questo già agisce come schema per un’etica posturale e contingente che avvii un ripensamento del nucleo della comunità e della responsabilità.
Adriana Cavarero, Donne che allattano cuccioli di lupo. Icone dell’ipermaterno (Castelvecchi, 2024)
PASSAPAROLA: GRAZIE ♥Ivana Margarese
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