La cura non è una virtù femminile

Clotilde Barbarulli, 31 ottobre 2024

«Si tratta di un tema scivoloso, a volte si rischia di considerarla una morale dei buoni sentimenti, mentre la cura è tutt’altro, almeno nella mia prospettiva. Si tratta di un lavoro svolto da donne immigrate e povere, sottoposte a varie discriminazioni». Dare visibilità e riconoscimento a chi si prende cura della malattia e dell’invecchiamento, per amore oppure per necessità, è lo scopo del libro di Laura Marzi

Di Clotilde Barbarulli

Se la cura è fatica anche quando ci sono rapporti affettivi, per tutto il senso di dovere che è stato caricato sull’essere figlia, moglie, madre ed i relativi concetti di oblatività, lo è tanto più nei rapporti di lavoro. Il lavoro di cura è una componente imprescindibile della nostra vita privata e della società stessa.
Laura Marzi ha scelto la letteratura come campo d’indagine che meglio permette di approfondire dinamiche complesse spesso di potere, ed in particolare analizza Slow Man di John M. Coetzee, dove sono rappresentati una scrittrice, chi assiste e l’assistito, offrendo la possibilità di approfondire la corrispondenza fra letteratura e cura. «Si tratta di un tema scivoloso – ha spiegato Marzi in un’intervista – a volte si rischia di considerarla una morale dei buoni sentimenti, mentre la cura è tutt’altro, almeno nella mia prospettiva. Perché in molti casi si tratta di un lavoro svolto da donne immigrate e povere, sottoposte a varie discriminazioni». La cura non è una virtù femminile che affonda la sua radice in una visione essenzialista della femminilità, ma è una pratica complessa che richiede responsabilità e competenze, per evitare trappole neocoloniali.
Nel 2021 è uscito in italiano il Manifesto della cura (The Care Collective) per sottolineare gli interrogativi sulla necessità di portar fuori, nel sociale, la cura, al di là delle mura domestiche, proprio per mettere in luce l’ambiguità del significato, il logoramento che comporta, anche in seguito agli effetti devastanti che la pandemia da Covid-19 con la gestione liberista ha svelato dopo decenni di tagli ai servizi sanitari, per cui le vite dei poveri, dei migranti, dei non bianchi sembrano più sacrificabili delle altre. Emerge, nota Marzi nella recensione, come sia prioritario disgiungere la cura dal contesto della famiglia tradizionale nucleare che ancora «fornisce il prototipo della relazione di cura e delle accezioni contemporanee del concetto di legame, tutte derivate dalle ramificazioni mitologiche del ’primario legame materno’». Il Manifesto prospetta la necessità di una politica dell’interdipendenza per una cura universale, reciproca, con comunità promiscue in spazi pubblici, presupponendo uno Stato di cura al momento però inesistente.
Se c’è ora molto interesse sul tema, di solito ruota però intorno alla figura dell’eroe, mentre in questo libro si propone “l’eroinismo”, che mette in discussione l’eroismo in quanto tale, «sostituendolo con le azioni compiute per il mantenimento della vita, e dello stare insieme». Questo “eroismo in relazione” viene ripreso, sottolinea Marzi, dalle analisi etnografiche condotte da Caroline Ibos a proposito delle tate ivoriane che lavorano per le famiglie parigine: le datrici di lavoro sono indifferenti alle loro storie e ai loro problemi, hanno il privilegio di ignorare la realtà che potrebbe creare fastidio o mettere in crisi il loro senso di giustizia (Jean Tronto).
La vita ordinaria è vulnerabile, e il lavoro di cura genera spesso rapporti di dipendenza, asimmetrici, ingiusti. La narrazione letteraria di cura crea le condizioni di visibilità necessarie, e Marzi si muove con intelligenza all’interno dei care studies che prendono le mosse da un mancato riconoscimento dell’etica e del lavoro di cura (Sandra Laugiere, Patricia Paperman), rimettendo in discussione l’illusione occidentale della propria invulnerabilità.
Se tutta l’opra di Coetzee è un tentativo di descrivere l’alterità, nella consapevolezza di un’ambizione irrealizzabile, nel romanzo citato è la scrittrice Costello che permetterà di conoscere la storia della care-worker Marijana. Emerge la difficoltà a definire cosa sia il care, termine polisemico: l’approccio alla cura per Paul, l’assistito, rivela un punto di vista oggettivo (ciò che deve essere fatto) e per la scrittrice Costello un punto di visto soggettivo (ciò di cui abbiamo bisogno), ma non prevede l’aspetto emotivo. L’attenzione di Paul per Marijana si fonda su presupposti paternalistici e maschilisti: ha generato un figlio, sa spolverare perfettamente una libreria ed è giovane, a differenza di Costello. Marijana infrange la sua discrezione, parlando solo una volta per raccontare la durezza e la pesantezza che il suo lavoro comporta, per arginare l’ennesima dichiarazione d’amore di Paul e fargli capire che non rientra tra le sue mansioni. Per il resto il silenzio del libro è riempito dalla voce maschile, patriarcale e colonizzzatrice (Susan Kossev). Ma Costello smentisce i pregiudizi di Paul secondo cui Marijan è una casalinga d’altri tempi, fedele al suo sedicente carattere croato, cioè arcaico.
Le assistenti personali sono perturbanti, perché sono donne, straniere e ricordano la fragilità e la morte, come Marijana, e Marzi si riallaccia al perturbante di Freud nel senso di Farnetti, riprendendo il lavoro fatto dal gruppo SIL ‘fiorentino’ sulla rivisitazione del concetto, perché da un punto di vista femminile può non generare angoscia ed essere anzi accolto.
Prendersi cura dunque non è un imperativo morale, non è un’attività gioiosa, non è un’attività naturale per le donne, non è permeata da buoni sentiment anzi cela in sé una potenziale violenza, perciò è una relazione problematica che va de-romanticizzata. È quindi importante che Marzi risponda con rigore e con passione all’esigenza politica di provare a dare visibilità e riconoscimento alle donne che si prendono cura della malattia e dell’invecchiamento, per soldi, per amore, per necessità, fra rabbia, indifferenza, dedizione.

Laura Marzi, Raccontare la cura. Letteratura e realtà a confronto, Futura editrice 2024.
Chiti Eleonora, Farnetti Monica e Treder Uta (a cura di), La perturbante, Morlacchi 2003
The Care Collective, Manifesto della cura, Alegre, 2021

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Clotilde Barbarulli

Clotilde Barbarulli collabora attivamente con associazioni quali il Giardino dei Ciliegi di Firenze, la Libera Università Ipazia, la Società Italiana delle Letterate. Si occupa di autrici contemporanee fra lingue e culture e di scrittrici '800/900. Tra le sue pubblicazioni: con L. Brandi, I colori del silenzio. Strategie narrative e linguistiche in Maria Messina (1996); con M. Farnetti, Tra amiche. Epistolari femminili tra Otto e Novecento (2005); con L. Borghi Visioni in/sostenibili. Genere e intercultura (2003), Forme della diversità. Genere, precarietà e intercultura (2006), Il Sorriso dello Stregatto (2010)."Scrittrici migranti: la lingua, il caos, una stella" (ETS 2010),

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