«Costruire attrezzi contro gli stereotipi di genere che producono violenza è il mio lavoro di editora, giornalista, madre. Perché il potere si regge sulla paura, noi siamo costrette a vivere guardinghe»
Di Simona Bonsignori
La prima volta avevo 11 anni, il professore delle medie da cui studiavo mi toccava, c’era solo il tavolo in mezzo a noi a proteggermi. La seconda ne avevo 12, ero in campagna con la classe quando finii sotto al branco: non respiravo ma lottavo, non urlavo. Rimasi tutta la giornata incastrata in una poltroncina avvinghiata a un bicchiere di latte. La terza di anni ne avevo 14, il fratello ventenne di una compagna di liceo da cui dormivo si infilò nel mio letto ficcandomi la lingua in gola, scappai nella camera dell’amica attenta a non fare rumore. Sono stata sempre zitta. Mia madre non potrà più saperlo, ormai.
La quarta volta ero già adulta. Stavo rientrando tardi quando un tizio si gettò sul cofano della mia auto nel centro storico di Roma. Lo trascinai per un po’ con il viso spiaccicato sul parabrezza, era evidentemente ubriaco eppure scelse me non il taxi di fianco. La quinta, mi trovavo sul treno per Francoforte, un notturno. Provarono a entrare in cabina ma avevo messo la scala della cuccetta di traverso. La mattina dopo il capotreno mi chiese di fare sesso. Mancavano 10 minuti all’arrivo in stazione. Ormai gli anni erano diventati 30.
La sesta, un fidanzato di passaggio mi puntò il coltello del pane alla gola gettandomi a terra. Scivolai via lentamente da casa, parlandogli pacatamente senza lasciare mai il suo sguardo come si fa con i cani rabbiosi. A toglierlo dal mio spazio vitale ci ho messo un po’. Avevo 35 anni. Che non si riduca l’azione a una cattiva persona, non lo era. Lo scarto politico sta tutto lì, nell’incapacità strutturale di reagire alle frustrazioni al di fuori di quello schema di violenze che è il «codice sorgente» del patriarcato (Francesca Sensini).
Ho conosciuto personalmente tre vittime di femminicidio: una era la mia amica Aurora Nencioni, aveva 40 anni. Al catcalling dopo tanti passi accelerati, sguardi a terra, invettive, strategie e spalle al muro, ho imparato a rispondere con un «grazie!» accompagnato da un sorriso sfrontato (come direbbero i detrattori di Jane Austen): un contropiede che risulta destabilizzante. Abbastanza. A casa la sera rientro con gli sportelli bloccati e stringendo le chiavi tra le dita come se fossero un pugno di ferro (per farci chissà cosa poi non saprei dire). Ma di anni ne sono passati altri venti ormai. Viviamo guardinghe.
La settima volta, l’ultima per ora, è stata la più dolorosa. Accadeva con il lavoro. Ero l’unica donna nel gruppo ma pensavo che non fosse un gran problema e che avrei potuto gestirlo. Sapevo ormai che il neutro è solo un altro modo di confondere quel confine sottilissimo tra militanza e sfruttamento su cui anche il lavoro immateriale, biocognitivo, politico, intellettuale o comunque vogliamo chiamarlo, prolifera e fa prosperare il sistema. Sul maschilismo di sinistra, poi, ero già intervenuta più volte. Ma sfruttata lo ero, non c’erano dubbi, e non solo da me. Quindi, forte dell’ultima spinta generativa di mia madre verso quella autonomia in cui aveva riposto le forze di una vita decidevo, riappropriandomi del mio spazio inquinato, di liberarmi da un percorso intellettuale e politico collettivo che disvelava anch’esso (e perché no poi?) la sua forma reale attraverso l’abuso di quel lavoro di riproduzione sociale che pesa sulle donne, globalmente monetizzato in 10.800 miliardi di dollari l’anno (Global Gender Gap Report 2023).
«Se devo imparare a lasciare andare lei – mi dissi – posso farlo con tutti».
Quello che dovevo ancora imparare è che gli uomini non collaborano con le donne: compagni di strada che non ti tenderebbero una cima in tempesta. Anche la pandemia era stata illuminante.
Se gli uomini salvano solo se stessi, a noi è sufficiente prendere il largo, dunque?
Branco. Alleanza tra maschi. La gerarchia patriarcale si materializzava nella mia vita a rivendicarne il possesso, incarnato in quel tempo dovuto e nel controllo sul fare/risolvere problemi che è la cifra della cura. Sottraendomi al ruolo – «è tutta la sua vita» – li tradivo. Altri branchetti avrebbero tentato poi di cannibalizzarne i resti. È stato brutale. Come a 12 anni, cercavo un rifugio. E il mio personalissimo bicchiere di latte, questa volta, l’offriva la sorellanza.
Sono troppe le forme di stupro che subiamo ogni giorno, oltre le più atroci, quelle che lacerano i corpi e che ci ammazzano, che costringono a difenderci e a insegnare alle nostre figlie a farlo. Si, il potere si regge sulla paura, è una narrazione che non voglio tradurre ma neppure stemperare. Costruire attrezzi contro gli stereotipi di genere che producono violenza è il mio lavoro di editora, giornalista, madre. Pubblicai #Quellavoltache. Storie di molestie, l’ashtag lanciato da Giulia Blasi, prima che scoppiasse il #metoo globale, quando nel 2017 Asia Argento denunciò di essere stata stuprata da Harvey Weinstein. Fummo accusate di «cancel culture». In Francia pubblicarono addirittura un manifesto contro «l’inibizione della seduzione», era il 2018. Nel 2020 il produttore della Miramax fu condannato a 23 anni di carcere.
Il patriarcato resiste: è la scatola-mondo entro cui tutte/i ci muoviamo. Quelli che si affannano a dichiararlo finito, non vogliono nominare questo humus che alimenta la violenza ogni giorno, in ogni latitudine, in ogni classe, contro ogni soggetto secondo, (Patriarchia, Alias, 2/12/2023, il manifesto). Senza questa nominazione nessuno scarto vero sarà possibile: ciò che non è non cambia neppure. Continuiamo a parlare.
La buona notizia è che quello della cura è anche uno spazio interamente nostro. È proprio la matrilinearità di quei saperi, che ci rendono a un tempo deboli e forti, che a me ha dato coraggio. Stavo subendo una perdita generatrice che mi costringeva viva. Sta nell’attraversamento del dolore in combinato disposto con il desiderio di vita, secondo me, la resistenza delle donne. Agli uomini stiamo togliendo le parole per questo ci uccidono, per non fare i conti con una cancellazione, la nostra (ma anche quella dei poveri, dei migranti, etc), che è un dato storico. Ma il lutto richiede un’azione di riparazione enorme che ci addolora al punto da renderci invincibili. Continueranno a ucciderci e noi ripareremo ancora. Dovrà esserci un giorno in cui costruiremo più di quello che riusciranno a distruggere. Ricordiamolo nel leggere le loro guerre. Siamo Antigone di fronte a un re nudo.
L’8 marzo possiamo scioperare da tutto questo. Fermiamoci/fermiamoli.
Questo articolo è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla
PASSAPAROLA: GRAZIE ♥Simona Bonsignori
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