#Unite contro la violenza Annabel e il suo bambino

Laura Bosio, 02 marzo 2024

Destiny è nato dopo uno stupro in Libia. Lei lo guarda con amore mentre studia italiano nella scuola per migranti Penny Wirton di Milano. «Il maltrattamento fisico o verbale lede la fiducia nelle capacità di coordinare in autonomia il corpo e di avere un rapporto pratico con gli altri. Chi lo subisce prova vergogna. È un attacco ferocissimo al rispetto di sé. Ero veramente in grado di capirlo?»

Di Laura Bosio

Sono scabre le storie che ascolto nella scuola di italiano per migranti di cui sono responsabile da quasi dieci anni. Si chiama Penny Wirton, come il protagonista del racconto di Silvio D’Arzo: un ragazzino sfortunato che parte alla ricerca di una vita migliore e della propria identità. Eraldo Affinati e Anna Luce Lenzi hanno intitolato a lui le nostre scuole quando hanno fondato la prima a Roma nel 2008. Ormai sono più di sessanta, in tutta Italia e nel Ticino.
Storie scabre, dicevo, confidate in un italiano elementare e incerto. Storie di vite a pezzi, che hanno la durezza come costante. Per sopportarle, o risarcirle, sarei tentata di “romanzarle”, o enfatizzarle. Ma gonfiarle di dettagli e di calore patetico significherebbe perderle, forse tradirle. In una intervista televisiva abbastanza recente Vasco Rossi ha sottolineato un passaggio che lo riguarda e che condivido: “Mi ero reso conto che era arrivato il momento di stringere, usare poche parole, colpire”.
Annabel si era presentata a scuola con un bambino, di sei mesi, aveva i suoi stessi occhi liquidi e la sua stessa pelle morbida e nera. Una volontaria del centro che la ospitava, la accompagnava ogni volta a scuola per fare da baby sitter al bambino durante la lezione. Annabel era analfabeta. Nel villaggio della Nigeria dove era nata non aveva niente, né una famiglia, sterminata, né del cibo né la minima possibilità di lavoro. Aveva soltanto la sua bellezza di ventenne, una saggezza naturale, o culturale, sviluppata a caro prezzo nella sua tribù, e una enorme forza d’animo. Era felice, alla lettera, dei suoi libri e dei suoi quaderni, di sentirsi una studentessa, non perdeva un giorno di lezione. Al bambino che gattonava sul banco dello stanzone senza mai frignare e faceva giochi tranquilli con la volontaria, lanciava sguardi innamorati. Tutti noi eravamo innamorati di quel bambino. Era amore quello che irradiava da loro, ho pudore a scriverne ma penso di essere lucida, di non avere idealizzato nessuno, in questi casi non c’è ironia che tenga. Il bambino era nato da uno stupro. In Libia Annabel era stata presa, immobilizzata, violentata e poi scacciata. Era incinta quando era sbarcata in Italia dalla nave di una Ong che l’aveva raccolta insieme ad altri disperati in mezzo al mare. Aveva partorito in un ospedale di Milano, dove era stata trasferita dalla Sicilia. Aveva chiamato il suo bambino Destiny.
Si può essere offesi nella propria integrità fisica, non potendo più disporre del proprio corpo, come è successo a Annabel. Si può essere umiliati dall’esclusione del godimento dei diritti accordati a pieno titolo ai membri della società, come succede a tutti i migranti. Si può essere oltraggiati nel vedere negato ogni valore sociale al proprio modo di essere, al proprio essere. Il riconoscimento negato è una delle peggiori forme di spregio, che può portare al crollo totale dell’identità. Il maltrattamento fisico o verbale lede durevolmente la fiducia nelle capacità di coordinare in autonomia il corpo e di avere un rapporto pratico con gli altri. Chi lo subisce prova vergogna. È un attacco ferocissimo al rispetto di sé. Ero veramente in grado di capirlo?
Quel giorno in cui Annabel mi aveva raccontato la sua storia, uscendo da scuola avevo visto, sul marciapiede opposto, un uomo ubriaco. Stava prendendo a pedate una canina incinta, malconcia, quasi certamente randagia. Più la canina si sforzava di risollevarsi, più l’uomo, un latinoamericano malridotto, con una maglia di cotone anche se faceva freddo, dei pantaloni rotti e una scarpa sola, l’altro piede era fasciato, la ributtava giù. Avrei voluto fermarlo, ma mi ero bloccata: mi sentivo responsabile verso quell’uomo abbrutito, io la borghese che tra poco sarebbe stata a casa, responsabile come quell’uomo lo era verso la canina. Ansimavo, dalla bocca mandavo fuori nuvole di fiato, non ce la facevo a muovere un passo. Poi l’uomo, dall’altra parte della strada, aveva visto me. Ci eravamo fissati. Diceva bestemmie che non capivo, sputava per terra e agitando le braccia se ne era andato, barcollando. La canina si era alzata, si era guardata intorno e trascinando una zampa si era allontanata. Tutti e due abituati a prendere botte.
Finalmente avevo attraversato la strada e mi ero diretta verso la metropolitana, nel traffico delle sei che a pochi passi dall’isolato tranquillo cominciava ad aumentare. Avevo scosso via le gocce di umidità dal piumino, dai pantaloni. Avevo pensato che, a dispetto della nostra esperienza storica, e personale, non sappiamo cosa pensare delle vittime. Quasi tutto quello che potremmo dire rischia di suonare ingiusto, indegno, falso, contraddittorio, perfino pericoloso.
Mi chiedo se è questo che proviamo a fare a scuola: cercare mezzi, vie per comunicare parole, sentimenti e pensieri ad altri uomini e donne nei quali, pur nelle differenze, ci riconosciamo, favorendo in ciascuno, noi compresi, una fiducia rivolta all’interno, che dia sicurezza nell’articolazione dei bisogni e nell’esercizio delle capacità. Sarà la strada di una forma post-tradizionale di solidarietà?
Quanto ci siamo crogiolati nell’uso edificante della parola “altro”, collegata all’impegno sociale e etico, alla carità religiosa, al soccorso spirituale… vedere con gli occhi di un altro, ascoltare con le orecchie di un altro, sentire con il cuore di un altro… Se vuoi immedesimarti in qualcuno, cammina per un miglio nelle sue scarpe, dice un proverbio degli indiani nativi d’America.
Non so se sono mai riuscita a camminare nelle scarpe di Annabel. Ha imparato l’italiano, è entrata in un programma del Comune, il suo bambino va all’asilo. Lavora come parrucchiera in un negozio di donne. Ogni tanto si mette una parrucca azzurra.

Questo articolo è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla.

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Laura Bosio

Laura Bosio vive e lavora a Milano come consulente editoriale. Ha pubblicato, tra gli altri: I dimenticati (Feltrinelli 1993, Premio Bagutta Opera prima), Annunciazione (Mondadori 1997, Premio Europeo Moravia; nuova edizione aggiornata Guanda 2023), Le ali ai piedi (Mondadori 2002), Le stagioni dell’acqua (Longanesi 2007, Finalista Premio Strega), Le notti sembravano di luna (Longanesi 2011), D'amore e di ragione. Donne e spiritualità (Laterza 2012), Per seguire la mia stella (con Bruno Nacci, Guanda 2017), La casa degli uccelli (con Bruno Nacci, Guanda 2020), Erba matta (Collana Il bosco degli scrittori, Aboca 2021). Dal 2015 è responsabile della Scuola di italiano per migranti Penny Wirton Milano. Su questa esperienza ha scritto Una scuola senza muri (Enrico Damiani Editore 2019). È stata docente di Tecniche della scrittura al Master in Giornalismo dell'Università Cattolica di Milano.

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