Dov’è che un uomo o una donna neri possono dirsi a casa, oggi? Ripercorrendo le rotte dei negrieri, la scrittrice afroamericana Saidiya Hartman arriva a Gwolu, in Ghana, dove si erano rifugiati schiavi e schiave sfuggiti ai mercanti costruendo “nuove società”: lì la memoria non è stata dispersa e la schiavitù può parlare all’oggi
Di Clotilde Barbarulli
Saidiya Hartman usa parole d’amore e di odio nel suo andirivieni fra passato e presente, intrecciando la ricerca storica alla propria vita, mentre segue la rotta delle navi negriere dalle coste del continente africano verso le Americhe, con l’obbiettivo, affettivo e politico, di dar voce alla diaspora di chi è stat* dimenticat*, offrendoci una rimemoria (teorizzata e indagata da Toni Morrison): «La tratta degli schiavi incombeva su di me più di qualsiasi ricordo di un glorioso passato africano o di un senso di appartenenza al presente». Immergendosi nei documenti e nelle testimonianze degli schiavi, è tormentata da interrogativi sull’appartenenza, l’identità, la memoria, mentre cerca di restituire storie del passato che parlano al suo presente. I ricordi del padre sono pochi, e trova che la trisnonna materna alla domanda su cosa rammentava della schiavitù, aveva risposto «Proprio nulla»: pur comprendendo la reticenza a parlare della schiavitù, si sentiva determinata «a riempire gli spazi vuoti delle fonti storiche e a rappresentare le vite di quelli ritenuti non degni di essere ricordati».
Il viaggio a ritroso verso il Ghana (ex Costa d’Oro, centro del fiorente commercio atlantico, da cui, al tempo del dominio olandese, si valuta passassero circa trentamila schiavi all’anno) ha come prima tappa Accra, dove l’autrice deve fare i conti con il senso di estraniamento, di diffidenza del popolo che la definisce una obruni (straniera) perché, anche se nera, è pur sempre americana. Anche al castello di Elmina scopre come, nonostante la storia di orrore che trasuda da ogni pietra – specie nelle segrete dove gli schiavi venivano incatenati alle pareti, a volte per mesi, prima di essere deportati nel ‘Nuovo Mondo’ – la roccaforte non sia altro che una meta turistica, mentre per i ghanesi la schiavitù è un fatto del passato, di cui è meglio non parlare.
Hartman nell’accusare gli invasori europei della tratta, non evita di stigmatizzare il ruolo che i popoli africani hanno svolto al riguardo. Nelle diaspore, le storie intime portano così al confronto con i limiti ed i vuoti degli archivi materiali, con fonti irrintracciabili, con luoghi trasformati in attraenti forme di turismo etnico ed esotico, con la vergogna e il tabù di dirsi pubblicamente discendenti degli schiavi (Borghi). «Ma i corpi – scrive Hartman – dove li hanno messi i segni della schiavitù?». L’autrice non riesce a liberarsi dalle immagini accumulate tramite le letture delle “atrocità commesse durante le guerre di cattura e le razzie di schiavi”. Se gli émigrés degli anni Sessanta, ritornati in Ghana per ricollegarsi ad un passato ricco e glorioso, avevano creduto nel sogno di un’Africa unita (“Afrotopia”), l’epoca dell’autrice, cresciuta dopo l’indipendenza africana, i diritti civili, le lotte del Black Power , è quella del disincanto se non del pessimismo: «Anch’io vivo nel tempo della schiavitù, intendo nel futuro creato da essa».
Tuttavia lungo la rotta atlantica, Hartman attraversa la città di Gwolu, dove si erano rifugiat* schiavi e schiave in fuga che erano riuscit* a sottrarsi ai mercanti e agli agguati dei predoni costruendo “nuove società”, e scopre così che lì la memoria non è stata dispersa, e che in tal modo la schiavitù può parlare all’oggi ricordando le radici dell’accumulazione capitalistica all’Occidente. «A Gwolu, finalmente mi sono resa conto che coloro che sono rimasti indietro – le/i sopravvissuti alla tratta degli schiavi – raccontavano storie diverse rispetto ai figli dei prigionieri trascinati attraverso il mare».
Per Hartman la schiavitù non appartiene al passato, ma si estende al presente in molte altre forme, ha “una vita postuma”: si delinea un intreccio temporale, dove il passato, il presente e il futuro non sono tagliati fuori l’uno dall’altro, ma simultanei. “Perdere la madre” vuol dire vedersi negare la propria identità, ed il ritorno resta impossibile, ma la perdita “ri-crea”. Il fantasma della schiavitù perseguita il presente di chi è afroamerican* se non cerca di cambiare la società occidentale dove i corpi neri sono ancora considerati oggetti. Se la schiavitù rimane una questione aperta nella vita politica dell’America nera, sottolinea l’autrice, è perché “le vite nere vengono ancora svalutate” e considerate sacrificabili. A Gwolu, ascoltando il canto di un gruppo di ragazze, la scrittrice capisce che l’eredità dei fuggitivi, degli schiavi ribelli e di tutt* quell* che erano «determinati a fermare il tempo e a istituire un nuovo ordine, anche a costo della vita» era in definitiva «il sogno di un altrove, con tutte le sue promesse e i suoi pericoli, dove i senza-stato potessero, finalmente, prosperare».
Anche François Vergès cita il “marronnage”, la forma di resistenza che consisteva nel fuggire dalla schiavitù della piantagione, alla ricerca della libertà creando comunità provvisorie. È la possibilità creativa di essere costantemente in relazione, in movimento, in spostamento, in invenzione di nuovi e liberi territori, è la pratica quotidiana e costante della libertà che, sostiene Hartman, si esprime anche nell’abbandonare le vecchie identità, segnate dalla violenza e dal dominio della razza e del capitale, per provare a reinventarne di nuove e rivoluzionarie: se, come affermava l’attivista e scrittrice indiana Mahasweta Devi, il diritto a sognare un mondo senza sfruttatori è fondamentale, “le responsabilità cominciano dai sogni” (Yeats).
Saidiya Hartman, Perdi la madre. Un viaggio lungo la rotta atlantica degli schiavi, Trad. di Valeria Gennari, Tamu 2021.
Liana Borghi “Dagli archivi della diaspora”, Scuola estiva a Duino 2011 (www.raccontarsialgiardino.it)
Lidia Curti Femminismi futuri, Iacobelli 2019.
W.B. Yeats https://1995-2015.undo.net/it/magazines/1182089484
https://thecreativeindependent.com/people/saidiya-hartman-on-working-with-archives/
Mahasveta Devi, “La scrittura a tre dimensioni”, in il manifesto, 26 novembre 2005
Manifesto collettivo dell’Atelier IV, proposto da scrittrici e artiste con Vergès (2017) www.fmsh.fr/fr/college-etudesmondiales.

Clotilde Barbarulli

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