La colpa è sempre della madre

Francesca Romana Di Santo, 24 ottobre 2020

A Roma, al cimitero Flaminio, esiste una zona dedicata alla sepoltura di feti abortiti. Una croce bianca con su scritto il nome e il cognome della donna che ha effettuato l’aborto e anche il giorno in cui è avvenuto. Naturalmente all’insaputa delle donne stesse. Ed è stato solo grazie al coraggio di una di loro, che ha scoperto di essere in quel cimitero e ne ha parlato pubblicamente, che oggi ne siamo a conoscenza. 

Com’è possibile una tale aberrazione? 

Le associazioni antiabortiste, cattoliche integraliste, prelevano da alcuni ospedali pubblici, con i quali stringono convenzioni, i feti abortiti dopo la ventesima settimana, ottenendo anche i dati sensibili delle donne, e vanno a seppellirli con rito cattolico. 

Di queste aree cimiteriali in Italia ce ne sono molte, almeno cinquanta secondo la giornalista Jennifer Guerra, ma si tratterebbe di una stima al ribasso

La prima volta che ho visto l’immagine del cimitero dei feti, ho provato rabbia e disgusto.

Dopo qualche ora l’ira e l’incredulità hanno lasciato il posto alla paura. 

Non appena ho chiuso gli occhi mi è apparsa l’immagine viva di donne sotterrate fino al petto, gli occhi sgranati e increduli, intente a schivare le pietre che si scagliavano da ogni parte contro di loro. Lapidate. 

La lapidazione è una pena capitale praticata ancora oggi in alcuni paesi del mondo, quasi sempre contro le donne e quasi sempre per “reati” sessuali e contro la morale religiosa. È regolata dalla Sharia e accolta da alcuni Stati, ma è anche una forma di vendetta del popolo, di chi si professa offeso, di chi subisce quel reato.

Per un attimo ho creduto che quell’immagine riaffiorasse alla mia memoria direttamente da qualcuna delle serie distopiche che ho divorato negli ultimi anni.

Ma no. Riflettendoci mi sono resa conto che era proprio il cimitero dei feti, smascherato perché privato del suo velo simbolico.

Lapidate dal popolo offeso per un reato contro la morale cattolica.

Ma non siamo in un paese laico?

Che valore ha e cosa significa laicità in Italia nel 2020?

Ho un groviglio nello stomaco di capelli, pietre e domande a cui non trovo risposte. E mi torna sempre agli occhi questa immagine.

Lapidate.

Mi sembra evidente che in Italia esista ancora una gigantesca questione sulla libertà delle donne di decidere liberamente sul proprio corpo, e in questi anni i movimenti femministi, le associazioni, i centri antiviolenza e le Case delle donne l’hanno più volte ribadito e per questo sono scese in piazza.

Il diritto di abortire, e il completo anonimato nel farlo, è minacciato su più fronti, dai movimenti antiabortisti e dalle destre oltranziste, sempre più potenti e ben finanziate, che rivendicano le radici cristiane europee: la Polonia sovranista ha appena vietato anche l’aborto in caso di malformazione del feto. 

La strada per poter abortire è lastricata di inciampi, umiliazioni, paternalismo, problemi di ogni tipo, a partire dalla difficoltà di trovare una struttura che pratichi l’aborto, un* medic* che non sia obiettore di coscienza, un’equipe che l’assista.

Per cercare di andare oltre la rabbia e la paura ho cercato di mettere insieme alcune questioni che mi sembra emergano da questa vicenda e che, nel caso specifico, riguardano principalmente l’aborto terapeutico.

La prima è la mancanza quasi totale di informazioni date alla donna o alla coppia in seguito alla decisione di abortire. Dai racconti degli ultimi giorni si capisce che non c’è nessuno preposto a spiegare cosa succede dopo aver abortito oltre la ventesima settimana. Per esempio che il feto va seppellito per legge e se “la famiglia” non provvederà, potrebbe essere prelevato da un’associazione cattolica con cui l’ospedale ha stretto accordi e verrà seppellito con rito cattolico.

Niente di tutto questo viene detto al momento dell’ingresso in ospedale, un ospedale pubblico, laico.

Abbiamo detto con rito cattolico. Infatti le associazioni antiabortiste non si limitano a seppellire il “materiale abortivo”, per puro spirito di compassione cristiana, ma compiono una cerimonia religiosa, un funerale, violando di fatto la libertà religiosa delle persone coinvolte.

Un altro punto cocente è l’ipocrisia. Com’è possibile che la forza politica ed economica della chiesa riesca ad imporsi sulla politica, tanto da trovare comuni e ospedali laici conniventi, quando si parla di aborto libero, mentre non incide altrettanto sulle scelte dei partiti e del governo su alcune questioni come per esempio la legge sullo Ius Soli o i decreti sicurezza,  le multe alle ONG,  i centri di detenzione de* migranti,   il diritto alla casa?

Un’altra questione fondamentale altrettanto ipocrita, è quella degli esami prenatali, tantissimi, ansiogeni e costosi.

Tra il terzo e quarto mese di gravidanza, si fa normalmente lo screening per verificare se il feto ha delle anomalie genetiche. Fino a qualche anno fa si ricorreva molto spesso all’amniocentesi, esame molto invasivo e con una percentuale di possibilità di aborto, che poteva però essere eseguito in ogni ospedale, compresi quelli cattolici. Da qualche anno invece si può ricorrere ad un semplice prelievo di sangue che a seconda del livello dell’esame e del costo, rileva ogni tipo di malattia. 

 L’amniocentesi è gratuita in ospedale dopo i 35 anni, a pagamento se si è più giovani, mentre il prelievo di sangue costa dalle 600 euro in su, secondo di “ciò che si vuol sapere”.

Quando ero incinta di mia figlia, due anni fa, ho vissuto la mia gravidanza tra l’Italia e la Francia. La mia ginecologa italiana, in forze all’ospedale cattolico più importante della capitale, mi aveva parlato dei vari controlli che avrei dovuto fare ma, dovendo ripartire,  ho fatto gli esami a Parigi. Il ginecologo francese, consigliandomi di fare solo il prelievo di sangue basico per le anomalie mi chiese in tono di scherno “ma perché in Italia consigliano sempre gli esami più costosi, quelli che rivelano più malattie, e poi non vi permettono di abortire?” 

Infatti, perché?

Un’ultima questione, i nomi delle madri sulle croci. Violenza inaudita e ovviamente simbolo fondamentale dello stigma che colpisce le donne. Fino a pochissimi anni fa, senza alcuna distinzione e possibilità di cambiamento, al momento della nascita i bambini e le bambine prendevano il cognome del padre. I cognomi delle donne scomparivano dalle genealogie. La questione è che, ancora adesso, non è così semplice fare in modo che anche il proprio cognome venga tramandato, nonostante esista una legge per farlo. 

Parlo ancora di me. Quando ho partorito un anno e mezzo fa, sono andata di persona a registrare mia figlia all’ufficio anagrafe dell’ospedale. Mi è stato detto che vista l’assenza del mio compagno e la mancanza di un modulo firmato, loro non potevano sapere se il padre fosse d’accordo con me nel voler dare entrambi i nostri cognomi a mia figlia. A me! Ancora con la camicia da notte sporca del  sangue del parto. Ma se lì ci fosse stato il padre, gli avrebbero rivolto la stessa domanda? NO. 

Dunque la bambina appartiene al padre, ma la COLPA è della madre.

Le associazioni di donne, i movimenti femministi come Non Una di Meno, i centri antiviolenza e le case delle donne sono da sempre, e ancora di più negli ultimi anni, in lotta, per parare i lanci di pietre contro le donne e contro la legge 194, ma quando finalmente anche i partiti, le donne e gli uomini che ci governano, le amministrazioni locali e chi gestisce la sanità pubblica e la ricerca si sentiranno liber* da pressioni “Alte”? 

Quando si potrà dire che questo è un paese laico?

 

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Francesca Romana Di Santo

Francesca Romana di Santo nasce a Roma nel 1979. Si laurea in lettere e filosofia alla Sapienza e durante gli anni dell'Università comincia a scrivere cronache di partite di calcio, finché non si iscrive all'albo dei giornalisti pubblicisti. Il mese dopo aver discusso la sua tesi vede uno spettacolo a teatro che la folgorerà completamente, soprattutto il suo protagonista, l'attore francese William Nadylam, e la sua vita prende un'altra strada. Decide di studiare per diventare un'attrice e si trasferisce a Perugia dove frequenta l'accademia dello stabile dell'Umbria. Per molti anni lavora in numerosi spettacoli, continua la sua formazione, insegna teatro a bambin* e adolescenti e si dedica anche alla scrittura con la drammaturgia di “Bombe di carta” liberamente ispirato all'epistolario tra Virginia Woolf e Vita Sackville-West, “Io, Cassandra” un monologo dove i desideri dell'autrice e interprete si mescolano a quelli di Cassandra di Christa Wolf e la scrittura scenica “Tutto il nostro folle amore” con il collettivo artistico nato dentro il Teatro Valle Occupato. È attivista del Teatro Valle Occupato e nei movimenti femministi. Vive sparpagliata tra Roma e Orléans, dopo che più di due anni fa ha deciso di trasferirsi in Francia, dove fa parte della compagnia teatrale Collectif36bis. Da quest'anno è iscritta alla SIL e alla Virginia Woolf Society. I suoi sogni nel cassetto sono chiacchierare davanti a un tè con Virginia Woolf, vincere l'Oscar e condurre la domenica sportiva. William Nadylam l'ha già conosciuto.

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