Warrior Nun è una serie fantastica e drammatica che racconta la storia di un ordine di suore guerriere che ha il compito di distruggere i demoni presenti sulla Terra. Produzione della piattaforma Netflix, la prima stagione è arrivata in Italia nell’estate del 2020 e ora siamo in attesa della seconda.
In Warrior Nun si racconta, in modo non retorico, la sorellanza, si raccontano le donne come amiche e sorelle, indagando anche gli aspetti più tremendi delle relazioni femminili. «Era mia sorella, certo che la odiavo», è una battuta che può darvi un esempio del tipo di relazioni di cui stiamo parlando. Non c’è un’eroina sola nella serie, e comunque non nel senso proprio a cui siamo abituatə. C’è una collettività che lotta per un obiettivo comune, per fare in modo che “Nessuna resti da sola”. Dietro ogni guerriera si nasconde un dolore, un trauma, una crepa che la rende una sopravvissuta e che la mette in empatia con il dolore delle altre.
C’è chiaramente una messa in discussione del potere, patriarcale ed ecclesiastico: nonostante le suore facciano parte della gerarchia, e quindi di quel potere, si pongono in contrasto con gli uomini della chiesa, li criticano apertamente e ne subiscono anche gli attacchi.
Devo confessare che mi sono divertita molto nel veder combattere contro mostri e demoni queste ninja esperte e furiose, in più, l’unica attrice italiana, Sylvia De Fanti – la Madre Superiora – è una mia amica sorella compagna. L’ho invidiata molto – in senso buono ovviamente – mentre guardavo la serie, non solo perché è bellissima anche vestita da suora, ma perché, guardare per credere, recita scene che ogni attrice vorrebbe interpretare almeno una volta nella sua carriera.
Ho chiesto a Sylvia, di parlarmi della seconda stagione e ne è nata una chiacchierata sulla serie, sul suo lavoro di attrice, ma soprattutto sulle possibili letture che si sono svegliate dentro di noi.
Francesca. Io credo che la serie sia femminista nel senso che contribuisce a creare un immaginario nuovo, che a sua volta contribuisce a costruire un nuovo mondo possibile. Prima di tutto perché affronta il tema della forza fisica e della violenza legato al femminile, che per molto tempo è stato rimosso e ignorato, ma che negli ultimi anni è stato approfondito dal punto di vista teorico e pratico dalle femministe: mi vengono in mente due saggi che ho letto ultimamente “Un altro genere di forza” di Alessandra Chiricosta e “Difendersi. Una filosofia della violenza” di Elsa Dorlin. Poi perché ci troviamo di fronte a delle guerriere, che non sono eroine solitarie che lottano per sé stesse e per guarire la loro ferita, ma sorelle che combattono insieme per un ideale in cui credono, per cui il punto di vista femminile si moltiplica, anche grazie a una tecnica narrativa polifonica, che crea la risonanza della voce di un’altra donna nella propria voce. Tiziana De Rogatis scrive che la risposta delle donne al logos unico dei maschi è polifonica ed è anche ambivalente, perché scava nel torbido delle relazioni femminili. Credo che si possa riferire anche a questa narrazione.
Sylvia. La maggior parte delle sceneggiatrici della serie è donna e io credo che questo faccia molto la differenza. Warrior nun è catalogata come una serie di genere, e mi piace che questa parola possa essere declinata con più significati. Sicuramente è importante il tema della violenza e delle armi, violenza che non è necessariamente quella del romanzo “Ragazze elettriche” di Naomi Alderman. Benché non sia trattata specularmente, mantiene delle caratteristiche peculiari a una soggettività femminile mista e multiforme, polifonica, per riprendere De Rogatis, e questo è l’aspetto più interessante: nelle varie caratteristiche delle personagge emergono degli aspetti conflittuali che non si risolvono nel lieto fine, ma che rappresentano il rovescio di un certo tipo di racconto. Questa potrebbe essere una storia di formazione, dove l’eroina per un bel pezzo decide di non aderire a quello che si vuole per lei, benché sia un destino eroico, per seguire un altro tipo di eroismo. È interessante che in una serie di base teen, con un target molto specifico, emergano questi aspetti. C’è un’allusione a dei passati non casti, una delle personagge uccide tranquillamente, c’è una concezione della religione assolutamente tangenziale rispetto al credo di combattere il male e di difendere le proprie sorelle.
Francesca. La tua è un personaggia molto interessante da studiare e immagino molto divertente da interpretare! Ha un’evoluzione che non ti aspetti e cambia completamente rivelando la sua vera natura. Mi ha ricordato istintivamente zia Lydia de “I racconti dell’ancella”, guardiana integerrima delle istituzioni e della legge che poi evolverà in una direzione totalmente imprevista nel romanzo di Atwood “I testamenti”.
Sylvia. Si, la mia è una personaggia molto interessante, perché la Madre Superiora accoglie in sé diverse contraddizioni. Da una parte c’è una corrispondenza rispetto alla verticalità della chiesa, del clero, delle gerarchie, dall’altra quella più preponderante, ovvero, la priorità data alle ragazze, che devo preparare ma anche proteggere. Il mio passato nasconde delle oscurità, come il passato delle altre personagge. È interessante la durezza e la complicità con un certo tipo di sistema e quanto poi questo venga incrinato dalla storia. Come zia Lydia certo, anche se il cambiamento è molto più veloce, da un asservimento totale alle istituzioni c’è un passaggio partigiano.
Francesca. Quanto c’è bisogno di raccontare queste storie per nutrire l’immaginario nostro e delle generazioni che verranno?
Sylvia. Mi fai pensare a una battuta che dice ad un certo punto Ava, la protagonista, credo nell’episodio 4, sulle statue. Lei sta passeggiando sul sagrato della collegiata, nel luogo deputato al nostro training, insieme a Padre Vincent, vede la statua di un uomo e si chiede come mai se sono le donne a combattere c’è la statua di un uomo al centro dello spazio. Emerge un tema intorno alle statue che è stato centrale negli ultimi tempi, sollevata in particolare dal movimento Black Live Matter, che in diversi casi ha divelto statue di uomini potenti, famosi, descritti come virtuosi ma che in realtà erano maschi dominatori, colonialisti, schiavisti, pedofili e autori o responsabili di genocidi. Quindi hanno posto l’attenzione su una realtà che interpreta la storia come storia dei dominatori e cristallizza in queste figure una visione della storia basata sulla supremazia bianca. E anche questo riguarda come si costruisce l’immaginario.
Penso alla statua di Edward Colston a Bristol, sostituita con la statua di Jen Reid – militante di Black Live Matter – dal titolo “A surge of power (Jen Reid) 2020” dell’artista Marc Quinn, come atto performativo. Quello che è successo dopo la performance è che sotto la statua bambinə bianchə e nerə, hanno alzato il pugno. Quindi diciamo che il cambio dell’immaginario si è esplicitato immediatamente.
Oppure penso alla vernice fucsia lanciata a Milano sulla statua di Montanelli dalle femministe di Non una di meno, gesto che ha aperto anche in Italia un dibattito intenso e interessante sulla questione, smascherando tra l’altro padri putativi quantomeno discutibili. Per tornare alla serie, possiamo dire che una semplice battuta apre un intero mondo rispetto alla concezione del patriarcato e come e in quali forme si esprime e si insinua in ogni interstizio della realtà.
Francesca. Ci puoi dare qualche anticipazione sulla seconda stagione?
Sylvia. Ovviamente non posso! Ma sono molto felice di come si è evoluta la storia. Ci saranno molti colpi di scena, soprattutto per quanto riguarda la Madre Superiora.
PASSAPAROLA: GRAZIE ♥Francesca Romana Di Santo
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