La filosofa femminista Rosi Braidotti esorta a “formulare un’etica all’altezza delle complessità del nostro tempo”, sfida perfettamente raccolta e interpretata da Michaela Coel, autrice, interprete, produttrice e regista della serie angloamericana firmata HBO e BBC One, “I may destroy you”. In un momento in cui tuttə tentano di punire, scovare il colpevole, dividere tra buoni e cattivi, trovare la soluzione, risolvere il problema, lei ci prende e ci lascia solə dentro un labirinto psichedelico in cui nulla è scontato e in cui la gioia, il dolore e la rinascita si nascondono nelle crepe e nelle ferite, insomma bisogna saperli trovare.
I temi sono molteplici e sempre trattati in maniera complessa, stratificata, sempre sulla soglia, in disequilibrio tra l’evidenza dei fatti e il mistero delle emozioni.
Quando ho visto, tutti di seguito durante una notte, i dodici episodi della serie, ho fatto subito tre cose. Ho gridato “È una rivoluzione”, ho nascosto gli occhi tra le mani come una bambina – per il troppo dolore che non riuscivo a sopportare davanti ad alcune scene – e ho pensato “Incredibile si può raccontare un pezzo di Roma senza avere tutti attori maschi, e sempre gli stessi.”
Dalle prime scene sappiamo che la protagonista, Arabella, interpretata da Michaela Coel, è a Roma, a Ostia precisamente, e che sta ripartendo per Londra. È una scrittrice ed è in Italia per trascorrere del tempo con un ragazzo e per trovare l’ispirazione, per il suo prossimo romanzo. Tornata a Londra, ad accoglierla ci sono la sua migliore amica-sorella Terry, il suo coinquilino Ben, e il suo migliore amico Kwame, co-protagonisti della storia.
Il tema centrale della serie credo sia il consenso, in forme che spesso non riusciamo a vedere, che non rientrano nelle immagini esposte e sovraesposte delle vittime e dei carnefici. Nell’interstizio più impensato si annidano il dolore e la violenza. E non ci sono neanche le parole per dirlo. E quando non ci sono le parole per dirlo, il dolore per gli altri non esiste.
Ma dentro questo pozzo magico si parla anche di molto altro.
Coel ci spiega con una battuta folgorante il concetto di intersezionalità, che in filosofia è stato introdotto da Kimberlé Crenshaw alla fine degli anni Ottanta, ed è oggi centrale negli studi femministi. «Prima di essere stuprata non ho mai pensato a cosa significasse essere una donna. Ero impegnata ad essere nera e povera». Arabella legge uno stralcio di quello che sta scrivendo ai suoi agenti letterari e va avanti raccontando ciò che la lega ai suoi fratelli neri. Un manifesto molto potente.
Esistono diverse forme di oppressione nella stessa esperienza individuale. Un concetto lampante, ma prima degli anni Ottanta ignorato per esempio dalle femministe bianche, che non consideravano le diverse oppressioni cui erano esposte le donne nere e le donne delle classi operaie.
Angela Davis ci spiega in questo modo la mancata alleanza fra donne nere e bianche rispetto ad alcune lotte femministe come quella per il diritto all’aborto e per una legge contro lo stupro negli anni ‘60/’70 negli Stati Uniti. Le nere americane preferirono allearsi con i loro fratelli neri piuttosto che con le bianche ricche e borghesi con cui non condividevano quasi nulla. E ciò che spiega Arabella in quello che sta scrivendo è proprio questo. E lo ribadisce in un flashback. Lei e la sua amica Terry sono adolescenti, a scuola, un loro compagno nero viene accusato da una compagna di classe bianca di averla violentata: le nostre protagoniste si alleano con il fratello nero e gioiscono con lui e con gli altri compagni quando viene scagionato. Ma quello è il passato, e anche l’evoluzione nel tempo presente di quella storia ci racconterà di rapporti complessi e abusi e oppressioni che non avevamo immaginato.
Coel esibisce il suo corpo bellissimo e potente come uno strumento politico. È altezzoso, fragile, gioioso, affermativo, e vulnerabile. Non si racconta come una vittima, ribalta il paradigma tradizionale, è lei a condurre il gioco.
Il tono è da commedia, esprime in ogni momento la felicità della condivisione e dell’amicizia, e ci conduce trepidanti verso il lieto fine (alert spoiler) che a dispetto del chiasso, delle piume, delle paillettes, della musica, è intimo, piccolo, come il dolore che si trattiene dentro.
«Controlla ciò che puoi, né più né meno», dice Arabella a Terry ad un certo punto per sostenerla nella sua carriera attoriale.
Il movimento interno che la porta, nel commovente finale, a perdonare uno dei suoi aggressori è la presa di coscienza della sua libertà, la consapevolezza di avere il controllo sulla propria vita. E può andare avanti.
Coel compie inoltre, io credo, una piccola grande rivoluzione, scrive una scena interamente sulle mestruazioni, sul sesso durante le mestruazioni. Che gioia. Le mestruazioni. Ciò che regola in gran parte la nostra vita, ciò che, a detta della medicina, ci permette di condurre una vita più lunga di quella dei maschi, ciò che governa il nostro umore, ciò che ci rende sorelle quando arriva e sagge quando se ne va. Un salasso mensile che ci pulisce e fortifica in un ciclo eterno di vita e morte. Ma perché non c’è stata scritta sopra un’epica? Un elogio delle mestruazioni?
Non vi racconto la scena, ma lo sguardo del ragazzo intento ad osservare affascinato il grumo di sangue tra le sue dita, merita una menzione speciale.
E al diavolo gli uomini che ci spiegano quali assorbenti dobbiamo usare per non danneggiare l’ambiente.
Purtroppo è possibile vedere la serie solo su piattaforme internazionali e in lingua originale – che comunque è un gran guadagno – perché in Italia non è ancora disponibile e non è prevista neanche di un’uscita imminente.
PASSAPAROLA:








Francesca Romana Di Santo

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