“L’uomo” è suo padre, la cui storia è inevitabilmente intrecciata a quella della figlia, l’autrice. Si tratta dunque di una biografia? O di un’autobiografia? Di un memoir, come si dice oggi? Sì e no, perché è proprio il ‘genere’ di questo tipo di scrittura ad essere dibattuto e restare indefinito per eccesso di definizioni, mentre viene piuttosto da soffermarsi sulla dizione “atto pubblico”. Certo questo libro è aperto alla lettura del pubblico più ampio, ma non sarebbe stato accettato facilmente in un passato non troppo lontano proprio per la sua dichiarata appartenenza alla sfera ritenuta strettamente privata della vita di una persona, a maggior ragione se donna. Neppure sarebbe stato ritenuto interessante, per assenza di quei tratti didascalici o edificanti o in qualche modo esemplari, che emergono invece dalle autobiografie maschili. Non ci fossero da qualche decennio le ricerche e gli appassionati studi delle storiche e delle letterate, molte delle segrete scritture femminili ‘di memoria’ depositate negli archivi, poche a fronte di quelle maschili, sarebbero ancora ignorate.
Acquisito socialmente e culturalmente il diritto di presentarsi come soggetto ‘attivo’ di azione e di pensiero, la donna scrittrice può oggi esplicitamente e liberamente testimoniare di un Sé che non è mai un’isola deserta ma un territorio attraversato da presenze in movimento, un’area di scambi e trasformazioni. Penso alla definizione un po’ sprezzante che a volte ho sentito dare a queste Scritture del Sé come di “scritture ombelicali”, a dire che non uscirebbero da un narcisistico ruotare attorno a se stesse, mentre si scorda che l’ombelico è il luogo che dice non solo l’inizio ma sigla la nascita “in relazione”, un‘evidenza che impronta per sempre le nostre esistenze consegnandole alla socialità.
Tornando a Carmen Gasparotto, che firma qui il terzo libro, dopo la partecipazione a testi collettanei, il suo percorso di introspezione prende l’avvio da un trauma, quello della perdita, per svilupparsi poi con un moto sismico coerente con i sussulti della mente e le suggestioni della memoria. Non entreremo nel merito del tipo di memoria che agisce, volontaria o involontaria, forzata o polemicamente abusata, seguiamo chi scrive nei meandri del presente, con il dolore che stenta a manifestarsi se non in forme ottuse, e soprattutto di un passato che torna a frammenti, a singulti, sconnesso, sentito addirittura come estraneo, tanto da imporre un instabile avvicendarsi del soggetto narrante.
Non è sempre infatti la prima persona a reggere il discorso, forte di una soggettività acquisita con l’esperienza, lo studio e la volontà ma, a più riprese, la terza persona, la bambina di un tempo, esposta senza saperlo nella sua vulnerabilità alla contingenza e al caso, che acquisisce modalità di comportamento permanenti anche in età adulta. Si muove su una linea difensiva, di un ‘non detto’ che evita il conflitto, di osservazione degli ‘altri’, di confronto, di impegno personale per “dimostrarmi all’altezza delle aspettative”. Si interroga sul perché in famiglia non si siano conservati gli oggetti d’uso comune non più funzionali e trova la risposta nell’assenza di “un’educazione sentimentale” che, trasmessa da una generazione all’altra, dà senso ai legami.
Si fronteggiano, l’adulta e la bambina, nel ricostruire la figura paterna al di là della sofferenza e anche del risentimento, per scoprire che i momenti di incontro in qualche forma ci sono stati, lasciando una traccia di insospettata corrispondenza affettiva. Come quando l’interrogarsi sulla possibile ‘felicità’ del padre porta a un’evidenza illuminante sul tipo di rapporto che si crea tra genitori e figli, sulla pretesa dei figli che la ‘felicità’ dei primi corrisponda alla gioia che essi sanno dare. È un’osservazione di grande sensibilità e coraggio, che inaugura – forse – uno sguardo meno intransigente, un preannuncio di riconoscimento che è sì dell’altro, del padre, non poi così ‘assente’ come chi scrive aveva creduto, ma che insieme è l’accettazione di sé come donna e come scrittrice che attraverso la conquista della parola cerca e trova la propria via.
Carmen Gasparotto, “Chiavi di riserva”, Kappa Vu, 2020
PASSAPAROLA: GRAZIE ♥Marina Giovannelli
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