Etta racconta il noto incendio del 25 marzo 1911 alla Triangle, ma anche le lotte sindacali delle giovanissime lavoratrici italiane e russe che per mesi scesero in piazza, prima e dopo la tragedia. Con Tessie, operaia e sindacalista, Etta trova la politica e l’amore. “Il cuore affamato delle ragazze” è il nuovo romanzo di Maria Rosa Cutrufelli
Di Barbara Mapelli
Il nuovo libro di Maria Rosa Cutrufelli ha molte qualità – oltre al fatto di essere bellissimo – ma secondo me tre sono le principali.
Si tratta di due particolari sapienze narrative, non nuove ma che scorrono nel testo con naturalezza, semplicità, non ne rompono il ritmo e anzi ne moltiplicano i punti di vista, i tempi e luoghi da cui si osservano gli eventi. La prima è l’uso del passato e del presente che si intrecciano, tra la narratrice anziana e lei stessa ragazza e partecipe degli accadimenti raccontati e la seconda l’alternarsi, se pure dosato con parsimonia, del ricordo diretto di chi si fa storia, personale e collettiva, e gli articoli dei giornali dell’epoca, col loro linguaggio, le ambiguità, ma anche l’orrore per i fatti avvenuti.
La storia narrata nel nuovo romanzo, Il cuore affamato delle ragazze, è quella della morte delle lavoratrici della Triangle – nota e ricordata da anni con la data dell’8 marzo – e la voce narrante è Etta, che vive il dramma da vicino, anche se non direttamente coinvolta.
La prima parte del libro segue la storia di Etta, piccolissima immigrata italiana, se pure di famiglie borghese, nelle forme del romanzo di formazione in cui assistiamo alle ingiustizie sociali che si perpetuano nei confronti in particolare della popolazione immigrata, e delle donne principalmente, mentre il ritmo del testo accelera e la crescita di consapevolezza di Etta accompagna l’accumularsi di tasselli narrativi che creano il quadro complessivo in cui lei vive, cui partecipa attivamente.
Avviene intanto l’incontro centrale con il personaggio che determinerà le scelte di Etta e diviene l’amore che le accompagna, che dà loro un senso ulteriore, un tono emotivo inconfondibile. Si tratta di Tessie «giovane donna alta e slanciata, con un lungo vestito bianco chiuso al collo dal nodo scuro di una cravatta», colta mentre aiuta una ragazza appena sbarcata e la cravatta, scopre poi Etta, è «l’irrinunciabile distintivo delle ragazze come lei, che si iscrivevano al sindacato e non volevano farsi da parte» (pp.55, 63).
Il coraggio, la determinazione di Tessie trascinano Etta a partecipare direttamente all’attivismo sindacale, la fanno ulteriormente consapevole delle ingiustizie che si consumano ai danni delle lavoratrici, mal pagate, sfruttate, senza alcun diritto riconosciuto. Tessie lavora alla Triangle e nello stesso palazzo Etta svolge la sua attività di infermiera, in condizioni ben più privilegiate delle lavoratrici della camiceria. Maria Rosa, per sottolineare le differenze sceglie, tra i molti possibili, l’esempio dell’ascensore, che la protagonista e narratrice usa regolarmente per recarsi al piano dello studio medico, mentre «le operaie della Triangle salivano col montacarichi. Una separazione netta: loro su quel trabiccolo, in piedi, il naso schiacciato contro la spalla della compagna, e io sul velluto dentro la cabina» (p.76). Seguono narrazioni potenti dei grandi cortei sindacali cui partecipano decine di migliaia di lavoratrici, non solo della Triangle e non solo a New York, e contemporaneamente si fanno chiare le prime avvisaglie dell’amore per Tessie.
Mi è apparsa straordinaria la capacità di tenere insieme questo doppio registro, mentre, nel passaggio dal presente dell’anziana signora al passato delle lotte epiche delle lavoratrici, l’autrice riesce anche a inframmezzare considerazioni sulla scrittura, filo della memoria che unisce i due tempi della narrazione; sulla delicatissima – e pericolosa – scelta delle parole, mentre Etta settantenne resta in dubbio se narrare le vicende del passato a due studenti che ne vogliono fare una tesi di laurea. La fatica minuziosa che questo scegliere comporta, «più stancante, perfino più temibile, di una nuotata in mare aperto. E comunque tutt’altro che innocuo, dato che le parole rimandano alle cose. Alla memoria delle cose. E la memoria può mordere ben più a fondo di uno stetoscopio» (p.154).
Intanto il ritmo del narrare accelera, si illumina della scena del fuoco che divampa alla Triangle, a quel maledetto nono piano con le operaie inesorabilmente chiuse dentro.
Il mozzicone di sigaretta che scatena l’incendio, un fuocherello che inizialmente appare come un serpentello infuocato che «si alzò sferzando l’aria con un colpo dato alla cieca, quasi a saggiare le sue possibilità. Ma i colpi successivi andarono a segno e, in un sol giorno, io passai dalla stagione della fede alla stagione dello smarrimento» (p.177). E poi il fumo, anche in questo caso una descrizione straordinaria.
«Il fumo ha un suo modo subdolo di presentarsi. All’inizio può sembrare perfino mansueto. Silenzioso com’è. Quando lo vidi spuntare lassù in alto, dalla parte delle scale, era appena un soffio. Calava come nebbia primaverile, uno sbuffo tenue, soffuso e lì per lì non pensai al pericolo. Non ebbi paura, anzi mi soffermai a guardarlo mentre si allungava alla ricerca di spazio. Mi veniva incontro e, più si avvicinava, più assumeva un colore acido, giallastro. Poi diventò decisamente torbido, una foschia che avanzava smagliandosi contro le pareti, moltiplicandosi in sfilacciature che diventavano sempre più corpose, più consistenti. Finché non si compattarono avvolgendosi in un vortice nero, rabbioso» (p.182).
E poi ancora le immagini dei corpi delle ragazze che si gettano nel vuoto, quei corpi che cadono a terra davanti agli occhi delle persone, alle loro grida: è uno spettacolo che a noi inevitabilmente richiama la tragedia dell’11 settembre.
Le pagine dei giornali dell’epoca, riprese da Maria Rosa, sono ambigue, ma avanzano senz’altro alcuni dubbi.
Li scioglierà il processo, che si pronuncerà per l’innocenza degli imputati padroni della Triange. La descrizione è affidata al New York World del 28 dicembre 1911.
«Ieri, 27 dicembre, si è chiuso il processo contro i proprietari della Triangle. Nel primo pomeriggio, alle 2.55, la giuria è entrata in Camera di Consiglio e ne è uscita alla 4.45: neanche due ore. Meno del tempo che ci è voluto ai vigili del fuoco per contenere l’incendio. E molto, molto meno tempo che è servito a identificare le vittime. (…) Ma comunque la si voglia girare, sta di fatto che il processo dell’anno si è chiuso con il seguente risultato: 148 morti e nessun colpevole». (pp.231, 2)
In questo caso l’opinione del giornalista è chiarissima come molta parte dell’opinione pubblica, delle donne partecipi degli eventi, delle attiviste come Tessie.
Ma intanto, sul fronte più privato, l’amore tra le due donne si è espresso, Etta e Tessie abitano insieme e, pur nel clima teso e tragico del tempo, riescono a vivere la loro storia.
Tessie però muore, Etta non crede di poter resistere alla sofferenza, si rannicchia dolorante a casa dei genitori, come se si ritirasse dalla vita attiva.
Ma non è così, ci raccontano le ultime pagine del libro. Etta torna a New York, riprende la sua attività fino al momento del suo ritiro, non solitario, ma con l’affetto di altre donne vicine, figlie, nipoti adottate, mentre dalla sua visuale Manhattan, lontana, «si specchia davanti a me, con i suoi grattacieli stretti l’uno all’altro, timorosi e insieme spavaldi» (p.265). Una metafora trasparente di come sia o si senta ora la protagonista di fronte alla sua storia, dalla quale scopre di non voler fuggire, anzi scopre «di volerli tutti i miei ricordi. Tutti, Altrimenti non sarei ad aspettare l’arrivo di un professore e dei suoi studenti» (p.268).
Dopo tutti i dubbi ha deciso quindi di raccontarla la sua storia e insieme la storia collettiva di quegli eventi.
Un sogno conclude la narrazione, un sogno in cui compare Tessie che le mostra tutto quanto è riuscita a realizzare – l’asilo per i bambini, la cooperativa per le ricamatrici e ogni cosa completi la Hall House, biblioteca e sala di esposizioni compresa – l’esito felice di tanto lavoro. Tessie appare spavalda, come è sempre stata, «gli occhi le scintillano. Vittoriosi. Trionfanti. Perfino la sua pelle bianca splende di superbia e in quell’attimo penso: ah, che magnifico peccato, l’orgoglio! Ma era un pensiero come ti può venire in sogno. Limpido, eppure lontano. Era il rimando di un’eco, una reminiscenza tirata fuori dalla sacca del tempo. Il ritmo di una canzone intonata da qualcuno.
Da una donna, sicuramente» (pp. 273,4).
Sono le ultime parole del libro, prive – mi sembra – di quella retorica che uccide le emozioni di chi legge.
Maria Rosa Cutrufelli, Il cuore affamato delle ragazze, Mondadori, Milano 2025,

Barbara Mapelli

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