La poetica dei corpi minori

Barbara Mapelli, 22 ottobre 2022

La fuga dalla periferia verso Milano che sfavilla nella sua vita notturna queer e al contempo lo squallore di case per poveri. Fingere di amare e poi innamorarsi finalmente davvero. Le pagine notevoli di Jonathan Bazzi in “Corpi minori”

Di Barbara Mapelli

Corpi minori, sono i corpi che esprimono disagio e dolore, povertà ed emarginazione, quelli di derelitti e pezzenti, che vivono a Rozzano – uno dei comuni dell’hinterland milanese – come la famiglia di Jonathan Bazzi. Così la sorella dell’autore, la cui pelle si riempie a poco a poco di macchie chiare, vitiligine, e sembra non ci si possa fare nulla: è la poetica dei corpi minori, che cercano e trovano il linguaggio per dirsi nel loro malessere. Corpi che hanno iniziato a prendere iniziative da soli, ad alzare la voce.

«Il corpo di mia sorella: la prova che non è cambiato nulla, non credete quando vi dicono che il peggio è passato, improbabile che si resti in pericolo ammettendo a se stessi di esserlo, improbabile che in questi casi non si proceda a sminuire, rimuovere, rimpicciolire. Piccole colpe, piccole: alla fine trascurabili le umiliazioni, minuscoli gli infiniti giorni di una famiglia». (p.76)

Lui, il protagonista e l’autore del libro, è riuscito ad andarsene, via dal luogo di derelitti e pezzenti, a Milano, la grande città che rappresenta il continuo desiderio, la tensione e la passione. Andarsene da Rozzano, fuggire dai corpi minori, da sé, dalla famiglia, dai luoghi degradati. E il sogno si realizza, con grandi costi: la scelta di fingere un amore che non c’è per avere semplicemente una casa nella grande città – e una serie di case si susseguono negli anni – con l’umiliazione, sempre negata, di essere mantenuto da un uomo che non ama. E intanto Milano mostra il suo volto più ambiguo e disperante: per i corpi minori continuano ad esserci solo le periferie, o il centro con spazi invivibili, le convivenze costrette, il continuo bisogno di andarsene, dalle case, da qualunque impegno preso, studio, lavoro. «Ho ventotto anni e non sono niente, ben più che fuori posto: non credo più che esista un posto».
A un certo momento, dopo lavori improbabili, università scelte e abbandonate, arriva l’impegno della scrittura: scrittura anch’essa minore, giornalismo da Facebook, che sparge intorno pettegolezzi, infamie, vendette, ma offre consapevolezza, «ed è scrivendo che me ne accorgo. Non ho subito, ho visto accadere». Neppure la risorsa di sentirsi vittima. Eppure le pagine che Bazzi dedica alla sua scrittura, sono, come e più delle altre del libro, sorprendenti, vanno ben più in là del desiderio di spiazzare, avvolgono, a volte travolgono, chi legge, consentono aperture a percezioni non immaginate prima, coprono o scoprono la realtà quotidiana con la scoperta di un fondo impensato che comunque le appartiene, senza distinguere il vero dal falso.

«Riscrivere la realtà all’interno di punti di riferimento comuni, affiancare al luogo/fatto reale la sua versione percepita, agli individui concreti i loro distillati spettacolari. Prendi le persone e togli la noia. Demolire e ricostruire, lavoro per il collasso dei generi: io, l’altro, realtà, finzione. La confusione delle scritture, lo statuto ambiguo, non c’è differenza tra resoconto e manipolazione, vaneggiamento e ricordo. Abbandoniamoci al piacere delle coincidenze». (p. 284)

L’avvio a divenire giornalista: ma non vuole dire niente ormai la parola giornalista,

«assecondo le esigenze dei committenti: contraggo la scrittura nel formato dello sfogo infiocchettato, la piego al commento compulsivo dell’attualità. Ne faccio un bene strumentale da spendere subito, con cui ottenere spazio, circolazione del nome – esprimi un desiderio: star sulla bocca di tutti». (p.303)

Si arriva a una sorta di etica o piuttosto pratica del vivere, che forse non riesce, o non vuole, eludere il fallimento, ma consente di continuare a stare al mondo. E per chi legge, almeno così è accaduto a me, non c’è scandalo, ma parziale riconoscimento, condivisione e comprensione, pur nelle infinite differenze. O comunque l’offerta di qualcosa a cui pensare, e non è poco.

«La possibilità che non sia davvero errore, non ancora sconfitta: piuttosto ecco una storia, ecco la forma di quello che è accaduto. Abbandoniamo, lasciamoci alle spalle ideali e parametri, criteri, statistiche, convinzioni e regole depositate, ereditate dagli altri, sentimenti mutuati da fuori: approntiamo noi stessi l’ordine di tassonomi e giudizi possibili. La forza sufficiente per dire inventiamo qualcosa di nuovo.
Cercare, attraverso il racconto, di appropriarsi del più clamoroso dei fallimenti, esibirlo per farlo cantare: nelle storie che ci scambiamo – osservando immagini, spiluccando scene – trovare quanto basta per insistere, durare: questo può essere sufficiente a reggere il peso di una vita. L’integrità non ci è indispensabile, restiamo vivi anche a brandelli». (p.312)

Risuona in queste parole l’arte queer del fallimento*, forse più disincantata, a volte strumentale,

«è mentendo che si riesce a essere al contempo quello che siamo e vogliono gli altri, restare uno ed essere tutto, frantumarsi e, all’occasione, fornire a ciascuno il frammento di noi che desidera, la scheggia richiesta». (p.186)

Bazzi tenta a un certo punto anche una descrizione di sé, in cui si espande il desiderio di esser queer, o meglio un’interpretazione personale dell’esserlo. E così sembra rispettare il significato del termine.

«Certo non uomo, parola lontanissima, inindossabile. Ragazzo la posso accettare, a patto che l’accento cada più sulla collocazione anagrafica che sul sesso. Mi interessa lo spazio mediano, ricombinare liberamente i codici che confinano da una parte o dall’altra, la fase della preadolescenza in cui i desideri collidono e si mischiano, e tutto è ancora possibile. Restare territorio aperto, percorso da tutti gli spiriti, i nomi, le essenze: rimanere per sempre in bilico, negare che un ordine altro corrisponda a un disordine (bloccare la crescita, non crescere mai?)». (p.135)

E intanto, nel susseguirsi delle pagine, Milano sfavilla nella sua vita notturna queer e al contempo costringe a inabissarsi nello squallore di case per poveri, un continuo cambio, senza mai trovare una soluzione, o credendo ogni volta di averla trovata, sforzarsi di crederlo.
E anche l’amore, tanto atteso, finalmente arriva: Marius. La sua presenza presto si trasforma in convivenza e dà vita a esperienze e notti condivise con altri e altre.

«Serate, serate, serate, tre, quattro volte a settimana, il vero impegno della vita milanese (…) condividere un linguaggio e un immaginario preciso, consolidato per lo più sui social (…) Vero o finto non conta (…) Nebbia artificiale, luci fucsia e viola, i bassi di We Found Love mi tengono in piedi nonostante sia stanco, di più: sfinito. È il modo in cui mi sento, non posso negarlo. Ma devo lasciarlo andare. Abbiamo trovato l’amore in un posto senza speranza – e ora, qui, è tutto di nuovo possibile, ci provo: divento uno di loro». (pp.172, 174)

E Marius alcune sere si trasforma in una drag queen, nella gara tradizionale tra famiglie, le case in cui si ritrovano quelli che non hanno né case, né famiglie.**

«Lei, protagonista assoluta, in testa al piccolo corteo di esseri neri.
Voguer, drag queen, il mio ragazzo, ragazza. Ruota su se stessa come una mistica sufi, ruota tra le urla, cazzo che figa, no ma è davvero lui? Marius, Marius! All Black Androgyny, il nome della sua house, viene giù la sala, lui, lei, il mio ragazzo, stasera ragazza, che estroflette il sogno, inceneriamo i repertori, collasso dei poli d’abitudine scissi, maschi e femmine, tutti vestiti e truccati allo stesso modo, bianco e nero, colate di nero su cerone bianco». (p.198)

Ma poi anche l’amore finisce. Finisce? Inspiro, ti amo? Espiro, non ti amo più.
L’abbandono, una decisione irrimandabile che viene continuamente rimandata. Come faccio a dirti che ti sto per lasciare?
La separazione comunque arriva e la segue tutta una serie di psicoterapie presso professionisti, scelti tra i meno cari, di diverse discipline. Tutte e tutti rapidamente sostituiti. E ancora, studio, università, lavori, scrittura. Sempre più stanche decisioni e abbandoni.
E il libro arriva alla fine e qui si consuma la mia, personale, delusione. Tradisco Bazzi e ci resto male perché mi sembra che lui abbia tradito me e altri/altre che lo leggono.
Un finale felice, l’amore ritrovato. Non me l’aspettavo. Ma la scrittura continua ad essere all’altezza del suo autore. Marius di nuovo abbracciato tra uno stupefacente scoppio di colori, rumori, folla e musica di un concerto e nella scelta, ancora una volta, del margine, del bilico, dell’attuale e dell’ambiguo. Tanto nulla cambia.

«Marius mi bacia e io provo a non raccogliere la turba di sensazioni in opposizione, massimo bene, massimo male, che l’avvicinamento imprevisto ancora mi suscita. Al posto loro, richiamo una frase, una sola, portata via dallo studio del mio terapeuta: hai avuto bisogno di condurti alla fine, nella lacerazione del distacco, per tornare a sentire qualcosa di assoluto, incontrovertibile. A suo modo un nuovo colpo di fulmine, ma plumbeo, un ritorno nella dismisura degli inizi, nel potere totale dell’infatuazione.
Vero o falso, non è importante. Vero falso, poniamo vero, ma cosa mi cambia. Non ho risolto. Non ti ho mai risolto, ma mi posiziono in questo intervallo, all’esterno di quest’incavo che separa il punto in cui siamo dalle lancinanti domande degli ultimi mesi. La ripetizione stabile, quotidiana, di un’instabilità disegna a suo modo una durata, una norma, e non c’è da accettare nulla in anticipo: possiamo solo riempire la testa con adesioni epidermiche e parole attuali, attorcigliarci attorno a quello che accade ora, e poi ora, poi ora, minuto per minuto, per non permettere che le correnti e le voci ci portino via». (pp.317, 318)

* Jack Halberstam, L’arte queer del fallimento, Minimum fax, Roma 2022
** Un’imitazione delle house dell’America degli anni Ottanta, in cui, soprattutto latini o neri, ricostruivano in una casa una sorta di famiglia, con una madre che sovraintendeva alla vita di tutti/e. E il culmine, l’apparente scopo di queste vite condivise si avverava nelle serate delle ballroom, quando diverse famiglie si sfidavano in gare di travestimenti, danze e musica.

Jonathan Bazzi, Corpi minori, Mondadori, 2022

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Barbara Mapelli

Barbara Mapelli, pedagogista e saggista, da anni mi occupo, studio e pubblico testi sulle tematiche di genere e lgbtqia+. Ho insegnato Pedagogia delle differenze di genere presso la Facoltà di Scienze della Formazione, Ateneo Bicocca. Attualmente sono nel Consiglio Direttivo della Libera Università delle Donne di Milano, nel Comitato Scientifico della Fondazione Badaracco, e, con altre/i, ho fondato il gruppo di ricerca interuniversitario NUSA (nuove soggettività adulte). Collaboro abbastanza regolarmente con la rivista Leggendaria. I miei ultimi due libri sono “Nuove Intimità”, Torino 2018 e “Nel frattempo. Storie di un altro mondo in questo mondo”, Milano 2020.

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