Quanto è difficile stare accanto a chi se ne sta andando e rispettare le sue scelte anche quando non le capiamo? Siamo in grado di restare al fianco di una persona amata sopportando il peso di attendere con lei la morte senza illusorie consolazioni? Il film di Almodóvar “La stanza accanto” con Tilda Swinton e Julianne Moore
di Sarah Perruccio
Uscita dal cinema mi sono rimasti negli occhi i colori strabilianti del film. Rossi e verdi sfacciati, gialli carichi, viola intesi, che fasciavano e coprivano come bozzoli i corpi delle attrici – splendide insieme – e davano grande carattere ai luoghi che attraversavano. Ho visto La stanza accanto con una carissima amica (molto opportunamente) e mentre tornavamo indietro verso casa, lei mi diceva quanto avesse trovato bello questo film, così intenso e triste, quando invece io l’avevo trovato intenso, sì, ma soprattutto pieno di bellezza e speranza. Non è un mistero che l’ultimo film di Pedro Almodóvar parli di come una reporter di guerra (Martha: Tilda Swinton), posta al cospetto della sua inevitabile morte per un tumore ormai incurabile, scelga di farsi accompagnare verso la fine da una sua cara amica (Ingrid: Julianne Moore) con cui aveva per altro perso i contatti.
Ingrid è una scrittrice di biografie, e sta progettando un libro sulla meno famosa delle pittrici Carrington (non Leonora ma Dora, innamorata di Lytton Strachey, morta suicida poco dopo la morte dello scrittore): è quindi abituata a fare da testimone alla vita di donne straordinarie e accompagnarle con il suo sguardo dall’inizio alla fine. Martha invece, testimone di molte guerre, vissute tra il bisogno di trovare la verità e l’esaltazione del momento presente, dato dal contatto quotidiano con la morte, non ha troppa paura né della prima, né della seconda. E così due amiche diversissime diventano perfette compagne per questo viaggio. Martha decide, e Ingrid accompagna, dove accompagnare è però anche scrivere e co-creare la storia.
Questo primo film girato in lingua inglese, tratto dal romanzo What Are You Going Through della statunitense Sigrid Nunez, è fitto di dialoghi, dove se Almodovar non incontra Bergman è forse per quei colori vibranti di cui parlavo all’inizio e per una fondamentale assenza, a mio parere, di una riflessione spirituale sulla morte. Un film che guarda alla morte da questo mondo e per questo mondo, per chi di noi resta qui ancora un poco, per riflettere su quanto sia terreno, materiale, fisico ed emotivo il problema della buona morte, prima che spirituale e etico. Ossia, è innanzitutto un tema incarnato. Di più, mi pare che Almodóvar guardi alla morte con la stessa sensualità con cui ha guardato al sesso nei primi film: in un certo modo (qui delicatamente) provocatorio. La morte di Martha è qualcosa che “si fa”, si decide, si vive con radicale libertà. Ricordiamo che l’eutanasia è illegale negli Stati Uniti.
Da un lato, quindi, c’è l’autodeterminazione di Martha, che vuole “andarsene” in un luogo bellissimo, una casa di design, tutta finestre immense sul fitto bosco di Woodstock (in effetti la foresta di San Lorenzo de El Escorial, a Madrid). Dall’altra l’amica, la testimone, che altro non deve fare se non esserci, nella stanza a fianco. Il film non è, come dicevo, un film a tesi, una discettazione morale, ma una storia molto ben congegnata, recitata meravigliosamente e messa in immagini con l’energia, l’emotività e l’ironia che conosciamo in questo regista. Ed è un film dove la testimone e la protagonista sono parimenti importanti e attraggono in chi guarda altrettanta compassione.
Quanto è difficile stare accanto a chi se ne sta andando e rispettare le sue scelte anche quando non le capiamo? Saremmo in grado, noi in sala, di sospendere il giudizio e semplicemente restare al fianco di una persona amata sopportando il peso di attendere con lei la morte, un giorno dopo l’altro, senza illusorie consolazioni? Sapremmo camminare, un passo dopo l’altro, come fa Ingrid nella passeggiata nel bosco fuori dall’ultima casa che lei e Martha condividono, pur sapendo che l’incedere si farà lento e si fermerà per volontà propria di chi amiamo? Oltre a superare la retorica del malato oncologico come guerriero, il film offre la più umana posizione di Martha che coraggiosamente sceglie di smettere di curarsi per godere delle sue ultime giornate in un bellissimo inverno dove la natura si fa magica e potente, a ricordarci che, umilmente, il mondo sa essere meraviglioso e va avanti in tutta la sua bellezza facendo struggere ancor più chi lo lascia e chi rimane. Ma se la bellezza strugge, la bellezza sostiene. E dà senso, e protegge.
Poi c’è un uomo un tempo condiviso (John Turturro), ossessionato dal mondo in rovina, che ne scrive e si batte per sensibilizzare sul cambiamento climatico in atto; c’è un poliziotto fondamentalista cristiano e ottuso; c’è un personal trainer sensibile e altre figure di contorno, ma quello che brilla e che rimane è questa amicizia coraggiosa e discreta, questo specchiarsi tra donne, questo saper stare nella realtà delle cose e nella scomodità, anche, quando questo è l’unico modo per esserci.
La stanza accanto (The Room Next Door), tratto dal romanzo Attraverso la vita (What Are You Going Through) di Sigrid Nunez. Regia di Pedro Almódovar, 2024. Leone d’oro al miglior film.
N.d.R. Ricordiamo che in Italia, dopo la sentenza della corte costituzionale 242/2019, relativa al procedimento nei confronti di Marco Cappato per il suicidio assistito di Antoniani Fabiano (detto Fabo), si stabilisce il precedente per cui il suicidio assistito sia “ammissibile” in determinate specifiche situazioni: “diagnosi di malattia irreversibile; presenza di intollerabili sofferenze fisiche o psicologiche; paziente capace di prendere decisioni libere e consapevoli; dipendenza da un trattamento di sostegno vitale” ma di fatto il vuoto legislativo rende difficilissimo, a chi ne avesse diritto, ricorrere alla procedura in Italia. Per questo si batte l’associazione Luca Coscioni, di cui Marco Cappato è tesoriere.
PASSAPAROLA:








Sarah Perruccio

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