La vegetariana

Sarah Perruccio, 3 dicembre 2024

Il palco è smorto e anonimo. Siamo a casa della vegetariana, ma più che una casa sembra di essere all’ingresso di un garage multipiano. I muri grigi, toccati dalla muffa, un’unica luce al neon appesa al soffitto rende il grigio ancora più desolante, la trave pure è di cemento e le piastrelle di un grigio appena più scuro.
Ebbene, se ci trovassimo in un sogno la triste e anonima sala potrebbe rispecchiare la psiche della protagonista. Il marito (l’attore Gabriele Portoghese), primo a entrare in scena e prima voce narrante, la definisce “la donna più ordinaria del mondo” che “non si sognava mai di piantare grane” e dice di averla scelta proprio per questo, per star tranquillo e non turbare la sua esistenza “scrupolosamente ordinata”.
Se siamo nel tempo della veglia, invece, questa stanza grigia è il mondo civilizzato, cementificato e ordinario in cui l’uomo vive perfettamente a proprio agio. Ad ogni modo nella psiche di Yeong-hye (la brava attrice Monica Piseddu), la vegetariana del titolo, il pubblico passerà molto tempo. Chi ha letto l’omonimo libro di Han Kang, la scrittrice che ha di recente vinto il premio Nobel 2024 per la letteratura, lo sa: la donna vegeta e sogna ed è dopo un sogno crudo che elabora la decisione di non mangiare più carne. Nei sogni, che si susseguono, prevale il sangue, la violenza, ma non è il sangue simbolico a far accapponare la pelle di chi ascolta, quanto gli episodi reali riferiti dagli altri personaggi.
Yeong-hye parla poco, soltanto dei suoi strani sogni e poco altro, si limita a dire qualche “no” e intrattenere brevi conversazioni. Per lei è più rilevante un altro mondo adesso, un mondo in cui pare aggirarsi mansueta con i suoi piccoli passi rapidi e composti. Del libro di Han Kang la regista Daria Deflorian (che interpreta anche la sorella della protagonista) mantiene la ferocia e la calma, la violenza insita nel quotidiano, l’oppressione che non sembra poi così insostenibile tanto è vissuta con naturalezza e una sua leggerezza. Nella calma superficie delle cose non c’è disperazione anzi, c’è serenità. Yeong-hye ha trovato nella sua mente un posto sereno e, ricoverata nell’ospedale psichiatrico, la sorella la vede felice come non è mai stata.
Poi, però, ci sono i corpi che raccontano una storia diversa. E la sanno raccontare. Innanzitutto, sappiamo che temono il mondo di fuori, per come si rannicchiano nell’angolo in fondo al palco. Per quasi metà dello spettacolo la coppia è ritirata prudentemente a un paio di metri dal proscenio. Il sesso è rappresentato in maniera fugace e simbolica, deludente e penoso, ma sono le parole ferocemente ottuse del marito a rivelarne la violenza. La violenza, in genere, avviene fuori scena, come volevano i greci, o è appunto stilizzata, come un segno senza grande carico emotivo.
A chi guarda, resta la riflessione in merito. In particolare è la schiena di Yeong-hye, scheletrica e bella, a parlarci di una ritirata dalla violenza che sembra dover essere un prerequisito essenziale per lo stare al mondo. Lei semplicemente rifiuta l’assunto di dover opprimere o uccidere per esistere. Decide di non recare danno agli animali e, un sogno dopo l’altro, arriva a scegliere che è troppo anche nutrirsi di piante. Cerca di raggiungere uno stato vegetale per sfuggire alla meccanica della violenza- come la storia di Dafne e Apollo ci insegna, ma qui manca l’intervento divino. Allora, in un mondo grigiamente capitalista e rassegnato come quello in cui vive Yeong-hye il suo farsi pianta non è salvifico ma è un danno a sua volta. Per chi è negli ingranaggi e vive secondo le regole, il radicalismo della protagonista è fonte di dolore, rabbia, disgusto o preoccupazione. Yeong-hye, così avulsa dal mondo in cui vive, deve essere malata.
C’è qualcosa di squisitamente orientale nella messinscena – come i cibi consumati in ginocchio – molto interessante perché capace di rievocare l’ambientazione originale del testo in Corea del sud, come pure di parlare d’altro. I passetti della protagonista raccontano del desiderio di lei di non incidere sul mondo, di non fare rumore; il modo che hanno i quattro personaggi di non lasciar trapelare alcuna emozione anche nel romanzo, a mio avviso, oltre che più orientale che occidentale, è indicativo di una società incentrata sulla produttività dove la sensibilità e il sentimento sono ostacoli all’ottimale procedere delle cose.
L’ultimo personaggio che appare è il cognato della vegetariana (Paolo Musio), patetica figura d’artista senza ispirazione che grava sulle spalle della moglie, pratica e lavoratrice. Egli rimane affascinato dai mutamenti di Yeong-hye. L’attrazione che prova la rende oggetto della sua creazione artistica e del suo desiderio, nel tentativo forse involontario di riportare l’esistenza e la scelta della donna a qualcosa di più utile e alto. Anche lui, sulla carta un artista, vuole depredare la donna, il suo corpo. Lo fa disegnando su di lei fiori colorati, chissà potrebbe farle piacere, ma anche in questo caso il corpo di lei magro e nudo contro il muro grigio, non fa altro che richiamare nella pancia di chi guarda il brivido di un’innocenza fraintesa, di un’idea sporcata dalla brama di farne altro.
I colori che appaiono in questa fase, in video-proiezione sul corpo di lei, dialogano con i colori predominanti dell’illuminazione delle tre parti che compongono il lavoro: la prima segnata dal rosso e narrata dal marito, la seconda dal blu e narrata dal cognato, la terza dal verde e narrata dalla sorella. L’assetto del lavoro di Deflorian ricalca quello del romanzo dove la voce narrante muta, aggiungendo spaesamento, distanza ma anche differenti prospettive. Fino all’ascesa finale, o la discesa, come la si voglia intendere.

Visto a Roma, Teatro Vascello nell’ambito di Romaeuropa. Prossime date italiane: al teatro Astra di Torino dal 28 gennaio al 2 febbraio.

LA VEGETARIANA scene dal romanzo di Han Kang
adattamento del testo Daria Deflorian e Francesca Marciano
co-creazione e interpretazione Daria Deflorian, Paolo Musio, Monica Piseddu, Gabriele Portoghese
regia Daria Deflorian
aiuto regia Andrea Pizzalis
scene Daniele Spanò
luci Giulia Pastore
suono Emanuele Pontecorvo
aiuto regia Andrea Pizzalis
costumi Metella Raboni
consulenza artistica nella realizzazione delle scene Lisetta Buccellato
collaborazione al progetto Attilio Scarpellini
direzione tecnica Lorenzo Martinelli con Micol Giovanelli
stagista assistente Blu Silla
per INDEX Valentina Bertolino, Elena de Pascale, Francesco Di Stefano, Silvia Parlani
comunicazione Francesco Di Stefano
una produzione INDEX in coproduzione con Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale; La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello in co-realizzazione con Romaeuropa Festival; TPE – Teatro Piemonte Europa; Triennale Milano Teatro; Odéon–Théâtre de l’Europe; Festival d’Automne à Paris; théâtre Garonne, scène européenne – Toulouse, con la collaborazione di ATCL / Spazio Rossellini; Istituto Culturale Coreano in Italia, con il supporto di MiC – Ministero della Cultura
copyright © Han Kang 2007
copyright © Adelphi 2016

foto di Andrea Pizzalis

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Sarah Perruccio

Sarah Maria Perruccio si è formata a livello post-universitario in Inghilterra, dove è nata, in ambito educativo e teatrale. Da sempre interessata alla possibilità di evoluzione e crescita che si genera nell’incontro tra l'educazione e gli strumenti del teatro e del cinema, ha fondato una casa di produzione cinematografica indipendente attraverso la quale crea, con i suoi soci, documentari d'autore distribuiti su Rai, Sky, Prime Video, Netflix. Tiene inoltre laboratori di teatro sociale e scrittura, in diversi contesti caratterizzati da condizioni di svantaggio sociale, e nelle scuole.

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