Come incontri il teatro di Bernard-Marie Koltès?
Il teatro di Koltès l’ho visto inizialmente molti anni fa, quando ho vissuto a Parigi, tra la fine degli anni novanta e gli inizi degli anni duemila, e mi colpì moltissimo perché apparteneva a una generazione di autori fortemente coinvolti da forme nuove di scrittura, legata a delle forme nuove di biografia, principalmente connotate dall’arrivo di un’idea nuova di teatro anche tragico-contemporaneo e, altrettanto, da una nuova modalità di vivere la decostruzione di alcune norme sociali attraverso la letteratura. Penso per esempio a quanto fosse importante per Koltès la questione della critica al colonialismo francese. Queste questioni erano dirompenti ai miei occhi. E dentro la scrittura di Koltès lo erano particolarmente perché da subito ho amato il suo registro linguistico molto particolare e soprattutto questa sua insolenza poetica.
Qual è il filo rosso che lega il tuo innamoramento per Caryl Churchill, Kae Tempest e Bernard-Marie Koltès?
Sicuramente parliamo di persone che scelgono la letteratura, in senso ampio, per raccontare una propria idea del mondo, portando dentro al racconto le parti oscure, il problema e non la soluzione. Inoltre c’è la questione della ribellione, anche se è da loro articolata in maniera molto differente, a un sistema di visione della società, e della scrittura stessa, fortemente patriarcale. Parliamo di persone che sono dichiaratamente femministe, non binarie, omosessuali, persone che fanno in qualche modo del proprio corpo l’oggetto centrale nella ricerca drammaturgica e artistica in genere.
Perché parlare di Roberto Succo (facendo riferimento alla vicenda originaria che fa da spunto al testo) attraverso la lente drammaturgica di Koltès oggi?
Resta viva la ricchezza di cui è intessuto il testo che prende a pretesto un fatto di cronaca per rinnovare la nostra necessità di stare dentro la fatalità tragica. E quello che interessa a Koltès, come forse a noi, non è il voyeurismo sulla vita di un assassino; non è il “pedinamento” delle mosse o della psicologia di un assassino ma, al contrario, la possibilità di immedesimarci nel momento in cui viviamo la netta sensazione di stare oltre un limite, oltrepassato da molto tempo, e di non riuscire a tornare indietro, di non riuscire davvero a fuggire. Alla fine la storia di questo testo è la storia di una fuga- di un assassino senz’altro- ma è la storia di una fuga che ha i minuti contati perché in qualche modo la cattura è inevitabile. Questa è forse la sensazione più forte che può risuonare in noi anche oggi ma soprattutto, almeno nella mia lettura e nella mia passione per questo testo, c’è una fortissima corrispondenza tra l’idea di cattura e l’idea di reato intesa appunto come oltrepassare dei limiti e l’impossibilità di fermare quella che è la nostra morte imminente. Sento molto forte nella scrittura di questo testo il fatto che Koltès stesse nella fase terminale della sua vita, una fase terminale legata per giunta a qualcosa che ha cambiato fortemente la sua vita e le relazioni di tante persone in quel momento per altro colpevolizzate e parlo dell’Aids. Questo senso di reato è molto legato anche a questo, c’è sotto traccia questa grandissima capacità tragica attraverso una moltitudine di registri che Koltès usa (dal dramma, all’assurdo, al poetico) per parlare dell’essere presi in qualche modo in ostaggio da se stessi, dalla vita, dalle circostanze. In questo è, a tutti gli effetti, un testo tragico.
C’è una scena in cui Zucco dice di non essere un eroe e afferma: “Non c’è eroe i cui abiti non siano inzuppati di sangue, e il sangue è la sola cosa al mondo che non possa passare inosservata”. Questo passaggio mi ha fatto ripensare, tra le altre cose a Kill (“Uccidi”) di Caryl Churchill dove una divinità non meglio specificata ripercorre insieme al popolo tanti episodi della mitologia greca come un’unica insensata scia di violenza e allora ti chiedo, e magari mi contraddirai, se siamo oltre la tragedia, in quell’area dove la mancanza di senso non permette più la tragedia. E che cosa significa per te essere eroi, o persone eroiche, oggi?
Io credo che siamo perfettamente dentro la tragedia in questo caso perché, giustappunto, conosciamo tantissime tragedie spesso con donne protagoniste, dove l’efferatezza e il male, l’indifendibile, l’oltrepassare la morale, sono il nodo di comprensione dei nostri sensi. Ma siamo dentro la tragedia anche per un altro motivo, perché questo testo è un testo profondamente corale e il coro è un coro di persone reiette, di soggetti imprevisti- per rimanere nel femminismo- di puttane e di papponi. C’è fortissimo l’elemento della violenza domestica. È descritto perfettamente al centro del testo il punto della violenza di genere. Potrei dire che un contraltare della scena di cui tu parli, appunto legata agli eroi che a me piace moltissimo, quel passaggio dentro la metropolitana, è un’altra scena dentro la stazione dove la sorella fa una descrizione molto violenta su cosa sono gli uomini (e chiaramente per uomini non intendo gli esseri umani ma i bio-maschi). E dunque, in questa modalità di attacco molto diretto in cui però non c’è nessuna consolazione, in cui c’è una sorta di predestinazione per alcuni soggetti e alcune soggette a subire la violenza degli uomini e di questa società, io sento un profondo senso tragico.
In riferimento alla questione più specifica dell’eroe: assolutamente sì, certo, Kill è molto attinente però a me fa pensare invece tantissimo a Sorties di Hélène Cixous dove lei pone in maniera molto chiara il ragionamento su che cos’è l’eroe e che cos’è l’antieroe e ancora una volta lo fa da femminista mettendo al centro il suo corpo, immaginandosi in una trasformazione in cui sceglie di diventare Achille, in cui lei stessa va a Troia, vuole la guerra ma un’altra guerra, né da una parte né dall’altra; in cui lei stessa nel suo corpo di eroe porta avanti la questione che ci sono altri modi di combattere che chiaramente non vedono al centro né il sangue né la sanguinarietà. C’è la possibilità di riprendere queste idee dell’epica invertendola di segno, mettendo al centro la lotta, se vuoi anche una lotta marxista, senza necessariamente fare riferimento allo stesso sangue che ha macchiato gli eroi che tutto sommato sono una perfetta colonna vertebrale del patriarcato.
Cosa è successo al Teatro di Roma da gennaio? E cos’è il tutt’altro che tu, tra le altre e gli altri attivisti, volete?
Al Teatro di Roma è successo che, nonostante ci fosse stato un concorso pubblico, per quanto non vincolante, per la direzione di quell’ente nazionale e al quale concorso hanno partecipato tante persone molto qualificate, sostanzialmente i curricula e le proposte progettuali di direzione di queste persone non sono state minimamente considerate perché, già da anni, determinate correnti politiche, sapevano chi desideravano mettere alla direzione di quel teatro. Questa situazione è ovviamente incresciosa ma è la punta dell’iceberg di un paese, il nostro, dove i teatri nazionali sono interamente in mano a degli uomini: uomini anziani, nella maggior parte dei casi hanno dai 60, 65 anni in su, uomini soli al comando senza, solitamente, dei comitati composti da dramaturg o consulenti di altro tipo. C’è un panorama generale in cui questo tipo di atteggiamento di carattere patrio sta portando a tutti gli effetti a un’estinzione della scena contemporanea e a una sottovalutazione assoluta della creatività delle donne, delle persone trans e delle persone non bianche, delle persone che in qualche modo non rappresentano il loro modello di bellezza e abilità. Dunque vogliamo tutt’altro? Sì, innanzitutto vorremmo dei teatri con una differente distribuzione dei ruoli, senza più direzioni unitarie, ma con conduzioni collettive, con la possibilità di creare anche una fruizione della vita del teatro differente e un dialogo con chi la città la vive. E poi, più in generale, vorremmo che finisse questo paternalismo per cui noi artiste e artisti veniamo considerati eternamente come dei giullari di corte. Vorremmo riaprire un discorso sul reddito, su un’intermittenza, affinché il nostro lavoro possa a tutti gli effetti diventare un anello di questa società.
produzione: Teatro Nazionale di Genova, Teatro Metastasio di Prato e Romaeuropa Festival
in collaborazione con Angelo Mai, Amat, Istituto Italiano di Cultura di Parigi, Olinda
in accordo con Arcadia & Ricono Ltd
per gentile concessione di François Koltès
L’opera “Roberto Zucco” è edita da Arcadiateatro Libri, Bernard-Marie Koltès TEATRO – Volume 2
nella foto di Greta De Lazzaris, Valentino Mannias e Monica Demuru.

Sarah Perruccio

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