Fendere il silenzio

Amanda Rosso, 21 ottobre 2024

Vera Pepa, Demut e Adriana, tre donne che si raccontano nei monologhi di Tre tuoni, romanzo dell’argentina Marina Closs. Verginità, maternità, violenza e peccato si intersecano nelle storie di queste spatriate, con una lingua attenta e precisa che vuole ridare loro la voce. Le soccorre una rete di donne, reali e immaginarie

Di Amanda Rosso

A immaginarsele, le tre donne di Tre tuoni dell’argentina Marina Closs sono sedute, calme, composte, confortate dalla marea della memoria, in cui i ricordi si mescolano in un brodo primordiale di avvenimenti. Vera Pepa, Demut e Adriana, le voci narranti di questa potente triade di monologhi, si rivolgono a interlocutori più o meno simpatetici che incarnano un uditorio più ampio e forse meno partecipe. Conoscono, anche se inconsciamente, le regole della pietà, che si accende solo di fronte all’eccesso, un dolore così evidente e innegabile da forzare una reazione.
Eppure, altrettanto in fretta, anche quella vicinanza scompare, l’attenzione cala, la vita continua. Di conseguenza, Vera Pepa, Demut e Adriana hanno imparato a manipolare i tempi narrativi per non perdere lo sguardo, l’attenzione, perché una volta ricadute nel silenzio, un altro tuono, altrettanto prorompente, potrebbe non arrivare.
I monologhi di questo romanzo orale sono tuoni non solo perché tanto è il rumore che deve fare la voce di una donna marginalizzata perché la sua storia non si perda nella cacofonia, ma perché sconquassano, inattesi, la filigrana delle loro stesse storie. I titoli stessi, Cuñataí o della verginità, Demut o della pazienza e Adriana o del vero amore annunciano ironici solo mancanze, reflussi di qualità stereotipiche che queste protagoniste sembrano incarnare, ma del cui peso si liberano col progredire della narrazione. Vera Pepa, che a partire dal nome rivendica una libertà estrema e cruciale, quella della solitudine, offre in pegno il suo passato e le sue disavventure, in parte come moneta di scambio («Non so più che fare, signora! Vivo solo se mi dà qualche moneta. Le racconto cosa mi è successo, lo vuole sapere?») ma anche come antidoto alla dimenticanza. Vera Pepa, che il suo vero nome, in guaraní, la lingua nativa del suo popolo, non lo mercifica, non lo rivela, perché forse vuole separare la donna che narra da quella narrata, offre una maternità sanguinolenta e indesiderata («mio figlio. Quella cosa che per me è senza amore») e un modello di femminilità conteso fra l’oppressivo realismo magico del suo villaggio d’origine e la subdola soggezione delle donne nel formicaio urbano:

«Al villaggio però non ci amiamo in quel modo, perché le cose sono diverse. Se devo dirlo, non mi piace nessuna delle due.
Alla fine cosa cambia? La verità è il bisogno ingiusto che qualcosa sia sempre impossibile».

Demut arriva dalla Germania con un fratello col quale ha un rapporto incestuoso. Nell’isolamento della loro terra d’origine quella relazione non ha mai assunto i contorni del peccato, ma nella religiosa e fervente terra dell’approdo Demut deve confessarsi: «Ma io non avevo colpe di quello che eravamo stati. Quando ci siamo innamorati quasi morivamo di fame.» Il linguaggio che non condividono è più che primordiale. Non sono le parole che Demut non conosce, sono le parole che ancora non esistono per raccontare il suo sentire:

«Lui è la mia unica famiglia, non so cosa dire, lo giuro. Se mi allontano ancora una volta da lui, io muoio, signore e signori. È cosa del diavolo. È cosa del diavolo anche scappare con lui.
Eppure, signore e signori, scappare è bello e solo alla morte non c’è rimedio».

Quella di Adriana, infine, è una storia raccontata come un balletto, sulle punte. La voce rotta del suo monologo ha a che fare con una mancanza di respiro: «Cerco sempre di soffocarmi, inghiotto qualcosa per tossire e soffocarmi». La passione per l’uomo con cui parla è sempre metaforica, il ritmo preso in prestito dall’opera, dai balletti, dalle eroine della mitologia. È una ricamatrice, si punge con le parole, si soffoca con il filo da ricamo: «Mi viene la tosse nervosa. La gola va a fuoco. Ho l’impressione che da un momento all’altro sputerò un pezzo asciutto di carta scritta». Ogni parola formulata con lo sforzo strappato al desiderio di morte rimane imprigionata. Finché continua a parlare, Adriana non può morire.

«Ho comprato quel vestito per soffocarmi.
Ora me lo immagino: io, impiccata. Io, con la polvere negli occhi. La fredda sensazione dell’aria sotto i piedi».

Tre tuoni sono anche le tematiche portanti di questa triade di monologhi: la maternità, il linguaggio e il femminile relazionale, fili rossi uniti insieme dall’alienazione.
Closs smembra il materno idealizzato per consegnare a queste tre donne una maternità indesiderata e sofferta, come quella di Vera Pepa, una fertilità spaventosa e inattesa, che sigilla definitamente il rapporto incestuoso di Demut e il fratello, e la gravidanza come sfida, che Adriana impugna per liberarsi di un amante indesiderato. I corpi di queste donne sono artifici simbolici che perdono la loro concretezza fino a quando la carne non si fa nuovamente materia nel dolore. «Due figli, ti gonfi. Nascono da una ferita», confessa Vera Pepa:

«Ahi, ahi, ahi. Il dolore è misterioso. A volte mi sveglio strillando di nuovo.
Ahi, ahi, ahi. Il dolore può tornare. Così è il dolore che ti spacca in due. Torna sempre. Sprofonda. Non è soltanto dolore, ma disperazione, anche. E nella disperazione non senti più niente».

Il dolore come destino, ma anche come processo: «Con il lampo e il dolore imparavo lo spagnolo», racconta Demut, il «ventre fertile, logoro perché non usato», una fertilità che è dura perché «[u]na donna seppellisce sé stessa nelle vite future dei propri figli…». Il sacrificio assoluto della maternità sfugge a queste donne, perché non vogliono partorire da un corpo martoriato in un mondo di spine.
Il dolore del balletto, la fatica e il corpo piegato alla masochistica, ferrea volontà dello spirito, accompagna il ricamo di Adriana:

«Ora so per cosa ricamo. Com’è un balletto: un sacco di gente che cerca di non appoggiare mai i piedi a terra. Una donna che balla con una caviglia rotta, qualcosa che scricchiola. Una scheggia di vetro conficcata nella pianta di un piede. Dappertutto, aria calda, quasi ossea».

In questa solitudine iniqua la libertà è solitudine, come nel caso di Vera Pepa, «Quando mio marito è morto […] ho sentito che ero libera, che potevo di nuovo essere cuñataí in un angolo, nutrire un pensiero, da sola», che è libera perché privata del «peso terribile dell’amore». Ma la libertà può anche essere povertà, come per Demut, «povera tra la neve, povera in mezzo alla strada, povera tra le cose. Povera nella libertà». In queste solitudini si insinuano figure di conforto, legami femminili intensi, come quello fra Vera Pepa e la cognata Eugenia, «luce dei miei occhi», o Rosana, la moglie del fratello di Demut, che al corrente della loro storia travagliata, la accoglie comunque. Donne lontane e immaginate accompagnano Adriana nelle sue peregrinazioni, ballerine che le fanno pena al pari di se stessa, e Le Villi, «assassine dalle lunghe braccia, dai bianchi piedi legati con nastri», morte vergini prima di sposarsi. Questa genealogia femminile rappresenta un conforto e una cassa di risonanza per quei sentimenti inespressi, quelle sofferenze taciute che prendono forma solo a posteriori. Ammaccate dalla violenza, subdola e manifesta, Vera Pepa, Demut e Adriana si rintanano in una tela di relazioni femminili, in parte immaginate, che ne determinano la sopravvivenza. Eppure, per riconoscerla, anche la gioia deve essere insegnata.

«Il giorno dopo che ci siamo baciate, me ne sono andata da quella casa. Non volevo saperne più niente di lei. Le ho lasciato Marcelo e me ne sono andata. In un’altra provincia, in un altro posto. Le ho lavato tutte le lenzuola. Ho rifatto il letto dove eravamo state».

In Tre Tuoni, Marina Closs si mimetizza dietro tre donne diverse, vissute in epoche diverse, dalle esistenze inconciliabili, ma che tracciano linee di dolore e ribellione fra le pagine arse delle donne senza importanza. L’oralità, caratteristica preponderante della prosa di Closs, restituisce legittimità all’esperienza e offre una critica puntuale alle gerarchie che il linguaggio crea quando il soggetto subalterno reclama il diritto di parola. Vera Pepa, Demut e Adriana sono donne tradite dal linguaggio, dalla parola, «Avevo paura di quello che non riuscivo a dire», «Non è la lingua a crearmi problemi. È parlare, punto». Eppure raccontare si fa modalità di sopravvivenza, compagnia nell’attesa: «Di notte mi torna la voglia di impiccarmi. Perché scrivo? Perché non la faccio finita una volta per tutte e mi impicco?». Il linguaggio è alieno perché le tre donne appartengono ad altre culture e geografie, perché oscillano fra un passato mitico di oppressione famigliare e un presente che promette un’emancipazione in cui non si riconoscono:

«Sì, signora, io al monte voglio ancora bene. Me ne sono andata, mi mancava la luce, mi mancava il buio. Sono tornata lassù e niente è cambiato. Lo preferivo, sì, ma non ce la facevo. Me ne restavo a guardarlo, come la prima volta che l’ho visto. Forse gli occhi guardano il monte e gli viene il ricordo di qualcosa».

Closs non offre un ritratto consolatorio o pietistico delle sue protagoniste, anzi scompare dietro alle loro parole per lasciare che ogni monologo, con il suo precipuo linguaggio, la sua struttura e la sua trama, evochino le atmosfere e le unicità di vite vissute che acquistano legittimità nelle parole e nella volontà di rivendicare una propria voce.

«Io sono più pazza di te, perché credo in qualcosa che è ancora meno possibile».
Quando lo dico, non so perché, mi sembra di vedere la Vergine nelle tenebre.
E non ricordo nient’altro. Quella notte mi esce un unico urlo continuo, simile al grido d’amore delle donne ai funerali.»

Marina Closs, Tre Tuoni, trad. Amaranta Sbardella (gran vía, 2024)

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Amanda Rosso

Amanda è nata e cresciuta nell'entroterra ligure. Si è laureata in Comunicazione all'Università di Pavia e ora vive e lavora a Londra, dove ha conseguito un Master of Arts in Modern Languages and Comparative Literatures alla Birkbeck University. I suoi racconti sono apparsi su "Narrandom", "Quaerere", "Malgrado le Mosche", e in alcune antologie online e cartacee, fra cui “Musa e getta. I racconti delle lettrici e dei lettori” (Ponte alle Grazie, 2021) e “Il corpo c'è” (Vita Activa Nuova, 2023). Ha co-tradotto la raccolta di racconti "Donne d'America" (Bompiani, 2022) a cura di Giulia Caminito e Paola Moretti. Fa parte dell'attuale direttivo della Società Italiana delle Letterate.

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