Lorena Fornasir, psicologa, ha trovato i diari di sua madre in un cassetto solo dopo la morte e ha scoperto che è stata partigiana dapprima nella Resistenza jugoslava e poi nelle formazioni garibaldine a Pordenone. Ha insegnato alle figlie a tirar sassi durante gli scioperi contro la polizia di Scelba, ma mai ha parlato degli anni precedenti. Lorena la racconta e ne fa un ritratto profondo
di Paola Meneganti
«Sono vissuta accanto a mia madre per una vita intesa senza conoscerla. Quando avrei potuto non le ho chiesto e ora mi rimane questa parentesi incompiuta abitata da un corredo di domande sospese sul filo della memoria. “Saluta Anna, la coraggiosa”, conclude la lettera di un compagno di partito rivolta a mio padre alla fine della guerra. Parole che mi restituiscono un’immagine forte di lei, aprendo uno iato tra il suo tempo storico e la mia rappresentazione di quel suo stesso tempo che mi appariva eroico ma astratto».
Inizia così il “corpo a corpo” che Lorena Fornasir, psicologa clinica e anima della Piazza del Mondo di Trieste, una straordinaria esperienza di accoglienza e di cura dei migranti provenienti dalla rotta balcanica, intesse con la madre Maria Antonietta Moro.
Se ne segue il filo nel volume dal titolo Tutte le anime del mio corpo. Diario di una giovane partigiana (1943-1945), edito da Iacobelli, che racchiude i diari scritti durante l’esperienza nella Resistenza da Maria Antonietta. I diari rimasero in un cassetto, e furono scoperti dalla figlia Lorena solo dopo la morte di lei.
Fornasir, nel saggio introduttivo “Il dono materno”, interroga sia l’esperienza che il silenzio della madre. Nelle sue pagine ravvisa una giovane esistenza che si fa «terra di frontiera abitata da esperienze a volte estreme, spesso sulla soglia del rischio incombente. Pensiero femminile e pensiero politico si fondono in lei in una pratica della cura che è amore per la vita e insieme percorso e maturazione dentro il conflitto storico e individuale».
Maria Antonietta Moro aveva partecipato dapprima alla Resistenza jugoslava con il nome di battaglia “Nataša” e poi come “Anna” nelle formazioni garibaldine di pianura a Pordenone dove conoscerà il futuro marito, “Ario”, commissario politico e poi comandante partigiano.
Lorena Fornasir, al momento della perdita del corpo e della lingua materni, ritrova un momento sorgivo confrontandosi con la sua scrittura, con il suo racconto, e ri-apre la relazione, adesso nutrita dalla parte di lei che le era sconosciuta. Una parte che era emersa anche nell’esperienza del dopoguerra, con i rischi di golpe, le lotte sindacali, gli scioperi, le cariche della polizia di Scelba, cui la madre aveva insegnato alle figlie piccole a reagire, tirando pietre, nascoste, tutte e tre, in un fossato, alle camionette che minacciavano i cortei operai. Era «un gesto essenziale […] quelle pietre nelle sue mani e nelle nostre erano semplicemente la cosa giusta da fare». E anche se il ricordo sfuma nell’incertezza sul reale accadimento del gesto, a Lorena è rimasta nella memoria la sua essenzialità, la sua naturalità, pur nell’invisibilità, «come se la cura per la vita e per la lotta per la vita fossero inscindibilmente legate al suo essere madre e donna». La visibilità pubblica era del padre. Della madre è stato il dono della «vita come pratica di relazione amorosa. La lotta per la giustizia era in lei pensiero e amore ma, soprattutto, un partire da sé […] amore come cura, amore come conflitto, emozione come sorgente di pensiero».
Nell’esperienza partigiana di Maria Antonietta Moro sono presenti anche i dilemmi, le domande, i dubbi che provengono dalla situazione tragica in cui, lei e il mondo intorno a lei, si trovano a vivere. Da infermiera nell’ospedale di Gorizia, “Nataša” sapeva ricorrere agli psicofarmaci per avere informazioni e salvare i condannati a morte. Vedeva lo strazio dei corpi dei torturati (sono terribili le descrizioni di come veniva ridotto chi cadeva in mano alla polizia, agli “staffili dei cari amici italiani”). In una lettera ad “Ario” scrive che la sua direttrice di Gorizia le diceva che «chi cura e assiste l’ammalato è sacerdote, il letto del malato è l’altare, il malato l’ostia santa e inviolabile per tutti. Ma io ti dico: che cosa fa una spia anche se è un’ostia? E che fine si merita? Se poi questa spia appartiene al nemico della sua terra?». Una contraddizione forte tra i valori dell’educazione religiosa che aveva ricevuto e la situazione in cui viveva, una dissimmetria radicale. Ma osserva Lorena Fornasir: «Su questi comportamenti – estremi in situazioni estreme – non credo che noi possiamo esprimere giudizi […] Bisogna lasciare alla persona che fu Nataša prima e Anna poi, la responsabilità personale e solitaria che, con grande spirito d’indipendenza, sapeva assumersi radicalmente».
La genealogia materna si esprime anche nel difficile, dolente rapporto tra Maria Antonietta e sua madre: «Mamma: io t’amo ma perché non ti sono amica?». E la figlia individua nell’amore ciò che la avvicinerà alla madre, sorridendole «riconoscente di avermi fatto conoscere la vita», dopo aver attraversato così tanti “laboratori del male”. La madre di Maria Antonietta seppe anch’ella fronteggiare le bande nere, le incursioni nazifasciste nella propria casa, vessazioni e rappresaglie, e la deportazione del marito e dei figli. La sua abitazione era sede del comando partigiano di pianura. Morirà poco dopo la fine della guerra, “sfibrata” dalla persecuzione. Dalle parole di Maria Antonietta traspare il senso di colpa, anche nei confronti della famiglia, ma non si abbandona a nessun cedimento, in una appassionata lettera alla madre che forse non poté mai trasformarsi in un dialogo. Percorsero due strade per alcuni versi simili, ma le circostanze, o la sorte, non consentirono un reciproco attraversamento.
Un libro molto importante, che fa luce anche sulla persecuzione subita dalla popolazione slovena da parte del fascismo (ne parla diffusamente Anna Di Gianantonio nel saggio che chiude il volume, “L’esperienza controcorrente della partigiana Anna).
Per chiudere, alcune dense, lucide parole dal saggio di Gabriella Musetti “Autobiografia di una partigiana”, presente nel libro: «Leggere le memorie partigiane di tante donne, di chi ha combattuto, di chi è stata parte attiva, in armi o senz’armi, di chi ha prestato la sua opera con coraggio e determinazione nei vari modi in cui la lotta si è presentata sui fronti e nella società civile, rende giustizia di una lacuna grave nella ricostruzione di un periodo fondamentale del nostro recente passato. Significa riconoscere la ricchezza e la diversità delle esperienze, una ricchezza anche conoscitiva, di esperienze vissute in situazioni diverse, con la messa in campo dei corpi e lo spessore delle emotività. E chi scrive le memorie di questi eventi, nel momento cruciale dell’azione o più tardi, a distanza, si dona in lettura a tutti, con la lucida scelta di presentarsi come “un io senza garanzie”, per riprendere le parole di Ingeborg Bachmann, a proposito della scrittura autobiografica».
Lorena Fornasir, Tutte le anime del mio corpo. Diario di una giovane partigiana (1943-1945), Iacobelli 2024

Paola Meneganti

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