«Avrei voluto domare la bestia irsuta che mi lacerava le viscere perché non ero l’eccezione ma la possibilità di evadere da un circo stravagante, (…) dovevo trionfare su quella montagna di escrementi e inferiorità». In “Le Cugine”, l’argentina Aurora Venturini, scoperta a 85 anni dalla critica, racconta una famiglia di matriarche, zie, cugine «imbecilloidi» in cui gli uomini appaiono solo per violare corpi, blandire e rivelarsi deboli, ridicoli
Di Amanda Rosso
«Il romanzo era eccezionale? Erano l’audacia del testo, la sua eccentricità, la sensazione che nulla di quanto si pubblicava gli assomigliasse, era la voce giunta da un luogo sconosciuto?». Se lo chiede nella prefazione a “Le cugine” Mariana Enriquez, scrittrice argentina che nel 2007 ha fatto parte della giuria del premio Nueva Novela di Pàgina/12, a cui Aurora Venturini ha partecipato con uno pseudonimo. A ottantacinque anni, scrive Enriquez, dopo aver pubblicato per anni con piccoli editori indipendenti, Venturini si è presentata a ritirare il premio in tutto il suo spirito punk, e ha detto solo: «Finalmente una giuria onesta».
La vita della scrittrice, scomparsa nel 2015 a 93 anni, meriterebbe un romanzo: amica di Eva Péron – che ha conosciuto all’Instituto de Psicología y Reeducación del Menor dove lavorava come consulente, è fuggita in Francia dopo il colpo di stato in Argentina e ha stretto amicizia con alcune delle più importanti personalità intellettuali dell’epoca: Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Camus, Ionesco, Juliette Gréco e Salvatore Quasimodo. Ma nonostante la biografia letteraria invidiabile, i suoi lavori non hanno mai conosciuto le luci della ribalta.
Ma “Las primas”, il manoscritto battuto a macchina e macchiato di bianchetto liquido che ha lasciato Enriquez senza parole, ha consacrato Venturini nell’empireo della letteratura argentina contemporanea.
Già dalle prime pagine del romanzo si capisce il motivo dello stupore di Enriquez, quell’assoluto senso di straniamento che l’ha lasciata esterrefatta: «Non eravamo persone comuni per non dire che non eravamo normali». Venturini scrive di famiglia con millimetrica crudeltà, spogliandola sia dell’ennui borghese che della patina sanificata del romanzo di formazione. Se come ha scritto Tolstoj in “Anna Karenina” «Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo», il racconto di quella infelicità, mostruosa e contagiosa è il nucleo pulsante di “Le cugine”, pubblicato in Italia da Sur con la traduzione di Francesca Lazzarato, che ne ha scritto anche la postfazione.
Il romanzo è il flusso di coscienza allucinato e senza respiro di Yuna, ragazza e poi donna, testimone delle disgrazie implacabili che si abbattono sulla sua famiglia senza uomini, in un reame separato di matriarche con la bacchetta e zie che dipingono orride figure dai grandi occhi bovini, una sorella disabile e cugine «imbecilloidi», un universo in cui gli uomini appaiono solo per violare e straziare corpi, blandire e rivelarsi deboli, ridicoli.
Su di loro lo sguardo si posa quasi distratto, annoiato: gli uomini sono esseri caricaturali nel loro ingordo bisogno di possedere, nelle debolezze violente e nelle colpe quasi scontate, che non incutono il terrore che dovrebbero nella mente ovattata di Yuna pur perpetrando gli orrori e le crudeltà più brutali.
Le mura domestiche, con i traumi stratificati, gli abusi e il non detto, diventano teatro dell’autopsia emotiva di Yuna; in special modo Betina, la sorella di solo un anno più giovane ma con la mente di una bambina di quattro anni, si fa sineddoche del male che affligge tutti i personaggi, manifestazione evidente di un malessere generazionale. Ma la sorella è anche l’unico personaggio di cui Yuna vede l’anima, «una codina che usciva dalla fessura tra lo schienale e il sedile della sedia», una codina rivelatrice, «un lenzuolo bianco che stava dentro il corpo e quando si sporcava le persone diventavano idiote».
Alla crudeltà dell’infanzia, «Non mi ha mai fatto pena perché non le volevo bene» scriverà Yuna a proposito della sorella che ha bisogno di essere imboccata e a cui infligge un dolore compiaciuto, si accompagna una visione cruda ma partecipe di una famiglia a cui un morbo innominabile ha fatto ammalare il sangue. «Povera Betina. Errore della natura. Povera me, un errore anch’io e ancora di più mia madre che portava il peso dell’oblio e di noi mostri», lamenta Yuna in uno srotolarsi caotico di pensieri senza punteggiatura, perché «se mettevo punto e virgola perdevo la parola parlata».
Il suo vocabolario è limitato, una frustrazione che riduce spesso le cugine, Petra e Carina, e la sorella a fantocci da denigrare. Ma è proprio quel linguaggio crudele – e anacronistico per una lettrice contemporanea – a restituire uno sguardo millimetrico sull’Argentina degli anni ’40 e l’ipocrisia di una famiglia borghese colpita dalla disgrazia dell’imperfezione. Venturini non cerca di impressionare, scioccare o di autoproclamarsi matriarca dell’anticonformismo; le sue personagge sono il prodotto del loro posizionamento nel mondo e di una nube di omertà e pregiudizio che hanno introiettato al punto da riconoscersi nel disprezzo convinte della propria inferiorità.
La crudeltà di Yuna non è una volontà precisa, ma una mancanza di parole. Nella sua mente tutto ha senso, ma quando la parola le esce dalla bocca diventa «stupida», si deve confrontare con una società governata da leggi implacabili e meschine, la sessualità violenta e la miseria che la ammutoliscono e sconvolgono: «e io vedo nel profondo anche se parlo in modo superficiale e quello che vedo in profondità non mi piace e da lontano mi farà meno male» dirà. La scoperta di un medium visuale, quello dell’arte, le permetterà di trovare una chiave di Volta per dare senso all’orrore: «Tutto quello che succede finisce nei miei cartoni ed è la storia di una famiglia strana e a volte penso che tutte le famiglie abbiano qualcosa di strano e lo nascondano». L’arte, ma soprattutto il dizionario, le permetteranno di costruire un linguaggio capace di raccontare il quotidiano con una «scrittura a fiotti, come di sangue», scrive ancora Enriquez di Yuna che «scrive contro il linguaggio, contro le convenzioni della scrittura, con ciò che le resta di una precaria oralità» e con essa un’apertura «alla letteratura popolare», puntualizza Francesca Lazzarato nella postfazione, «alla burla, al residuale».
In questo senso “Le cugine” è un romanzo anti-letterario perché si sottrae alle convenzioni, forte di quell’oralità tipica delle soggettività marginalizzate che affidano alla lingua parlata la propria sopravvivenza, una lingua «fratturata e irregolare» spezzata come le sue protagoniste.
Yuna non ci presenta memorie ripulite e disinfettate ma coinvolge la lettrice nel processo di costruzione di senso che è il suo percorso dentro la vita. L’interlocutore diventa necessario perché la storia continui: «Cercherò di imparare a mettere virgole e punti perché tutto quello che ho scritto mi cade addosso come se rovesciassi un piatto pieno di minestra con la pastina a forma di lettere e al lettore forse succede lo stesso ma tutto in una volta non posso». La relazione affettuosa con il dizionario è forse l’unico spiraglio di autentica soddisfazione che ci è permesso scorgere in una esistenza avvilente e precaria. Ogni nuova parola scoperta e utilizzata si fa respiro nel fiato corto del suo favolare: «Credo che il dizionario mi aiuti, credo che supererò difficoltà che prima credevo insuperabili».
“Le cugine” non è un romanzo di formazione, né una storia di emancipazione ed eccezionalità, non racconta le vicende grottesche di una outsider in una famiglia tossica da cui fuggirà per compiere il suo destino, ma al contrario è il racconto spietato della brutalità sistematica sui corpi e le menti delle donne narrato da una voce che in quel tessuto di rovina attecchisce saldamente. Il corpo è il luogo politico dell’oppressione, individuale e personale ma anche sociale e sistemica.
Venturini non lascia nulla all’immaginazione, ma anzi si concentra sullo scabroso e il grotesque per sfidare l’idea di femminilità e di identità.
Al di là di uno stile dalla vividezza agghiacciante – e un linguaggio intonato al tempo del racconto e all’anima della sua protagonista – il pregio innegabile della scrittura di Venturini è la volontà di mettere al centro della narrazione proprio quei personaggi “irregolari” e marginalizzati dalla letteratura, che attraverso lo sguardo obliquo di Yuna si emancipano dal pietismo borghese ed esistono in tutta la loro corporea complessità.
Le donne di Venturini sono corpi e menti non conformi, ma ognuna di loro, nel rivendicare più o meno consciamente la propria umanità attraverso una corporeità ingombrante e “sregolata”, non accetta di essere relegata al reame del patetico. È la posizione subordinata e marginale di Yuna che le permette di trovare in Betina, Petra, Carina, le zie e la madre, e fra le righe della crudeltà che si infliggono a vicenda (e che subiscono dagli uomini) la traccia di un abbozzato tentativo di sopravvivenza in un universo domestico e relazionale progettato per annichilirle.
Aurora Venturini, “Le cugine” (titolo originale Las Primas, Argentina, 2007). Traduzione di Francesca Lazzarato, SUR, 2022
Lev Tolstoj, “Anna Karenina”, traduzione di Leone Ginzburg, Einaudi 1993









Amanda Rosso

Ultimi post di Amanda Rosso (vedi tutti)
- VARCARE CONFINI 10. ANDREEA SIMIONEL - 14 Marzo 2023
- INTERVISTA. L’amore è una gran macedonia - 21 Febbraio 2023
- L’anima è un lenzuolo stazzonato - 29 Gennaio 2023
- STRENNA Che fine hanno fatto le antenate? - 14 Dicembre 2022
- «La scrittura ero io» - 21 Luglio 2022