Dalle oltre 30 scrittrici interpellate da Letterate Magazine per l’archivio SIL, emerge che la via che porta alla prima pubblicazione è spesso il racconto. Seconda, capitale, informazione: l’importanza della rete di donne che le ha aiutate a pubblicare già decenni fa e che sempre più funziona oggi. L’aiuto viene soprattutto da altre scrittrici, ma pure da editrici, editor, organizzatrici culturali, dalla SIL e dal Concorso Lingua Madre e da direttrici di riviste delle donne, tutte autofinanziate come Leggendaria, Aspirina oggi diventata Erbacce, Leggere donna, e la prima di tutte, Tuttestorie
Di Silvia Neonato con il contributo di Roberta Mazzanti
Come diavolo si fa a pubblicare il proprio primo libro, a sormontare la mole di scritti che travolgono gli editori? A quale santo o santa rivolgersi? Funzionano i concorsi letterari? E le relazioni personali quanto contano? Sempre più spesso oggi ci si rivolge agli e alle agenti letterarie che, ovviamente in cambio di una remunerazione, rivedono i testi e contattano gli editori per tentare la pubblicazione.
Ma prima, e pure oggi, senza agenti come si fa? La SIL ha creato un archivio on line, intitolato proprio “Il mio primo libro”, perché alcune scrittrici italiane (o che scrivono in italiano) di differenti generazioni e che praticano generi letterari diversi, raccontino i modi e le occasioni grazie a cui sono riuscite a pubblicare il loro primo libro. La curiosità ha preso forma nel 2011 da un dialogo tra Roberta Mazzanti, me (Silvia Neonato), Liliana Rampello e Bia Sarasini e da allora ha fatto parecchia strada.
Oggi abbiamo già pubblicato su Letterate Magazine e archiviato nel sito SIL circa una trentina di autrici che ci hanno raccontato le proprie vie d’accesso e di presenza sulla scena editoriale. Da queste appassionanti storie inedite emerge che la via che porta al romanzo è spesso il racconto. Seconda, capitale, informazione: l’importanza fondamentale della rete di donne che le ha aiutate a pubblicare già decenni fa e che sempre più funziona oggi. L’aiuto viene soprattutto da altre scrittrici, ma pure da editrici, editor, organizzatrici culturali, socie della Società italiana delle letterate, amiche e poi molte direttrici di riviste letterarie e politiche delle donne, tutte autofinanziate (Leggendaria, Aspirina oggi diventata Erbacce, Leggere donna, e la prima di tutte, la rimpianta Tuttestorie).
Tre esempi di testimonianze da me ampiamente tagliate (ma trovate l’originale integro sia sul Letterate Magazine sia sul sito della SIL). Margherita Giacobino, che all’inizio della sua carriera si inventò, per timida reticenza, lo pseudonimo Elinor Rigby. «Con questa firma uscirono racconti sulla rivista Leggere Donna, a richiesta di un’amica, l’editrice Luciana Tufani e poi su Aspirina» la rivista di satira femminista, nata a Milano nel 1987.Poi uscì “Casalinghe all’inferno”, primo romanzo firmato sempre con lo pseudonimo Elinor Rigby: «e fu grazie all’amica Pat Carra, di Aspirina, se trovò un editore, Baldini e Castoldi».
Secondo caso è Chiara Mezzalama che spiega come già da bambina aveva scritto un libro. Il tempo passa e la voglia di scrivere resta. «Mi sposai, rimasi incinta. Scrissi un racconto, “Prurito”, sul mito della fondazione di Roma, per la raccolta “Allupa Allupa” curata per Derive Approdi da Silvana Maja e Nadia Tarantini. Nacque mia figlia e rinacqui anche io come scrittrice sotto lo sguardo amorevole di Nadia Tarantini (della redazione della rivista Leggendaria) e di donne leggendarie che da allora considero madrine. Passeggiavo con la mia bambina neonata sulle pendici del Colle Oppio, leggevo mentre lei dormiva. Un padre faceva lo stesso con la sua bambina; spingeva la carrozzina e leggeva. Fu naturale mettersi a parlare di romanzi e di neonate. Michael Reynolds lavorava per la casa editrice E/O, mi propose di mandare il manoscritto del primo romanzo a Sandra Ozzola. Passò del tempo, ero di nuovo incinta. Ho ritrovato questi appunti scritti all’epoca: primo romanzo “Avrò cura di te”».
Terza è Beatrice Masini, alla quale l’aiuto è venuto da altre scrittrici. Tra la primavera e l’estate del 1995, con un figlio piccolo, senza un lavoro fisso, Masini porta a termine una storia cominciata da tempo, “Emma dell’ermellino”, un romanzo per bambini ambientato nella Milano di Leonardo e in quella di oggi. Non vince il concorso de Il Battello a vapore, ma un’amica scrittrice, Roberta Grazzani, lo legge e lo segnala agli editori di Arka. Scrive Masini: «L’anno dopo, la menzione attribuita a Emma su slancio di Bianca Pitzorno al Premio Cento – anche qui niente vittoria, ma quel tocco lieve illustre benedicente – fu un bel viatico. E poi avanti, il mondo dei libri per ragazzi negli anni Novanta cresceva rapido, c’erano tante possibilità, si poteva provare e riprovare. Curiosamente non ricordo ansia in quei mesi strani di scrittura nel limbo, senza un lavoro regolare, con un bambino piccolo e una sterzata in corso, ma una sorta di fervore fiducioso».
Anche i concorsi letterari risultano utili: tra le nostre autrici Nicoletta Vallorani e Laila Wadia narrano che hanno pubblicato perché hanno vinto un concorso letterario: quello di Urania la prima, il concorso Eksetra per stranieri che scrivono in italiano l’indiana Wadia. Importante e spesso citato è il Concorso Lingua Madre, che, tra le tante, ha premiato Ubah Cristina Ali Farah, ormai scrittrice e intellettuale nota. È proprio lei, esule dalla Somalia, che scrivendo per noi riporta il maggior numero di scrittrici, editrici, attiviste che le diedero una mano all’inizio, dopo il primo racconto letto timidamente in pubblico a un incontro del gruppo Scritti d’Africa. «Devo dire che se sono arrivata a scrivere il romanzo “Madre Piccola” è stato soprattutto per l’appoggio costante delle mie amiche. Non racconterò i dettagli intricati di questa rete di donne eccezionali che mi hanno sostenuta. Anna Fresu di Scritti d’Africa che mi ha fatta innamorare del teatro. Alessandra Di Maio che ha sempre creduto in me. Il concorso Lingua Madre che mi premiò nella sua prima edizione: ricordo ancora la voce di Daniela Finocchi al telefono che mi annuncia la notizia mentre sto attraversando il Ponte dei Sospiri a Venezia. Carola Susani che mi ha detto: ora è il momento e non pensarci troppo, intanto scrivi questo libro. Anna Pastore che mi ha accolta a Frassinelli e si è battuta per il mio romanzo. E Maria Rosa Cutrufelli che mi ha detto: sei una vera scrittrice».
Naturalmente alcune – quasi tutte quelle meno giovani –, sono state aiutate da uomini/scrittori per pubblicare il loro primo romanzo. Hanno avuto intraprendenza, coraggio, fortuna e il loro talento è stato riconosciuto. Da uno scrittore. La prima a raccontarlo è proprio Maria Rosa Cutrufelli, che tante delle autrici de Il mio primo libro, hanno citato per averle accolte, incoraggiate e ospitate con i loro racconti sulla rivista Tuttestorie da lei fondata, che prevedeva, tra l’altro, anche un concorso con la pubblicazione premio. Della rivista scrive Maristella Lippolis: «Ci pensavo, alla scrittura; ne sentivo la mancanza, che non riusciva però a trasformarsi in parole (…). Non lo sapevo, ma la scintilla si è accesa con Tuttestorie, la rivista fondata da Maria Rosa Cutrufelli. C’era un concorso per un racconto, chi vinceva veniva pubblicata, e ho vinto per ben due volte. Così ho cominciato a pensare alla scrittura come a un territorio che avrei potuto praticare (…). E poi è arrivato l’incontro magico con Grazia Livi, qui a Pescara, invitata dalla mia associazione a parlarci del suo “Le lettere del mio nome”. Le ho chiesto di leggere un mio racconto (…). Conservo ancora la sua lettera, dove mi esortava a continuare a scrivere. A quel punto non potevo più sottrarmi, ho pubblicato il mio primo libro di racconti con una piccola e sconosciuta casa editrice di Pescara diretta da una donna, con cui avevo dato vita a un premio letterario per scrittrici esordienti…».
Leggete le testimonianze per intero, non solo quella di Lippolis: ne vale davvero la pena, raccontano mondi editoriali e mondi interiori, speranze, successi, sbagli. Come quello clamoroso di Maria Rosa Cutrufelli che a 18 anni osò rifiutare di apportare le correzioni al suo primo romanzo suggeritele da Italo Calvino, al quale era arrivato grazie a Roberto Roversi. Maria Rosa non fece nessuna correzione e il libro non uscì. L’autrice, in quegli anni di tanta militanza e poca letteratura, decise di passare alla saggistica. Ma quando si decise a scrivere un altro romanzo chi le diede una mano? «”La briganta” è il primo romanzo che ho pubblicato nel 1990. La prima edizione è uscita con La luna, piccola casa editrice di donne, meridionali. Il che non mi sembra affatto un caso. E la fotografia sulla copertina, scelta assieme all’editrice, mi commuove ogni volta che la guardo: perché quella donna stanca e ferita, con il fucile accanto, è proprio lei. La donna di cui volevo scrivere».
La più anziana delle interpellate è un’autrice che andrebbe riscoperta, Camilla Salvago Raggi, classe 1924, che ci ha lasciato quest’anno. L’aiuto a pubblicare le venne da Elio Vittorini: a lui Camilla inviò un racconto, dopo aver letto che lo scrittore era disponibile a leggere testi di “giovani” in cerca di editore. Vittorini le rispose che poteva considerarsi una scrittrice e le suggerì di rivolgersi a Leonardo Sciascia, e poi a Anna Banti. Sciascia infatti ne pubblicò due su Galleria, e uno (“La padrona giovane”) lo pubblicò la Banti su Paragone… Ecco di nuovo l’importanza delle riviste letterarie e l’aiuto di Anna Banti, una delle poche che nel secondo dopoguerra avevano prestigio nel mondo editoriale italiano e che era disponibile ad aiutare le autrici in cerca di pubblicazione.
Interessante è il racconto di Sandra Petrignani, che narra di un decisivo aiuto maschile, ma anche di due scrittrici che provarono a trovarle un editore. Ecco la sua testimonianza: «Accumulavo capitoli sui fogli scritti in modo inconcludente. E lo davo imprudentemente a leggere innanzi tempo a scrittrici come Edith Bruck (che aveva tentato di farmelo pubblicare da Bompiani ricevendo una porta in faccia) e a Natalia Ginzburg, altro buco nell’acqua. Fino a quando non capitò fra le mani di un mio noto e severissimo vicino di casa, Giorgio Manganelli, che per caso, trovandone un capitolo anticipato sulla rivista L’altro versante, scoprì la mia segreta attività di scrittura, mi costrinse a consegnargli l’intero scartafaccio, mi ci fece sopra dei terribili segnacci rossi e blu, m’intimò di correggere e tagliare seguendo le sue indicazioni, e mi trovò anche un titolo: “Navigazioni di Circe”». Che fu pubblicato da Theoria nel 1987.
Valeria Corciolani a sua volta ha pubblicato il suo primo giallo (scritto nelle notti di veglia per un figlio che non dormiva mai) nel 2010 con Mondadori e l’aiuto le è venuto per primo dal marito, che le ha proposto di farlo leggere a uno scrittore ligure come lei, Lorenzo Licanzi. Che apprezzò e lo spedì al proprio agente letterario. L’agente, a sua volta, lo inviò a Mondadori. Eccolo pubblicato. E dal 2010 Corciolani scrive i suoi gialli, ora editi da Rizzoli, in cui è una donna esperta d’arte a condurre le indagini e a trovare i colpevoli.
Anche Elvira Mujčić chiede e ottiene aiuto da un grande studioso e scrittore. «Mentre stavo scrivendo la mia tesi di laurea sul ruolo della propaganda nella dissoluzione della ex-Jugoslavia, trovai alcuni articoli al riguardo pubblicati sulla stampa italiana e scritti da uno scrittore jugoslavo, Predrag Matvejević. (…). In quegli anni Matvejević era docente di letteratura serbo-croata alla Sapienza e non fu difficile trovare un suo indirizzo e-mail e scrivergli. Fu invece sorprendente ricevere la sua immediata risposta. Ne venne fuori una breve ma esaltante corrispondenza socio-letterario-politica e in ultimo una domanda delicata di Matvejević: “Hai mai scritto qualcosa di tuo, intimo, sull’esperienza della guerra?”».
Due tributi ad altre donne vengono invece da due autrici pluripremiate. Ecco Rosella Postorino: «Ero andata a vivere a Roma e avevo cominciato a lavorare in un ambito che non mi piaceva per niente (…). Così decisi di confrontarmi con la stesura di racconti anziché dei soliti frammenti, brani di prosa non classificabili, che nessuno avrebbe mai pubblicato, e che tra l’altro nessuno aveva mai letto. (….) Ero in una chiesa romana ad ascoltare un gospel e guardando i soffitti affrescati sentii affiorare la voce di una suora che parlava di desiderio, del suo rapporto con il desiderio. Tornata a casa, nella stanza doppia sulla tangenziale che condividevo con un’amica, ascoltai quella voce e scrissi “In una capsula” – sul computer dell’amica, perché il mio si era rotto.
Uno o due anni dopo mandai il racconto a Simona Vinci – che era la mia scrittrice italiana preferita – anche se non la conoscevo, intendo di persona; usai l’indirizzo mail del suo sito web. Non volevo nulla, solo essere letta da lei, perché come me amava Duras, Morante, McEwan, perché i suoi libri li regalavo a chi consideravo importante. Lei fu così generosa da rispondermi e qualche mese dopo, inaspettatamente, mi disse che aveva fatto leggere “In una capsula” a Severino Cesari: sarebbe uscito in un’antologia pubblicata da Einaudi Stile Libero».
Giulia Caminito ci ha raccontato che fu l’editor di allora in Giunti, Donatella Minuto, ad annunciare che il suo romanzo d’esordio, “La grande A”, sarebbe stato pubblicato. Ma chi c’era dietro? Roberta Mazzanti, socia della Società italiana delle letterate, SIL e, dal 1986 al 2010, editor di narrativa per Giunti, ideando la benemerita e originale collana Astrea, tutta dedicata esclusivamente alla narrativa delle donne di varie epoche e paesi. «Prima di quella risposta, Roberta Mazzanti, a cui devo tantissimo, mi aveva letta, dedicando tempo ai miei precedenti tentativi zoppicanti: racconti sbilenchi e senza fuoco, accenni di romanzi che giravano a vuoto. Il suo incoraggiamento a provare a scrivere invece la storia della mia famiglia mi aveva sostenuta fino a quella notte, il suo affetto e il suo sguardo affilato da donna che sa fare i libri avevano già permesso a quelle pagine di essere altro e non più solo i file disordinati nel mio pc».
Kaha Mohamed Aden il circuito di amiche e le riviste su cui pubblica i suoi primi racconti (Nuovi argomenti e Psiche)
Dopo aver riletto tutti i contributi delle nostre scrittrici, Roberta Mazzanti ha notato alcune affinità negli atteggiamenti con cui molte di loro hanno approcciato il problema della scrittura e poi della pubblicazione. Ad esempio, per non perdersi in quelli che Beatrice Masini ha definito gli «invii a tentoni, le attese lunghissime, le non risposte», sono state preziose anche buone dosi di incoscienza e di autoironia, come riconosce Nicoletta Vallorani «L’ironia aiuta: forse ho sbagliato a non prendermi mai troppo sul serio, ma da questo autoridimensionamento è germogliato il coraggio di mettermi a scrivere».
E la ritroviamo anche in Valeria Corciolani, quando descrive il suo primo romanzo giallo: «Chissà perché poi proprio un giallo che, a parte Simenon e Fruttero & Lucentini, non era un genere che masticassi molto. Comunque quello fu, colatomi fuori in un grumo di settimane con la vaporosa incoscienza del divertimento puro, visto che nessuno lo aspettava e ansie e velleità erano pari a zero. Infatti se ne restò a frollare nella memoria del computer, celato in una cartella dall’evocativo nome di “nesciaia”, che in genovese significa scemata, giusto per dire».
Un altro punto comune è la vocazione precoce alla scrittura, che non implica necessariamente un altrettanto precoce approdo alla pubblicazione, ma sostiene comunque una tenace determinazione a farcela, prima o poi… una per tutte, Monica Sarsini: «Un mago tempo prima mi aveva predetto che sarei stata una scrittrice, io gli avevo risposto che si sbagliava, che forse confondeva i fogli colorati di carta velina che usavo per i miei collages con quelli che servono a comporre le pagine dei libri, lui sostenne il contrario. Scrivevo dall’infanzia come chi corre e chi danza, chi borbotta e chi cammina, un’attitudine consueta alla mia vita come respirare, ma non avevo mai pensato di voler pubblicare».
Infine, la capacità straordinaria delle donne di far fruttare le proprie doti anche se innestate su terreni impervi, ben lontani dalla famosa “stanza tutta per sé” dove lavorare con agio, senza interruzioni e circondate dal silenzio. Chiara Mezzalama racconta: «Poi l’università, gli esami, il tirocinio, la specializzazione in clinica dell’età evolutiva, un lavoro vero da psicoterapeuta. Tutta una corsa. Eppure quello scrivere in clima di guerra ancora mi accompagnava, lo scrivere come resistenza e lotta al tempo che passa, ti avvolge e ti inghiotte. Un’attività semiclandestina che viene svolta rubando il tempo al resto. Nascondendosi in casa mentre tutti gli altri sono usciti. Scrivere a singhiozzo, scrivere per emergenza, scrivere nervosamente. La scrittura sgorga come un torrente di montagna, tra salti, cascate e inabissamenti; sogno di un lago placido e fermo dove poter raccogliere le acque, ma è ancora presto per questo».
Capacità di nutrire la propria vocazione letteraria insieme alle proprie relazione umane e familiari, infatti molte delle scrittrici realizzano il “primo libro” negli stessi anni in cui mettono al mondo i loro figli. Ne racconta Beatrice Masini, la ripropone Nicoletta Vallorani: «Ho scritto il romanzo mentre finivo la mia tesi di dottorato (sulla fantascienza, manco a dirlo) e fabbricavo la mia prima figlia. C’è una consonanza poetica in questo. Il corpo genera una vita e una scrittura, e tutte e due nascono più o meno nello stesso momento. La mia replicante alta, brutta, geniale e un po’ tossica ha gli stessi anni della mia bambina più grande. E tutte e due si portano bene».
E come sempre nella vita delle donne, scrittrici e no, i paradossi si tengono insieme: da un lato l’incertezza nel proprio valore, quella che Vallorani ben descrive: «… forse avevo ancora, come scrive Irigaray, “troppi pochi gesti per accompagnare” la mia storia, che rimaneva intrappolata tra ambizione e mancanza di coraggio».
Dall’altra, la fierezza per quello che sanno proporre a un mercato editoriale spesso pigro e tradizionalista, la consapevolezza della propria originalità… Carola Susani è bravissima a sintetizzarla: «Il mio libro stentava a raggiungere le cento pagine, era un romanzo a pannelli, quasi privo di descrizioni, scritto con una lingua svuotata ma non asciutta, densa, era un libro duro eppure fiabesco, così diverso da quello che si vedeva in giro; ma io non mi rendevo conto, avevo trent’anni e mi sembrava tutto molto normale, anzi mi pareva così tardi trent’anni per esordire».









Silvia Neonato

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