VARCARE CONFINI 7. GLORIA ANZALDÚA

Clotilde Barbarulli, 28 ottobre 2022

La pubblicazione in Italia – grazie a Paola Zaccaria – nel 2000 del libro di Gloria Anzaldúa (1942-2004) ebbe forte eco nel femminismo: teorizzando la sua esperienza di marginalità frontaliera (“Borderlands/La Frontera” 1987), ripetutamente violata e conquistata nei secoli, dove “il soggetto è in perenne trasformazione e movimento”, Anzaldúa – «scrittrice femminista chicana tejana patlache (parola nahuatl per lesbica) di Rio Grande Valley», il fiume che separa il Messico dal Texas Sudoccidentale – afferma che lungo il confine ibridità e coscienza meticcia si traducono in un sapere diverso.
Un linguaggio per immagini, una scrittura sperimentale in cui si intrecciano autobiografia e manifesto politico con la poesia, disegnando una mappa delle lingue e delle contaminazioni che contraddistinguono il panorama di quelle terre, “una narrazione fuori dagli schemi” (Zaccaria). «Cosa sono?», si chiede: «Una lesbica femminista del terzo mondo incline al marxismo e al misticismo. Mi frammenteranno e ad ogni pezzo daranno un’etichetta». Così Anzaldúa – che attribuiva la sua fragile salute alle fumigazioni sofferte da bambina, quando gli aerei delle multinazionali yankees lanciavano veleno sui braccianti a giornata messicani che lavoravano nei campi (“La Prieta” 1988 ) – sceglie di collocarsi in un incrocio di percorsi, nella differenza, nella diaspora. Per lei l’unico spazio che possiede la donna oppressa per generare una trasformazione sociale è quello della scrittura: «Le parole sono una guerra per me […]. Potrò creare un mostro, gonfio di colori ed eccitante».
Ora l’uscita di una nuova edizione di quel testo intitolata “Terre di confine. La frontera. La nuova mestiza” costituisce un evento ugualmente significativo anche perché la prima è quasi introvabile e così le nuove generazioni potranno arricchirsi di questo libro che ha anticipato concetti e parole del movimento transfemminista.
Il termine inglese “borderlands” corrisponde alla parola spagnola “frontera” con cui coesiste in una commistione di lingue: contiene sia la definizione di spazio geografico sia quella di spazio interiore, culturale, simbolico. La frontiera fa da sempre parte della Storia dei messicani e degli americani, di volta in volta tracciata e imposta ai nativi dai vari governi: «Per sopravvivere alle Terre di confine/ devi vivere sin fronteras/essere un crocevia».
Da ricordare che la scrittrice ha collaborato alla raccolta di saggi “This Bridge Called My Back; Writings by Radical Women of Color” (1981), frutto di lotte, militanze e ricerche precedenti gli anni Ottanta, importante per il femminismo transnazionale, decoloniale e intersezionale. Si trattava di donne di origini differenti: nere, native, asiatiche già ben coscienti della portata della razzializzazione dei gruppi oppressi e dell’incastro oppressivo dei rapporti di potere.
Da qui una critica radicale al femminismo egemonico, bianco, eterosessuale, e di classe medio-alta, da parte di quelle autrici che si erano sentite rifiutate o non riconosciute nei loro discorsi di emancipazione. Ciò che contraddistinse il femminismo nero e chicano fu la messa in discussione di quella gerarchia dei sistemi di oppressione delineata dal femminismo bianco, per sostenere invece l’esperienza di donne contrassegnata da una “intersezione” dei sistemi di oppressione: non poteva esserci sorellanza senza tener conto delle differenze di razza e di classe.
La frontiera come situazione socio-storica reale di emarginazione e oppressione nella visione di Gloria Anzaldúa si rielabora, fino a diventare uno strumento politico per la trasformazione sociale. Geograficamente, si situa nella frontiera che separa il Messico dagli Stati Uniti, ma assume anche altre frontiere più profonde, come quelle identitarie, linguistiche, epistemologiche e sessuali, perché lei, “abitatrice di più mondi”, migrante per sempre, è fuori luogo, nell’attraversare e riattraversare le frontiere per visitare entrambe le culture che si vorrebbe invece separare. «Sono stata a cavalcioni sul confine texano messicano, e altri ancora, tutta la mia vita».
La frontiera evoca il nostro tempo con l’aumento dei confini fuori e dentro gli Stati. Anzaldúa ridefinisce il confine di 3140 km. che separa gli Stati Uniti dal Messico come una “ferita aperta”, una ferita che attraversa il corpo della donna del Terzo Mondo, localizzata e situata in quello spazio di violenza, segnata dallo stigma della colonizzata. Le identità di frontiera da lei proposte ci descrivono una nuova realtà più complessa ed eterogenea che è necessario assumere: abitare la frontiera implica l’assumere che siamo sempre in un incrocio di percorsi. «Non lascerò più che mi si faccia vergognare. Avrò la mia voce: india, spagnola, bianca. Avrò la mia lingua di serpente – la mia voce di donna, la mia voce sensuale, la mia voce di poeta. Supererò la tradizione di silenzio».
La Nueva Mestiza è una delle proposte politiche che scaturisce da un femminismo decolonizzato dalla classe e dalla razza (non biologica ma culturale). Pertanto l’aggettivo nueva che accompagna il sostantivo sottolinea un processo cosciente scelto per la creazione di una diversa visione del mondo con cui risignificare le coordinate culturali: «Siamo le persone che non appartengono a nessun luogo, né al mondo dominante, né completamente alla nostra cultura. Insieme abbracciamo tante oppressioni. Ma la schiacciante oppressione è il fatto collettivo che non ci adattiamo e poiché non ci adattiamo siamo una minaccia». Le chicane diventano nuove Malinches, (rivisitando la storia di Malinche, la traduttrice amante di Cortés), non più oppresse dal potere sociale e culturale degli uomini (i colonizzatori, gli spagnoli di Cortés o gli odierni angloamericani, e gli stessi messicani), pronte a varcare le varie frontiere, anche linguistiche, come racconta Sandra Cisneros nel romanzo chicano “Caramelo”, che si dipana in un andirivieni incessante tra Chicago e Città del Messico.
Negli attuali paesaggi liberisti, la moltiplicazione delle frontiere simbolico-materiali e la vulnerabilità della vita sembrano essere diventati la norma, ed è difficile stare fra confini come raccontano anche in Letterate Magazine le tante scrittrici arrivate in Italia: perciò ritornare a Gloria Anzaldúa, è importante e urgente. «Sono una tartaruga, dovunque vado mi porto “la casa” sulle spalle». L’attraversamento dei confini così «porta ad un disfarsi delle categorie rigide e ad una riarticolazione della complessità» (Zaccaria). In quanto mestiza, sostiene Anzaldua, «non ho paese, la mia patria mi ha esclusa, eppure tutti i paesi mi appartengono, perché di ogni donna sono la sorella o l’amante potenziale».

Gloria Anzaldúa, “Terre di confine. La frontera. La nuova mestiza”, Trad. e postfazione di Paola Zaccaria, Black Coffee 2022.
Gloria Anzaldúa, “Terre di confine. La frontera”. A cura di Paola Zaccaria, Palomar 2000.

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Clotilde Barbarulli

Clotilde Barbarulli collabora attivamente con associazioni quali il Giardino dei Ciliegi di Firenze, la Libera Università Ipazia, la Società Italiana delle Letterate. Si occupa di autrici contemporanee fra lingue e culture e di scrittrici '800/900. Tra le sue pubblicazioni: con L. Brandi, I colori del silenzio. Strategie narrative e linguistiche in Maria Messina (1996); con M. Farnetti, Tra amiche. Epistolari femminili tra Otto e Novecento (2005); con L. Borghi Visioni in/sostenibili. Genere e intercultura (2003), Forme della diversità. Genere, precarietà e intercultura (2006), Il Sorriso dello Stregatto (2010)."Scrittrici migranti: la lingua, il caos, una stella" (ETS 2010),

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