Due uomini soli in un faro al largo della costa con sporadici contatti con la terraferma. Tutto attorno il mare feroce e implacabile fagocita vite e restituisce corpi annegati. Il capolavoro della letteratura francese di fine Ottocento, La torre d’amore di Rachilde approda per la prima volta in Italia nella sua traduzione completa. Abbiamo intervistato la traduttrice
di Amanda Rosso
Quando ho scoperto che il film The Lighthouse, pellicola del 2019 con Robert Pattinson e Willem Defoe era ispirato a un racconto mai concluso di Edgar Allan Poe del 1845, a sua volta ispirato dalla leggenda di un incidente accaduto al largo della costa gallese, mi sono messa alla ricerca. Da sempre affascinata dall’idea di raccoglimento e meditazione che ispirano i fari, mi sono trovata fra le mani il romanzo di una scrittrice francese quasi contemporanea di Poe, Rachilde, pseudonimo di Marguerite Vallette-Eymery, ogni ideale romantico sui fari si è frantumato di fronte a La tour d’amour, romanzo dalla forte impronta Simbolista e una prosa implacabile e ipnotica.
Come nel racconto di Poe, il romanzo racconta la rapida discesa verso la follia di due uomini che vivono e lavorano in un faro al largo della costa, falcidiato dagli umori imprevedibili del mare e frastornati dal costante ululare del vento. In una claustrofobica e progressivamente violenta perdita di lucidità, il più giovane dei due narra le vicende sempre in sospeso fra realtà e delirio, vita e morte, apatia e violenza. È sorprendente che una scrittrice come Rachilde, che in vita è stata una personalità letteraria di spicco vicina al Simbolismo e il Decadentismo francese, sia poco conosciuta in Italia. Eppure, la gestazione de La torre d’amore (edizioni croce, 2024) sembra il frutto della stessa “forza paziente che consumerebbe le rocce” che Rachilde attribuiva al femminile, come ricorda la curatrice Marina Geat nella introduzione. La stessa determinazione operosa ne ha permesso la riedizione, nella magistrale traduzione di Sara Concato, che ha gentilmente accettato di rispondere ad alcune domande sul romanzo, sul suo lavoro di traduzione e la sua carriera poetica.
Cara Sara, come hai incontrato Rachilde e La tour d’amour, e quale è stato il vostro viaggio fino alla pubblicazione?
L’incontro con Rachilde è stato prima di tutto l’incontro con Marina Geat. Un sodalizio che dura da anni ormai. Studiosa di Rachilde da decenni, pubblicò uno studio sull’autrice nel 1990, studio che io ho letto e mi ha folgorata. Abbiamo iniziato a pensare che Rachilde doveva uscire dal dimenticatoio. Potevamo unirci e lavorarci su. Io mi proposi come traduttrice. La scelta è caduta su La Tour d’Amour perché entrambe lo abbiamo amato, convinte che superasse in qualità persino il suo capovaloro più noto, Monsieur Vénus (peraltro recentemente ritradotto da Wom e Orizzonte Milton). E Marina aveva avuto la fortuna di vederne la trasposizione teatrale realizzata nel 1984 da Jeanne Champagne. Il libro che abbiamo composto si chiude infatti con un’intervista alla regista, che peraltro è stata con noi a Roma quando abbiamo presentato La torre d’amore a Più Libri Più Liberi. Era insieme a Reine Prat, ex funzionaria del Ministero della Cultura francese che si è occupata di parità di genere nelle professioni dell’arte e della cultura.
Il viaggio verso la pubblicazione è stato a dir poco impervio. Abbiamo passato molto tempo a scrivere a diversi, tanti, editori, senza ricevere attenzione. Abbiamo continuato finché qualcuno ha risposto all’appello.
Sembra incredibile che questo indiscusso capolavoro della letteratura francese di fine Ottocento venga tradotto per la prima volta…
A dire la verità, esiste una traduzione de La Tour d’Amour datata 1935 ad opera di Decio Cinti. Contiene perfino delle illustrazioni. Fu pubblicata nel numero 19 della collezione “Il romanzo moderno” di Mondadori. È una traduzione lacunosa, nel senso che alcune parti mancano, forse deliberatamente espunte. Una traduzione lontana nel tempo, caduta nell’oblio ma testimone di un’epoca fervente in cui le traduzioni – paradossalmente – fioccavano. A questo proposito sono preziosi gli studi di Anna Ferrando sulle traduzioni durante il fascismo (Stranieri all’ombra del duce e Cacciatori di libri, entrambi editi da FrancoAngeli).
Rachilde, nom de plume di Marguerite Vallette-Eymery, scrittrice fenomenale di fine Ottocento, come George Sand scriveva sotto pseudonimo maschile. Puoi raccontarci qualcosa di lei?
Difficile contenere Rachilde in una risposta. Già il fatto che il suo nom de plume sia quello di un fantasma svedese da cui finse di essere posseduta per raccontare le sue storie inquietanti la dice lunga. Marguerite Eymery nasce nel 1860 nel Périgord, regione al centro della Francia, da genitori che avrebbero preferito un maschio e che si opporranno al suo desiderio di essere scrittrice. Ma lei scriverà. Si affermerà come “homme de lettres” nella Parigi di fine Ottocento, sarà soprannominata “Mademoiselle Baudelaire”, frequenterà intellettuali e letterati, avvierà con il marito Alfred Vallette il Mercure de France, rivista letteraria di gran successo, poi anche casa editrice. Rachilde scrisse letteratura e di letteratura, scoprendo molti talenti. Avanguardista, scandalosa, autrice prolifica e stimata dai suoi pari, dopo la morte cade inspiegabilmente (o comprensibilmente) nell’oblio.
Nonostante Rachilde abbia scritto un pamphlet intitolato Pourquoi je ne suis pas féministe (1928), La torre d’amore è un romanzo infestato da questioni di primario interesse per il femminismo: la violenza, le relazioni fra i sessi, le convenzioni sociali e i ruoli di genere emergono perfino nel linguaggio, dove il mare, la mer, in francese, ha i connotati di una donna furibonda e vendicativa…
Non è femminista nel senso che si oppone all’idea che la donna voglia essere “come l’uomo”. Rivendica la rottura con tutto ciò che il mondo degli uomini è. A questo proposito sarebbe interessante mettere a fuoco il suo rapporto con il mondo animale e, in generale, degli elementi naturali. La sua sensibilità la avvicina a quel mondo piuttosto che a quello umano. E questo suo aspetto mi ha fatto tanto pensare ad Anna Maria Ortese. C’è un filo che lega in qualche modo queste due anime. Ne La torre d’amore il faro di Ar-Men – proprio quel faro, costruito in un luogo impossibile – rappresenta il trionfo dei “signori ingegneri”, che si illudono di domare la forza viscerale del mare. La mer – in francese è femmina – è la furia che si abbatte e sgretola l’illusione, trascinando i guardiani nel delirio, vendicando le donne reali, rivoltandosi contro il desiderio mortifero di possesso, di dominio, di quegli uomini – e di tutti gli altri.
E a proposito dell’uso evocativo del linguaggio, quella di Rachilde è una lingua magmatica e pirotecnica, ricca di assonanze e associazioni che è molto difficile rendere in italiano. Ma non solo, ci sono tutta una serie di termini tecnici che riguardano il funzionamento del faro che sono certa non sia stato semplice tradurre. Puoi raccontarci qualcosa del processo traduttivo, della tua esperienza e del tuo approccio al testo?
Non è stato semplice. È stato intenso. Certamente impegnativo il ricorso a un rigoroso vocabolario tecnico che certamente Rachilde ha attinto a una serie di articoli di giornale usciti all’epoca sulla costruzione di questo faro monumentale, opera ingegneristica enorme e pericolosa. Questo lessico ingegneristico tecnico usato con una precisione maniacale mi ha portata a fare ricerche mirate, nonché a cercare immagini in cui potessi vedere certi meccanismi e comprendere meglio.
Poi c’è il mare, che in italiano è maschile. Eppure, al di là di varie strategie lessicali adottate per rendere l’idea, a un certo punto della storia, la potenza evocativa della scrittura di Rachilde ha diluito la grammatica. Questa è una sua grande forza. Così come forte è la poeticità della scrittura di Rachilde. E quando parlo di poesia di Rachilde, di poesia della sua scrittura, non intendo il bell’eloquio, elegante, aulico, armonico. Intendo – proprio come hai notato tu, parlando di “lingua magmatica e pirotecnica” – l’impeto, la furia, degli elementi, che vanno a dominare le parole e perfino i suoni. La lettura ad alta voce in questo senso è utilissima, sia del testo originale sia della traduzione che si va componendo. Questa potenza dirompente, questo sovraccarico, che risulta indomabile e incontenibile dalla sintassi è un aspetto che mi ha portata a “combattere” un po’ con i revisori, perché non è facile far passare qualcosa che non risponde all’esigenza che, appunto, si può avere di un eloquio bello, armonico ed elegante.
Rachilde è anche abile nel cambio di registro. Passa dalle vette visionarie della poesia alla lingua del porto, al colloquiale inzuppato nel bretone di marinai e locandiere. Una sfida grande per chi la traduce, che si ritrova a navigare fra glossari bretone-francese e prontuari nautici!
Tu sei una poeta. Ho trovato il tuo esordio Patchwork (edito nel 2022 per L’erudita) impressionante; sono rimasta affascinata dalla corporeità della tua poetica, dal modo in cui il linguaggio si mette a servizio della scrittura, la sua precisione ed efficacia, la sua capacità evocativa ma anche sensoriale. E trovo che molto della tua poetica sia presente anche nella traduzione de La torre d’amore, l’attenzione al modo in cui la prosa plasma lo spazio e il tempo dell’azione, ne delimita i contorni o ne esalta la potenza visionaria…
Mi lusinga davvero tanto che tu abbia usato termini come “corporeità” e “precisione”. Sì, nella traduzione de La torre d’amore evidentemente il mio approccio “carnale” al testo ha giocato un ruolo importante. La scelta delle parole è un processo delicato e nel lavoro traduttivo tengo sempre a mente questa cosa. Anche per questo parlavo di lettura ad alta voce. Non è solo questione di significato ma anche di significante. E della musica di questo significante. La poesia, in fondo, è musica.
Può diventare un’ossessione, la ricerca della parola giusta. Ma la traduzione – come la scrittura in genere – è un lavoro infinito, sempre in corso.
Cosa bolle in pentola per Sara Concato? Stai scrivendo? Traducendo? Possiamo sperare di leggerti presto?
Sara Concato scrive sempre. Traduce sempre. Non si può fermare.
Sara Concato sta lavorando affinché altre cose di Rachilde escano dall’oblio, cose meravigliose. Contemporaneamente sta scrivendo altro, nella speranza che diventi un libro.
E ha anche altre proposte in una cartella del suo pc alle quali non riesce a rinunciare. Per ora nessuno ha accolto questi semi.
Ci sono dei libri che consideri preziosi per il tuo lavoro su La torre d’amore, che ti hanno offerto un ritmo o un linguaggio di cui avevi bisogno per tradurre? E quali libri stai leggendo ora?
Nella traduzione di un testo letterario credo che entrino in circolo tutte le nostre conoscenze, si attivano delle reti, dei flussi, ed è tutto utile. E non solo le letture. Anche gli ascolti. Può servire anche il nostro bagaglio di ascolti musicali. Per quanto riguarda strettamente l’argomento del faro, ho letto un libro di Susy Zappa, Ar-Men. Un faro leggendario, che mi ha aiutata a capire molte cose, a trovare alcune chiavi.
E poi, Rachilde, altre sue opere. Proprio adesso sto leggendo altre sue cose meno note in cui torna forte la connessione con il mondo animale.
A dire il vero le mie letture sono sempre un po’ “rabdomantiche”. Come se andassi in giro con un sensore sempre attivo. Sto anche leggendo Le Théâtre et son Double di Artaud. E di García Marquez, L’autunno del patriarca, con le mie amiche del gruppo di lettura (ci piace leggere insieme). Ho sempre un libro di poesia sul comodino. Al momento Pane del bosco di Chandra Livia Candiani.
Rachilde, La torre d’amore (edizioni croce, 2024). Introduzione e cura di Marina Geat, traduzione di Sara Concato
Amanda Rosso
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