Nel suo ultimo romanzo Gli istrici, Valentina Di Cesare ci conduce nel cuore dell’Appennino abruzzese per raccontare le vite silenziose e ferite di chi abita i margini del mondo, e dà voce a una comunità dimenticata, attraversata da lutti, silenzi e piccoli gesti di resistenza. L’abbiamo intervistata
Di Amanda Rosso
Quello dello spopolamento dei paesi è un argomento doloroso e complesso: le vite di chi parte e chi resta non sono bozzetti a colori pastello su cui proiettare le nostre aspirazioni, delusioni e fantasie, ma scelte a volte dolorose, combattute, ma mai uniformi. Anche Gli istrici, di Valentina Di Cesare pubblicato da Caffèorchidea, si mette in dialogo con le vicende di personaggi e personagge che, per ragioni diverse, conservano una relazione molto eterogenea con le origini e l’appartenenza.
Il romanzo è ambientato in un piccolo paese appenninico segnato dallo spopolamento e dal lento scorrere del tempo, in cui si intrecciano le esistenze di personaggi che rappresentano le diverse stagioni della vita e dell’anno, in un racconto corale che esplora il senso dell’appartenenza, della memoria e del cambiamento.
L’autunno è abitato da Francesca, donna sola e prigioniera del lutto; l’inverno appartiene a Vittorio, chiuso nella routine e nel rimorso; la primavera sboccia con Doì, artista giapponese che porta uno sguardo nuovo e nuove prospettive; mentre l’estate si accende attraverso Carla, una bambina che cerca risposte in una famiglia in crisi. Con una scrittura sensibile e poetica, Di Cesare compone un affresco emotivo di una comunità in trasformazione, dove ogni personaggio è una voce del paesaggio, burbera, furiosa, immaginifica, fragile e autentica.
Cara Valentina, comincio con il chiederti di raccontarci l’ispirazione del romanzo, e anche il suo viaggio, per così dire, editoriale…
Il romanzo trova ispirazione a casa mia. Sono nata a Sulmona ma sono cresciuta a Castel di Ieri, un piccolo paese della Valle Subequana, nell’Abruzzo interno aquilano. Lì ho vissuto stabilmente fino alla fine delle scuole superiori. Già quando ero bambina, il paese non arrivava ai cinquecento abitanti. Il centro storico era costellato di case disabitate, porte sbarrate e piccole strade senza neanche una persona che vi transitasse. Erano ancora vive molte persone anziane e quindi l’abbandono non era ancora propriamente compiuto, soprattutto perché si potevano ancora ascoltare le loro testimonianze. Noi nati tra gli anni ’80 e 90 siamo stati gli ultimi a poter frequentare la scuola dell’infanzia e primaria in paese, a noi è stata riservata la conoscenza (seppure parziale) dell’ultima scia di una civiltà al tramonto. Dunque, tutto quello che ho narrato ne “Gli istrici” è semplicemente vissuto. Sono andata a recuperarlo e non ho dovuto faticare granché poiché era perfettamente nitido nella mia memoria. Sin da piccola ho subito tutta la portata e il fascino tragico di questi luoghi ed è su di essi che si è costruito il mio immaginario “artistico”.
Gli Istrici racconta le quattro stagioni di un paese attraverso quattro sguardi: Francesca, l’autunno, Vittorio, l’inverno, Doì, la primavera, e Carla, l’estate. Sono personaggi molto diversi ma sono anche esperienze del paese molto diverse. Trovo che ci sia nel tuo romanzo una prospettiva interessante rispetto alla narrazione del paese come entità fisica, emotiva, ma anche politica: i tuoi personaggi non sono solo i restanti, per citare l’antropologo Vito Teti, ma sono anche i nuovi abitanti, coloro che non sono nati in paese, ma che lo hanno trovato, o ci si sono ritrovati a vivere…
Anche da questo punto di vista non ho dovuto inventare niente, è stata la realtà a offrirsi. Incorniciare la vicenda umana di ognuno dei protagonisti in una determinata stagione è stato il modo per infiltrare la natura e i suoi mutamenti in ogni loro movimento, al fine di imprimere nel lettore i colori di ogni periodo dell’anno, i cambiamenti atmosferici, gli odori. Questo perché il paesaggio non poteva limitarsi, per come avevo pensato la storia, a essere semplicemente descritto, doveva raccontare anch’esso, come fosse un personaggio. Rispetto al restare in un luogo o all’andarsene via, le variabili sono infinite, dipendono da tanti, troppi fattori, in primis quello storico-sociale. In questo caso ho tentato di aprire quattro sguardi differenti sul tema, per offrire al lettore altrettanti punti di vista diversi, che spesso nella storia coincidono con momenti della vita opposti o anche con situazioni di partenza decisamente distanti. Mi sono accorta che amo la coralità, la fusione, nella vita come nella scrittura; quindi, quando scrivo non riesco a rinchiudermi in un solo punto di vista. Spostandomi su più sguardi ho l’illusione di avvicinarmi maggiormente all’unicità e insieme all’universalità di ogni esperienza umana.
Gli Istrici è anche un racconto di difficoltà, di lutto e mancanza, ma anche difficoltà a relazionarsi, a trovare le parole, a navigare il trauma. In un luogo dove ci si conosce tutti, sembra paradossalmente ancora più difficile incontrarsi…
Amo visceralmente i luoghi in cui sono cresciuta, e ci sono voluti anni per trasformare questo grande sentimento in una storia a essi dedicata. Nei miei tre romanzi precedenti, tra le righe, ho fatto continui riferimenti a certe dinamiche, ma non era ancora pronta per raccontarle integralmente. Ho dovuto allontanarmi molto dai miei luoghi, non solo fisicamente, perché solo così sono riuscita a ottenere la giusta distanza per raccontarli. Quando ho capito che il sentimento si era fatto più lucido e meno idealizzante di quello che provavo in passato, ho iniziato, a scrivere provando a mettere in questo romanzo alcuni dei grandi archetipi umani. Volevo (e non so se ci sono riuscita) che Gli istrici fosse una dolorosa ballata sulla finitezza della vita, una specie di meditatio mortis sull’ineluttabilità del tempo, che raccontasse l’incapacità tutta umana di conoscere, affrontare e dunque addomesticare la propria bestia interiore, di aprirsi di più all’incontro con l’altro, di trovare le parole per parlare a se stessi e poi al resto del mondo.
C’è una freschezza di sguardo nel raccontare lo svuotamento dei paesi da parte di chi ci vive senza demonizzarli, descriverli come luoghi di rovina e abbandono, ma neanche idealizzarli, come alcune narrazioni nostalgiche di ritorno alle radici a volte fanno…
Non è un mistero che, in un’epoca come quella che viviamo, siamo sommersi oltre che dal personal branding anche dal place branding. Si narrano le caratteristiche e i valori di certi territori per renderli riconoscibili, e anche accattivanti. Sui paesi il rischio è quello di impacchettarli come oasi di pace, tranquillità e natura incontaminata a buon mercato, tacendo sul rovescio della medaglia che c’è, e in certi luoghi più di altri. Dal mio canto io ho solo narrato una storia, senza la presunzione di dimostrare niente anche perché la letteratura, a differenza di altri campi, è davvero il “luogo” della libertà. In virtù di questo assunto non difendo teorie di nessun tipo ma non ho nemmeno remore o paure nell’affrontare certe questioni decisamente poco confortevoli, poco comode che la coscienza e la consapevolezza non possono permettersi di eludere.
Il paese non è sospeso nel tempo e nello spazio. Attraverso il lutto di Francesca e l’incendio di un capannone fuori dal paese, la realtà si fa protagonista prepotente: i morti sul lavoro, lo sfruttamento dei braccianti agricoli, la precarietà e la crisi economica attraversano le vite dei personaggi e contribuiscono ad arricchire il quadro…
Il paese de Gli istrici è un luogo tanto bello quanto inospitale: alterna le sinuosità e le sorprendenti bellezze naturali con la durezza della sua essenza. Un luogo primitivo, ancestrale, che palpita di non detti, sofferenze, miserie, rassegnazione. Pur essendo remoto rispetto ai grandi centri economici e di potere, la modernità con tutte le sue conseguenze giunge anche lassù, e si manifesta bizzarramente in tutte le sue contraddizioni. Ogni cosa accade anche in quel piccolo villaggio, ma resta ingoiata dal silenzio e dalla sopportazione che tutto ammansisce e che insieme, tutto distrugge. Nei luoghi dove i conflitti sono taciuti non si può crescere, non si può progredire. Nei luoghi dove si tollera senza requie, dove non si affronta niente non c’è spazio per il cambiamento, e il cambiamento è la costante di tutto ciò che è in vita.
Ho appezzato molto la prospettiva anti-antropocentrica di Istrici. Tu scrivi «E i muschi stessi, non erano vita? E le erbe mute agli angoli, il terriccio in qualche vecchio vaso, lì di vita ce n’era eccome, la morte perdeva la sfida. Non è che se non ci sono donne, bambini o uomini la vita non esiste, pensò.» Il paese si svuota di persone, ma la flora e la fauna restano, e rivestono un ruolo centrale nel romanzo…
Non so cosa accadrà tra cento anni a Castel di Ieri e alle centinaia di piccoli paesi semi-abbandonati d’Italia o di altrove, ma quando provo a immaginarlo non posso che considerare anche la possibilità che diventino luoghi fantasma. Non tutte le persone di questo mondo moriranno col dubbio che i loro luoghi d’origine potrebbero non avere un futuro, credo che si tratti di una sensazione molto difficile da spiegare in poche battute. Una morte nella morte, ecco… Eppure noi esseri umani non siamo che la comparsa più recente di tutte le creature di questo pianeta.
Letterate Magazine è una rivista letteraria ti chiedo: ci sono libri, autori o autrici che ti hanno accompagnata nella stesura del romanzo? E cosa legge ora Valentina Di Cesare?
Mentre scrivo non leggo mai niente perchè mi “distrae” quindi quando ho scritto Gli istrici ho fatto altrettanto. Nella fase preparatoria (quando ancora non scrivo ma piuttosto rimugino intorno all’idea e mi faccio pervadere da essa per “preparare il terreno”) ho letto Peter Handke e Tomas Transtromer, Antonella Bukovaz, Angelo Maria Ripellino, Nina Cassian, tutti poeti. Noi che scriviamo in prosa abbiamo bisogno di leggere tanta poesia, secondo me. O perlomeno a me fa bene, credo faccia bene alla mia scrittura. Negli anni ho capito che quando inizia a nascere un abbozzo di quel che poi diventerà romanzo, produco qualcosa di breve, un racconto, che indaghi sui temi che poi saranno quelli centrali del romanzo. Mi serve per “sfondare” la nuova porta, per capire se sono pronta a fare il passo avanti.
Sei stata anche co-curatrice, assieme a Michela Valmori, di una bella raccolta di racconti di donne della diaspora italiana, E c’erano gerani rossi dappertutto, che abbiamo recensito qui su LM. Quali sono i tuoi progetti futuri?
Con Michela Valmori dirigo la collana editoriale Strade dorate per Radici Edizioni e l’antologia da te menzionata è stata la prima uscita della collana. Il volume, pubblicato sia in italiano che in inglese, ha ricevuto molta attenzione da parte di un pubblico internazionale, sia esperto (dunque accademico) che non. Per noi è stata una grande soddisfazione perché desideravamo portare al centro la narrazione della nostra diaspora, spesso relegata ad argomento di serie B, e renderla fruibile soprattutto ai non addetti ai lavori. A fine anno uscirà una nuova antologia, che vedrà insieme per la prima volta autrici e autori di origini italiane provenienti da molti paesi, dall’Australia all’Uruguay, dalla Francia all’Argentina fino al Canada e autrici e autori italiani ma di origini straniere, dal Marocco alla Somalia, dalla Cina all’Albania. La diaspora italiana e quella italofona in un dialogo diretto, allo specchio delle rispettive esperienze, per capirsi, per parlarsi, per conoscersi e riconoscersi
Valentina Di Cesare, Gli Istrici, Caffèorchidea, 2025
Amanda Rosso
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