In C’è un’altra! Carola Susani assume la condizione umana come luogo da cui guardare il mondo, il tempo e l’accadere. E se nella prima parte di questa sua prima raccolta poetica narra le incertezze e le fragilità del cammino, lungo la seconda e la terza accetta d’essere piccola parte, minima, di qualcosa di incommensurabile e misterioso
Di Gabriella Musetti
«C’è un’altra /che mi cammina accanto / e non è vera» è l’incipit della prima poesia di questa prima breve raccolta di Carola Susani. «Quando ha dato inizio al movimento c’ero, / sulla spalla di Dio esplosivo, / discreta come pulviscolo» è l’inizio dell’ultima. Tra questi due spazi liminali si svolge il percorso di scrittura che dà vita a un climax sotteso alla composizione, una costruzione architettonica essenziale e ben individuabile nelle tre parti scelte a indicare una direttrice.
Quando una scrittrice già affermata dà vita, dopo molte prove narrative, a un iniziale lavoro poetico ci si interroga sul come questa modalità particolare sia emersa, forse coltivata nel tempo, ma nascostamente o privatamente e perché sia venuta alla luce in questo preciso tempo. Sono domande non facili da affrontare. Come per alcune narratrici forse la poesia è un luogo di accompagnamento interiore alla espressività e anche un luogo di ricerca, di esplorazione di sé. Compariamo la poesia iniziale a quella finale: nell’incipit si parte da una cancellazione dell’io soggettivo come poco rilevante, l’autrice parlerà dell’altra, quella non vera ma più interessante, che ha una «vita segreta» che vale la pena raccontare, mentre l’io soggettivo «non ha misteri». È evidente che questo sdoppiamento e sostituzione è un gioco cólto, e non a caso il titolo della prima sezione è: I. Sonno, luogo di ampi richiami letterari che alludono al nascondimento, alla percezione di minimi dettagli, alla immaginazione a confronto con la realtà, alla visione che va oltre.
Qui si colloca il discorso d’amore, anche quello sbagliato, disequilibrato tra la propria inconsistenza palpabile e l’abbaglio luminoso del soggetto d’amore (soggetto e non oggetto come manifestazione di quello squilibrio). «Il tuo nome è una porta che non conduce a te / è un totem collettore, sinonimo / di amore: un trampolino; il codice / dell’altra dimensione, celeste e fertile, / se non felice». E anche se l’ironia dell’autrice riesce a individuare il «sacchetto d’ossa dentro al maglione liso», la forza della visione numinosa fa sì che l’evento «buchi il tempo / e mi strattoni verso l’adolescenza / proprio la mia, se fosse stata bella». Poi nel tempo che scorre il delirio si esaurisce e il commiato da questo amore riprende gli stilemi della poesia amorosa medievale con la preghiera all’Alba di tardare, per non mettere presto fine all’incontro notturno: «Trattieni / la notte / gioiosa dell’assenza / Zittisci l’allodola / Già sorge / il consueto brullo / E io perdo / L’ombra lucente del non», anche se in questa lirica si tratta di un’assenza e non di una presenza, capovolgendo il dettato medievale. Ma anche l’esplorazione di un’assenza nutre l’energia vitale.
La seconda sezione, II. L’ospite, tratta delle relazioni parentali, amicali, di vicinanza, di affetto, dei tempi passati. Si apre ancora con un richiamo all’“altra”, quella più vera, e ai temi di verità e falsità, combinazione, ambiguità. In questa sezione sono molti gli incontri, molte le persone convocate, vive e morte; l’attesa dell’ospite, per chi si prepara a riceverlo, è un dovere morale. Ma l’ospite si adatta a ogni situazione, è tollerante, comprensivo. Una grammatica dell’ospitalità necessita di parole adeguate, non convenzionali, ardite e anche fuori luogo, con spostamenti dello sguardo che illuminano un dettaglio pregnante, come «Quel cavaliere che era anche / il cavallo», dove emerge il rapporto con il divino da cercare nella vita quotidiana, e l’ospite atteso e anche invitato assume questo ruolo. In questa sezione si mette a fuoco la figura del padre e tutta una stagione di lotte, di canti, di speranze civili che avranno vita breve, ipotesi già intuita dallo sguardo di bambina che osserva le ingenuità degli adulti. E quando l’ospite arriva davvero non ci sarà un vero incontro ma solo un benevolo sorriso da lontano, come a suggellare una nostalgia incompiuta.
È una parte piena di allusioni, sentimenti privati e civili che si mescolano, forze non veramente contrastanti ma molteplici e diverse che esistono insieme, come quando si osservano scrupolosamente da vicino le vite delle persone. Anche i morti si affacciano alla porta dei viventi, la volontà si intrica con la non volontà. E la citazione «Alzate l’architrave carpentiere» che riprende un frammento di Saffo che annuncia l’arrivo dello sposo bene si lega al racconto di J. D. Salinger, dal medesimo titolo, che narra un matrimonio mancato. Nella quotidianità dei gesti si ricompongono i frammenti divergenti della vita, come ascoltare le voci dei morti che si palesano in cucina, perché «Niente è perduto / ma niente è guadagnato: / tutto è ancora com’è sempre stato». Pensiero che non è nichilista o cinico, ma pacata e consapevole accettazione del mondo, per come si mostra.
La terza sezione, III. Trionfi (senza articolo), chiude il discorso riproponendo alcuni temi. Qui entra in scena la Storia, le civiltà passate, la memoria e il tempo, la responsabilità individuale. Si dilatano i confini e si con-fondono in una visione cosmica che colloca il soggetto parlante su un piano quasi esterno, insieme nel tempo e fuori dal tempo, da cui osservare i movimenti della evoluzione universale, concentrati in un’azione minima: «eco dell’esplosione primigenia, slancio / anticipazione della fine: / vi tengo, tutti insieme, /nella tazza di vetro, la mattina». Entra in scena anche l’essere femminile con la cura dei gesti quotidiani di accudimento della vita, della sopravvivenza umana, capaci di fondare le civiltà.
In questa ultima parte accade qualcosa che sembra chiudere il cerchio: da una semplice immagine di quotidiana colazione in cucina l’autrice si apre a considerazioni che la proiettano in un disegno grandioso, qui il soggetto è presente addirittura nel momento della prima creazione dell’universo: «Quando ha dato inizio al movimento c’ero, / sulla spalla di Dio esplosivo, / discreta come pulviscolo /emettevo un lungo verso». Non l’hybris della potenza assoluta di faustiana memoria, della eccezionalità o presunzione, ma riconoscendosi una infima particella dell’universo, pulviscolo, il soggetto può partecipare, fino alla fine della storia, della viva materia nei suoi mutamenti. Dopo aver invidiato forme di vita vegetale e animale, cosiddette innocenti perché «senza storia» Susani assume la condizione umana come luogo prezioso da cui guardare il mondo, il tempo e l’accadere. È una dimensione diversa da quella individuata all’inizio della raccolta, con la scissione interiore e le numerose incertezze e fragilità del cammino. Ora l’accettazione consapevole, maturata nel tempo, d’essere piccola parte, minima, di qualcosa di incommensurabile e misterioso che sovrasta e contiene è un pensiero pacificante: «Seduta al tavolo della cucina / bevo il caffè sotto la polvere / lucente e ascolto. // Quando avrà termine il movimento, / il suono si spegnerà /e sarò ferma».
Carola Susani, C’è un’altra!, ed. Marietti1820, Bologna, 2025
Gabriella Musetti
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