“Violenza e utopie” è il titolo del convegno organizzato a Firenze dal Giardino dei Ciliegi e dalla Sil. Se il potere vuole costringerci al silenzio tramite la paura, quali pratiche mettere in campo contro la sopraffazione? «Ci sono fessure nel potere e brecce di resistenza», ha ricordato Clotilde Barbarulli
Di Barbara Bonomi Romagnoli
Potente. È l’aggettivo che più è risuonato nei commenti finali, o riparlandone poco dopo fra amiche, a chiusura della due giorni che si è tenuta a Firenze il 30 novembre e 1° dicembre scorso, dal titolo “Violenza e utopie”, con l’idea, come suggerito nell’invito dalle promotrici, che “se nell’oggi, infatti, il potere vuole costringere tutt* nello spazio soffocante della paura, impedendo sogni in avanti, emerge una speranza disubbidiente, che fa uscire dall’afasia suscitata dallo smarrimento per questo mondo in cui non si è scelto di vivere: le varie pratiche di opposizione al sistema del dominio e della sopraffazione, cogliendo i germi di ciò che nella realtà odierna ha possibilità di divenire, contrastano così cinismo e indifferenza e aprono alle utopie”.
Un incontro potente, che ha visto al Giardino dei Ciliegi, vecchie conoscenze e nuovi incontri, da Federica Stagni e Sara Visintin a Angela Gennaro e Cecilia Ferrara insieme a Luca Rondi e Stefania Prandi; da Francesca De Masi e Cristina Baldi a Tiziana Dal Pra con Graziella Priulla; da Amanda Rosso, Elisa Coco e Nicoletta Vallorani a Gianni Petiti, Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi. Con l’intermezzo poetico artistico di Saba Anglana e le sue meraviglie. Il tutto come sempre magistralmente introdotto da Clotilde Barbarulli – a ricordare che ci sono “fessure nel potere. E ci sono le brecce della resistenza e della liberazione, le soglie di confini da attraversare, per mondi paralleli dove vivere libere e preparare le rivolte” – e con l’aiuto nel coordinamento dei panel del resto del gruppo delle promotrici: Barbara Bonomi Romagnoli, Giada Bonu, Elisa Coco, Laura Marzi, Antonella Petricone.
Perché potente? Perché prima di tutto è stato un lavoro collettivo quello che ha permesso di tornare a ragionare insieme su come “fare mondo”, sulle orme di Liana Borghi, e perché lo si è fatto tenendo insieme ritmi e linguaggi differenti e, fra le tante suggestioni, il dolore e il desiderio.
Il dolore per le guerre in corso, con uno sguardo particolare rivolto a Gaza e alla Palestina per l’invisibilità delle donne che lottano per la libertà loro e della terra che abitano, cercando la pace nonostante tutto; ma anche il desiderio di una casa internazionale delle donne tutta da costruire per avere uno spazio proprio in cui ritrovarsi (Stagni e Visintin).
Il dolore delle madri lontane che subiscono violenze nei nostri campi o nelle nostre case accanto ai minori stranieri non accompagnati che sbarcano sulle nostre coste e di cui troppo spesso si perdono le tracce; ma anche il desiderio di prendersi il diritto di confrontarsi con le loro storie, di raccontarle perché si sappiano, perché il giornalismo ha il dovere di fare inchieste e di impattare sull’opinione pubblica (Prandi, Gennaro, Ferrara).
Il dolore dei CPR, del limbo e dell’attesa in cui sono costrette centinaia e centinaia di persone; ma anche qui il desiderio di trovare le parole giuste per dire quello che accade, senza sentirsi inadeguat*, perché, ancora una volta, il mondo deve sapere (Rondi).
E poi ancora il dolore della tratta, del processo di vulnerabilizzazione che subiscono le donne, delle mancanze nell’accoglienza, della cultura dello stupro e della violenza e femminicidio d’onore (De Masi, Baldi, Dal Pra, Priulla); e ancora qui, il desiderio di cambiare questo stato di cose, di provocare riprovazione sociale oltre che indignazione, di non aver paura di essere tacciate di islamofobia nel tenere separate le religioni dai femminismi.
E poi ancora ancora, il dolore degli stereotipi nelle immagini, troppo spesso minimizzati, e quello per le narrazioni utopiche non attentamente ascoltate (Coco, Vallorani), accanto al dolore per i piedi da curare, delle ferite da rimarginare nel corpo e nell’anima, specchio riflesso per noi privilegiati alla ricerca di senso o di società civile che agisca (Fornasir, Franchi, Petiti).
E, infine, una meraviglia di voce e canto, quella di Saba Anglana, che narra storie anch’esse dolorose, laddove negano piena cittadinanza o ingabbiano in sterili identità, ma che si trasformano in melodie magiche e liberatorie, dalla Somalia all’Italia, in un intreccio empatico capace di abbracciare il mondo.
Ed è proprio qui che il desiderio rilancia, potente, nell’idea che la fantascienza sia progettazione e non profezia, che condividere gli affetti è possibile coltivando anche una speranza disobbediente alle violenze quotidiane, cercando di recuperare il respiro, quel respiro indicato da Gumbs e ripreso da Barbarulli “per inannegare in un mondo che ci vorrebbe invece solo impigliat*, pres* nella sua rete: nell’odierno processo di sterilizzazione dello spazio democratico, abbandoniamo la nostra storia, «la traiettoria della schiavitù, della prigionia, della separazione e della sopraffazione» e cerchiamo invece nuove narrazioni e diversi immaginari aperti al cambiamento”.









Barbara Bonomi Romagnoli

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