Nel 1907, con la fondazione a Londra del Ladies’Alpine Club, le donne dell’alta società che scalano pareti possono ufficialmente dirsi Alpiniste. Lo scandalo di indossare pantaloni, il coraggio di creare cordate femminili e, con l’arrivo della guerra mondiale, di trasformarsi in infermiere e cuoche in quota. Il libro di Linda Cottino “Una parete tutta per sé. Le prime alpiniste: sette storie vere”
Di Luisa Ricaldone
Quella che per Virginia Woolf era una stanza, per le sette donne delle quali vengono qui raccontate le imprese è la parete di roccia, in un rapporto dentro/fuori che fin dal titolo esplicita l’impostazione del discorso. «Alle donne era richiesto un understatement al limite dell’autonegazione – scrive in apertura Linda Cottino nel suo Una parete tutta per sé. Le prime alpiniste: sette storie vere – ma per fortuna alcune alpiniste hanno voluto, e saputo, raccontare le proprie imprese e quelle delle loro colleghe, lasciando così tracce preziose al fine di ricomporre il mosaico dell’attività svolta dalle donne in montagna». Mosaico che l’autrice ricostruisce sulla base di ricerche d’archivio e nelle biblioteche dedicate. Sono donne dell’alta società che decidono di uscire dall’ambito domestico e familiare per esplorare le alte quote alpine e che dal 1907, con la fondazione a Londra del Ladies’ Alpine Club, possono ufficialmente vantare lo status di Alpiniste (a cinquant’anni dalla fondazione dell’omologo maschile che per statuto non accettava fra i propri componenti le donne). Non dimentichiamo che uno dei più noti arrampicatori di quegli anni, l’austriaco Paul Preuss, non perdeva occasione per affermare che le donne fossero la rovina dell’alpinismo, convinzione condivisa nel milieu maschile. Tanto più dunque la passione irresistibile per la montagna, per l’avventura e la fatica, per lo stare a contatto con la natura, e soprattutto l’alpinismo delle donne diventa una dichiarazione di indipendenza, un modo di essere e di stare al mondo, una forma di femminismo implicito che permette di acquisire forza, indipendenza di giudizio, autodeterminazione.
A scriverne è la giornalista, appassionata di sport di montagna, Linda Cottino che, non nuova a contributi di storia e letteratura alpinistiche, in queste pagine ridà visibilità a donne fino ad ora dimenticate. Ricordiamone i nomi: Meta Brevoort, prima esploratrice e pioniera sulla Meije nelle Alpi del Delfinato; Marie Paillon, la prima intellettuale della montagna e tra le prime a fare cordata femminile con la fortissima Kathleen Richardson; le sorelle Pigeon, con una prima al Monte Rosa; Elisabeth Aubrey Le Blond, fondatrice del Ladies’ Alpine Club, e la francese Micheline Morin. Esse appartengono a «quella età dell’oro» dei primi anni del Novecento in cui furono pioniere del mountaineering, «l’arte di andare là dove il terreno si fa insidioso, dove bisogna affinare tecnica e capacità di giudizio, dov’è necessario saper soffrire; ma dove si viene ripagati dalla bellezza selvaggia e incommensurabile della natura d’alta quota».
Le testimonianze che restituiscono i percorsi, le difficoltà, le emozioni, le bellezze dei luoghi e le numerose prime, in cordate anche tutte femminili (dal Monte Rosa, al Bianco, dalle cime dell’Engadina alla Aiguille d’Arves, a molti altri luoghi celebri per le scalate) si distinguono per una narrazione da cui emergono atteggiamenti di modestia e insieme di consapevolezza e orgoglio delle proprie capacità e del proprio coraggio. Ciascuna alpinista impegnata in parete riconosce l’energia mentale oltre che fisica e la preparazione tecnica che talora «fecero correre i brividi di invidia e di nervoso lungo la schiena di molti gentleman dell’Alpine Club». Scrive Mary Paillon: «nell’infinitamente piccolo della donna che sono, cercare di dar vita a capacità negate o tenute nella gabbia del recinto domestico mi ha reso rivoluzionaria agli occhi del mondo – sì, una rivoluzionaria».
Inutilmente cercheremmo nei vari racconti tracce di quella retorica epica ed eroica che ha mediamente contraddistinto la scrittura degli alpinisti uomini. Viceversa vi si riscontrano descrizioni piane, oggettive, appassionate ed entusiastiche, e là dove le difficoltà si fanno ardue, più che indugiare nella loro descrizione si sottolineano le modalità per uscirne. Sono tali e tanti gli esempi che occorre davvero leggere il libro per rendersi pienamente conto delle differenze.
Si sa dell’importanza dell’abbigliamento in montagna, e in quegli anni per le donne era d’obbligo la gonna. La neofita Elisabeth Aubrey Le Blond, che praticò la montagna sotto vari nomi – che erano poi i cognomi dei tre mariti con i quali contrasse matrimonio – la prima volta che affrontò una ascensione improvvisata, calzava stivaletti con il tacco e, non essendosi mai messa le scarpe da sola perché era la cameriera a provvedere, ebbe difficoltà, partendo dal rifugio, a riconoscere la scarpa destra dalla sinistra. La sua passione per la montagna fece scalpore nel suo entourage e una vecchia zia telegrafò alla famiglia denunciando lo scandalo del colore abbronzato della donna «like a Red Indian». E fu proprio lei una delle prime a adottare l’abbigliamento maschile, in modo per così dire segreto, portando sopra i pantaloni alla zuava una gonna che toglieva all’inizio della scalata e rindossava al termine della discesa.
Una nota di colore, tenera e affettuosa, è data da una scalatrice d’eccezione, la cagnetta Tschingel che, addestrata, non solo saliva dappertutto, ma in alcune occasioni era stata di aiuto nel ritrovare la strada tra i crepacci.
Data la situazione venutasi a creare con l’avanzamento della guerra anche in montagna, si capì immediatamente che non era più possibile andarvi per sport e divertimento. A quel punto le donne si mobilitarono portando aiuto sul campo come autiste, ausiliarie medico-infermieristiche, persino inventando una cucina da campo motorizzata in grado di avanzare su terreni impervi e scoscesi e anche organizzando momenti di svago. A guerra finita, alcune come Lizzie Le Blond per l’Engadina, divennero pioniere del turismo.
Un romanzo o un saggio, ci si potrebbe legittimamente domandare: l’una e l’altra cosa insieme, un libro che getta luce su una parte dell’alpinismo rimasta in ombra, che «dietro l’esteriore invisibilità, nasconde vivacità, interessi, spinte di libertà, tensione per la sfida e l’avventura, desiderio di conoscenza, oltre a una inusuale capacità di uscire dal microcosmi delle altezze per mettersi in relazione con il “mondo di sotto”».
Linda Cottino, Una parete tutta per sé. Le prime alpiniste: sette storie vere, Bottega Errante Edizioni, Udine 2024, pp. 171, 17 euro
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Luisa Ricaldone

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