La scoperta del corpo e del sesso, la madre apprensiva, il padre ossessionato dall’igiene, le fughe, i nonni, l’aborto. Storia di una famiglia normale, oggi in Italia. Finalista allo Strega e vincitore del Premio Strega Giovani.
Di Manuela Altruda
A chi non è capitato di fare cose senza senso, come picchiettare un numero preciso di volte – un multiplo di due o di cinque tendenzialmente – il bordo del letto o il cassetto del comodino, oppure chiudere e riaprire l’armadio per controllare che in una frazione di secondo non ci sia stata una sommossa di magliette e calzini – un nuovo Sessantotto in camera. Ci si ritrova di fronte a quell’armadio a chiedersi perché, in fondo è palese che si tratti di gesti senza né capo né coda, eppure continui imperterrita, sempre, e una risposta non c’è, nemmeno nell’armadio. Leggendo Niente di vero di Veronica Raimo ci si sente meno soli, almeno in queste piccole storie di ordinaria ossessione.
Il romanzo, nella settina in corsa per il Premio Strega di quest’anno e già vincitore del Premio Strega Giovani, è sì la storia di una famiglia, ma anche un racconto non molto romantico di come nasce una scrittrice. «Abbiamo passato l’infanzia chiusi in casa a romperci le palle», un riassunto lapidario di quei pomeriggi trascorsi a osservare gli altri bambini fare cose da bambini veri e insieme al fratello Christian un po’ invidiarli. E cosa c’entra la noia con la scrittura, ci si potrebbe chiedere. La risposta è molto semplice perché la noia ha a che fare con l’inventare storie per sopravvivere a quella condizione di stasi imposta da genitori a loro modo patologici: un padre con la fissazione per l’igiene e i pericoli, una madre che non sa opporsi al marito e che nel tempo diventa campionessa di messaggi e telefonate nei momenti meno opportuni. In quei pomeriggi Verika, protagonista e voce narrante, si convince che la realtà può essere contraffatta per tornaconto personale e solo dopo qualche anno si renderà conto che quella contraffazione può essere – non lo è necessariamente – una solida base per la scrittura. Tra l’altro, mentre sta lavorando a questo romanzo ne invia una bozza al fratello, scrittore anche lui ma tendente al politico, e scopre che è intenzionato a scrivere un romanzo sulla loro famiglia. Lei si infuria ma in fondo lo sa che nel mondo editoriale, definito come «altamente contaminante e in via di cambiamento tribale», ci sarà spazio per entrambi: stessa storia, due punti di vista.
Tra le pagine di Raimo si percepisce un’impellente necessità di evasione, mentale e fisica in senso stretto. Confinata da sempre tra le quattro mura di casa – che in questo caso non sono quattro ma molte di più perché il padre ne ha costruite svariate di pareti nel loro già soffocante appartamento – Verika è sempre più insofferente. E allora arriva la letteratura, la scrittura e, più tardi, Berlino.
In Niente di vero l’autrice racconta la storia di una famiglia – forse la sua, ma non importa, è una famiglia come tante, lati positivi e stranezze incluse, ed è questo che conta – la nascita di un lessico famigliare, il percorso di accettazione di una bambina, poi ragazzina, e infine donna. Verika conosce il senso di inadeguatezza del corpo e della mente, ma soprattutto impara a riconoscere la vergogna: quella spiegata in esergo con le parole di Ursula K. Le Guin – «Diventi rossa per la rabbia, ti ammutolisci e cerchi di fartene una ragione. Devo in parte ringraziare Robert per il profondo rispetto che nutro verso la vergogna come strumento sociale».
«A pensarci oggi mi meraviglia la velocità con cui mi accadevano gli eventi. La mia scoperta del sesso, la scoperta dei corpi, persino quelli alti, la scoperta che non solo i padri tradiscono, la scoperta di un’altra città, che sarebbe rimasta per sempre un luogo in cui tornare nelle fughe imperfette della mia vita».
Verika inizia a scoprire il corpo durante le estati trascorse in Puglia dai nonni materni. Nonna Nuccia non è amorevole, non mette su un piedistallo la nipote – il nipote sì, anche per il suo modo di inzuppare il pane nel ragù bollente – e soprattutto ci tiene a ricordarle ogni volta che può che è inappetente, depressa e, cosa più importante di tutte, il suo seno è vergognosamente piccolo. Non entra nemmeno in una tazzina da caffè: uno scandalo. Quello di Verika, insomma, è il ritratto di una nipote ingrata. In Puglia si accorge che un seno scoperto può decidere il tuo destino: zio Carmine non soccorre una sconosciuta la cui maglietta è colpevole di essersi strappata dopo un incidente stradale; sua moglie non perdonerebbe il salvataggio di quella «sciagurata» che corre verso la loro auto in cerca di aiuto come un’amazzone ferita.
Durante una di quelle estati torride, Verika si trova per la prima volta di fronte alla morte. Lei e suo fratello accompagnano nonna Nuccia al cimitero di Foggia e piuttosto che fare domande cercano refusi nelle epigrafi delle tombe – a quanto pare per loro il metodo giusto è soffermarsi su altro, sempre. Nel romanzo il tema della morte viene affrontato insieme al deterioramento dei corpi. Quando il padre della protagonista si ammala ed è costretto a passare un lungo periodo in ospedale, lei fatica ad accettare che quel corpo non sarà mai più lo stesso. «Papà, ti sto proprio salutando», gli dice un giorno come se non volesse più vedere la sofferenza e quello fosse un funerale, un addio. Del padre conserva delle magliette, un orologio e una fotografia che tiene sulla scrivania e ogni volta che qualcuno si sofferma a guardarla le chiede chi sia «quell’altro». Quell’altro è un collega del padre ma a lei dispiace tagliarlo fuori dalla foto così inventa storie nuove per i curiosi. La malattia cambia la visione dei corpi di Verika tanto che comincia la fase del «voyeurismo berlinese»: trasferitasi nella città tedesca, d’un tratto si accorge di essere diventata un’attenta osservatrice di movimenti e linguaggi anatomici.
La riflessione sul corpo non riguarda solo la sua decadenza, ma anche la scoperta del sesso. Un percorso per niente lineare, fatto di incontri con esibizionisti che sbucano d’improvviso e di lettere pseudo-passionali scritte dal fratello all’attraente Isabella, di fughe d’amore ad Ascoli Piceno, Monaco di Baviera o Monteverde, e del dare per scontato che il sesso significhi necessariamente maternità. Francesca, madre apprensiva sempre pronta a inviare un messaggio ad amiche, parenti o autorità giudiziarie per assicurarsi che nessuno si sia ferito – «Ma poi “C’è Francesca al telefono” diventò davvero la nostra frase in codice quando avevamo la sensazione che qualcuna di noi stesse facendo una cazzata […] E comunque Francesca al telefono c’era sempre» – continua a regalare alla figlia completini e scarpette per neonati nella speranza di diventare nonna prima o poi. Verika non vuole figli, lo ha deciso da tempo e quando scopre di essere incinta decide di abortire. Quando torna in ambulatorio per un controllo trova ad aspettarla uno di quei medici che nessuna dovrebbe mai incontrare in una situazione del genere. «Non è così giovane, perché ha deciso di abortire?», «Non è mica una ragazzina, se non vuole un figlio, dovrebbe sapere come si fa a evitarlo», e ancora: «Sa che potrebbe essere stata la sua ultima occasione?» In Niente di vero Raimo racconta uno spaccato della società e della sanità pubblica contemporanea di cui forse si parla troppo poco e spesso male, di quei modelli in cui la donna viene ingabbiata ancora oggi – il matrimonio, la prole, fine – e che faticano a essere sostituiti dal principio della libertà di scelta.
Veronica, Verika, Ika, Erika, Oca, Scarafona. In apparenza donne e bambine diverse ma nella realtà versioni della stessa persona che ha imparato nel tempo a fingersi altro per sopravvivere alla solitudine accettando rappresentazione di sé inventate dagli altri. Verika siamo tutte noi che un po’ abbiamo provato a sopravvivere a genitori normali che facevano cose – nonostante tutto – normali, a innamoramenti drammatici da commedia anni Novanta, alla mancanza di qualcuno che ci tenesse le manine piccole e sudate mentre tentavamo con ostinazione di fare cose banali. A Verika si vuole bene come a quella piccola parte di noi con la quale spesso siamo state troppo severe.
Veronica Raimo, “Niente di vero”, Einaudi 2022
PASSAPAROLA:








Manuela Altruda

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