«Nemmeno allora potei sfuggire all’impressione che gli animali, sul conto nostro, la sappiano più lunga di noi, sul conto loro», scrive Gianna Manzini nella prefazione alla sua opera mettendo in chiaro come non ci sia superiorità, né da un lato né dall’altro, nel legame tra uomo e animale, anzi.
Di Manuela Altruda
«Ma c’è sempre stato un tema di fronte al quale mi sono impuntata. Il tema degli animali. Eh, questo no; questo, no. Questo lo salvo e lo salverò finché campo. È un regno. Non si può passarsela d’un regno».
In buona parte dei musei – d’Italia, d’Europa, del mondo – c’è sempre una sezione dedicata ai soggetti cosiddetti minori e relegati alla definizione di poco interessanti per i più perché ritenuti arte di qualità inferiore. Gli emarginati della storia dell’arte sono cibo e animali, coloro che non possono competere con epifanie, resurrezioni e miracoli. È davvero difficile che un amico, parente, conoscente consigli quell’artista perché ha dipinto un meraviglioso cesto di frutta – eccezione fatta per un certo Michelangelo Merisi – o un cane e un coniglio resi con grande maestria – eccezione fatta per un certo Albrecht Dürer.
Cani, gatti, cavalli, buoi, asinelli, mucche, pappagalli o volatili strambi sono stati immortalati non nella loro forma migliore e di solito le sale che ospitano i loro ritratti sono pressoché vuote. Eppure ognuna di quelle creature, bella o brutta o inquietante che sia, sembra guardare dritto verso il visitatore e volergli trasmettere una smania di raccontare. È molto buffo perché per gli animali, quelli in carne e ossa, spesso ci ritroviamo a pensare che sanno bene come comunicare pur non avendo capacità di parlare e, allo stesso modo, manca solo la parola a quei dipinti solo in apparenza statici e costretti in cornici barocche. A questo punto è abbastanza chiaro per chi negli anni ha sempre cercato un legame tra arte e letteratura – ut pictura poesis – che forse i bestiari sono nati proprio per riscattare e sopperire al mutismo dei dipinti nelle sale abbandonate.
Forse Gianna Manzini è stata frequentatrice di quella solitudine e magari tra qualche anno salterà fuori un diario, o delle lettere, in cui racconta le sue passeggiate nel Gabinetto dei disegni e delle stampe degli Uffizi e di quanto sia rimasta affascinata dai Due conigli di Jacopo Bassano e dal leone del San Gerolamo in un paesaggio italiano di Rembrandt. Perché leggere il suo Arca di Noè – tornato in libreria grazie al lavoro straordinario della casa editrice romana Rina Edizioni – equivale esattamente a questo: vedere materializzarsi animali veri, che davanti ai nostri occhi prendono vita e dialogano, si relazionano tra loro, raccontano una storia.
Gianna Manzini nasce a Pistoia il 24 marzo del 1896 da una famiglia agiata della borghesia cittadina. Dopo alcuni anni dalla sua nascita, i genitori decidono di separarsi a causa di divergenze politiche che si rivelano inconciliabili: suo padre Bruno è un anarchico, sua madre Leonilda viene da una famiglia conservatrice. La separazione dei genitori segna molto Manzini e più volte torna al senso di colpa provato nei confronti del padre che, dopo aver partecipato ad alcune operazioni contro il regime fascista, si reca in esilio volontario in un piccolo paese dell’Appennino pistoiese: lì muore in seguito a un’aggressione fascista. Dopo la separazione infatti, per proseguire i suoi studi, l’autrice si trasferisce insieme alla madre a Firenze dove si iscrive alla facoltà di Lettere. Qui conosce il suo primo marito, Bruno Fallaci, responsabile della terza pagina del quotidiano la Nazione, mentre comincia a dedicarsi alla stesura di racconti che già mostrano il piglio estroso e profondamente emotivo della sua scrittura.
Nel 1928 la casa editrice Corbaccio pubblica l’esordio di Manzini, dal titolo Tempo innamorato. Uno dei primi recensori del romanzo sarà Emilio Cecchi che definisce la scrittura dell’autrice «complicata e un po’ abbagliante». Anche Montale, all’epoca giovanissimo, la nota affermando che «ha fatto già molto e molto ancora può fare per il romanzo italiano». Non a caso nel 1930 è l’unica donna che Enrico Falqui ed Elio Vittorini scelgono per l’antologia Scrittori nuovi. Negli stessi anni, forse a causa del successo e della sua opera, Manzini si separa da Fallaci per trasferirsi a Roma insieme a Falqui. La relazione tra i due all’inizio pare burrascosa e l’autrice non riesce ad abituarsi ai ritmi frenetici della vita romana tanto da pentirsi più volte di aver abbandonato l’amata Firenze.
A poco a poco le cose si appianano e nell’immediato dopoguerra la coppia fonda la rivista Prosa. Nel 1945 esce Lettera all’editore che, secondo la critica, rappresenta il punto più alto del suo sperimentalismo narrativo: un’opera metaletteraria intrisa di metafore e lirismo. Nel 1956 esce La sparviera – il cui protagonista, Giovanni, soffre di una malattia polmonare ed è un alter ego dell’autrice – che vince il Premio Viareggio. Nel 1961 è invece Un’altra cosa ad aggiudicarsi il Premio Marzotto e nel 1965 lo sperimentale Allegro con disperazione il Premio Napoli. L’ultimo romanzo di Manzini è Ritratto in piedi, esce nel 1971 e nello stesso anno si aggiudica il Premio Campiello: è considerato ancora oggi il suo capolavoro e le conferisce fama e prestigio.
Negli anni la produzione letteraria di Manzini si arricchisce anche di testi brevi, soprattutto articoli per riviste e racconti. Oltre a Prosa, infatti, l’autrice collabora con diverse riviste coltivando – come la contemporanea Paola Masino – la sua passione per la moda. Diventa cronista del settore per il quotidiano Giornale d’Italia e poi, più tardi, per il settimanale Oggi. Tiene poi una sua rubrica fissa su La fiera letteraria, molto seguita e apprezzata, che firma con gli pseudonimi Vanessa e Pamela. In questi pezzi Manzini mostra un lato di sé più disinvolto, leggero e ironico.
Per quanto riguarda i racconti, è nel 1953 che esce la sua prima raccolta con il titolo Animali sacri e profani per l’editore Caini, poi ripubblicata nel 1960 da Mondadori come Arca di Noè. L’opera, notata da Pier Paolo Pasolini, fu il tramite per l’incontro con l’allora giovane autore che, di fatto, rappresenta una svolta nella sua poetica. Manzini infatti abbandona la prosa artificiosa, quasi barocca, sacrificando metafore e figure retoriche in favore di una scrittura più scarna.
In Arca di Noè la scrittrice indaga il mondo animale senza la pretesa di conoscerlo fino in fondo, ma con quella inclinazione alla curiosità necessaria per osservare senza preconcetti. Infatti i brevi componimenti non denunciano un intento pedagogico così come il genere della favola richiederebbe – fu lo stesso Pasolini a dire che «non hanno niente di moralistico in senso spicciolo, polemico e fiabesco» – né tanto meno una necessità di catalogare tipi e razze come nei già diffusissimi bestiari. Si tratta di intenzione narrativa pura, accompagnata da un lavoro metodico e viscerale sulla lingua. Cavalli, passerotti, una civetta ma anche una trota, e poi gatti, pecore, bovi e uccellini, una cetonia impazzita, delle ostriche, un leone, un falco, un cane: tutti sono ritratti con cura e rilegati in una di quelle cornici barocche usate per l’esposizione museale, quelle cornici che a volte ci fanno storcere il naso ma che poi riusciamo ad apprezzare come parte del dipinto stesso.
«Nemmeno allora potei sfuggire all’impressione che gli animali, sul conto nostro, la sappiano più lunga di noi, sul conto loro», scrive Manzini nella prefazione all’opera mettendo in chiaro come non ci sia superiorità, né da un lato né dall’altro, nel legame tra uomo e animale, anzi. Forse ciò che li unisce è un costante tentativo di comprendersi e convivere in una armonia possibile e auspicabile come appare evidente nei racconti «Il cavallo di san Paolo» e «Il sangue del leone» dove Manzini prende in prestito episodi storici per narrare di questa relazione ancestrale. Ma la somiglianza tra i due mondi non è solo legata all’anima – il presunto suicidio della gattina Romeo ne è un esempio malinconico e quanto mai efficace – ma anche alla morfologia tanto che Bambù il cane «vicino alla bocca, dove il muso si riduce a punta, pareva giovanissimo, quasi non finito di fare, molle debole: somiglia a certi abati cui non è mai nata la barba». Il punto di approdo della meditazione di Manzini è uno dei racconti finali intitolato «Allo zoo di Roma»:
«Ma ogni animale è una forma e un significato splendidamente raggiunto. E io penso che i loro visi siano così ben modellati dal di dentro, a causa delle parole cui hanno inutilmente anelato: tanti segreti mantenuti, tanti ragionamenti mai articolari. È nell’intensità della loro espressione che ognuno di noi trova uno speciale silenzio, uno speciale spazio: quello che rese sacro il gatto, la tigre o il serpente, o il pavone».
Come accade per certi dipinti, anche gli animali di Gianna Manzini appaiono vivi più che mai e dietro le loro vicende e peripezie si cela il vissuto intenso, a volte traumatico, dell’autrice stessa. Il funambolismo del linguaggio svela l’appartenenza al proprio tempo pur mostrando una modernità che, all’epoca come oggi, sorprende lettori e lettrici. La visionarietà delle immagini che Manzini riesce a tradurre in parole conferma quanto Giacomo De Benedetti scrisse di lei: «È riuscita a pronunciare parole che, fino all’attimo precedente, avevamo ritenuto impronunciabili. In tal modo ci può descrivere un visibile che anche noi dovremmo vedere, ma che da soli non vedremo mai».
Gianna Manzini, “Arca di Noè”, Rina Edizioni 2023
PASSAPAROLA: GRAZIE ♥
Manuela Altruda
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