Così Ernesto Ferrero definisce Morante, Ginzburg, Romano e Chichita Calvino, le uniche quattro autrici Einaudi citate nel suo prezioso saggio “Album di famiglia. Maestri del Novecento ritratti dal vivo”. Lui li ha conosciuti e pubblicati, i maestri. Ma dov’erano le donne dell’editoria e dove sono oggi?
Di Manuela Altruda
Lo scorso anno Ernesto Ferrero ha pubblicato un saggio intitolato Album di famiglia, il sottotitolo è Maestri del Novecento ritratti dal vivo (Einaudi, 2022). Per gli addetti ai lavori – ma non solo – l’autore è ben noto e molto amato. Nato a Torino nel 1938, si addentra nel mondo editoriale nel 1963 come responsabile dell’ufficio stampa di Einaudi. Alla fine degli anni Settanta, dopo poco più di quindici anni dal suo ingresso nella casa editrice di Giulio Einaudi, ne diventa il direttore letterario e, dal 1984 al 1989, il direttore editoriale. Tutto questo colloca Ferrero tra le schiere della vecchia guardia insieme ai più grandi: Calvino, Levi, Ginzburg, Pavese, Foa, Rigoni Stern, Vittorini e molti altri. Ma non si tratta solo di Einaudi: Ferrero è stato segretario generale di Bollati-Boringhieri, direttore editoriale in Garzanti e ancora direttore letterario di Mondadori. Non ultimo è stato direttore del Salone del libro di Torino dal 1998 al 2016, traduttore di alcuni romanzi di Louis-Ferdinand Céline – tra cui Viaggio al termine della notte –, e nel 2000 ha vinto il Premio Strega con il romanzo N. Insomma Ferrero ha vissuto la sua vita tra i libri durante quelli che si potrebbero definire, parafrasando uno dei suoi titoli più famosi, i migliori anni della nostra editoria.
Album di famiglia è un titolo meraviglioso e riesce a evocare bene il quadro del mondo librario passato e soprattutto quel “mito einaudiano” che tutti conoscono almeno in parte. Nell’introduzione al testo si legge: «Ho riaperto le grosse scatole dei ritagli, dei dattiloscritti, delle lettere e delle cartoline (che meraviglia era lo scriversi a penna, i colori degli inchiostri, la grana delle carte!). Lì dentro si sono depositati in disordine i pezzi di quello che è finito per diventare un romanzo famigliare. Storie intrecciate di una famiglia ramificata, bizzarra, sorprendente, eccessiva, dispera, perfino conflittuale, come tutte, ma straordinaria, coesa nelle stesse passioni nello stesso sentire».
Una famiglia quindi nella più semplice delle definizioni, con i suoi molti pro e i parecchi contro, in altre parole un nido, una grande casa dove «anche la tua piccola esistenza può acquistare un senso». Il grande merito di Ferrero sta nell’aver trasformato effigi scritte – una pratica che pare presa in prestito dal mondo dell’arte e il cui padre resta Giorgio Vasari con le sue Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori – in ritratti dipinti: ogni aneddoto, dettaglio o stranezza è un elemento che contribuisce a dare vita a un quadro e ognuno di questi quadri contribuisce alla nascita di una galleria tra i cui corridoi perdersi e meravigliarsi.
Eppure qualcosa non torna perché in una grande famiglia ci si aspetta la presenza di uomini e di donne e, in questo caso, si dà per scontata una presenza femminile dominante se in esergo leggiamo la dedica: «Alle donne di casa, l’anello forte». Tuttavia: dove sono le donne in questo libro, in questa parte di storia? Dov’è l’anello forte?
Una lettura dell’indice rivela che per trovare una delle «donne di casa» bisogna arrivare a pagina 160, fatta eccezione per una brevissima parentesi dedicata a Elvira Sellerio (in compagnia di suo marito Enzo). Insomma è solo a metà libro che si trova il capitolo intitolato “Le signore di ferro” dove si parla di Natalia Ginzburg, Elsa Morante, Lalla Romano e Chichita Calvino. Diciotto pagine in un libro che ne conta più di trecento.
Si tratta di quattro ritratti incredibili, fatti da chi quei legami li ha visti nascere e vacillare e che davanti al ricordo si commuove e fa commuovere: la lettera a Lalla Romano, autrice forse ritenuta oscura e ancora oggi apprezzata e capita davvero da pochi lettori; la quasi leggendaria pigrizia di Natalia che «sorrideva con parsimonia, non conosceva invidie, gelosie, calcoli, retropensieri» e che «se dava amicizia, era per sempre»; i pensieri di Elsa Morante «cantastorie anarchica che cantava solo per gli analfabeti, così cari al suo cuore»; e infine Chichita e il fardello dell’eredità calviniana, quella letteraria e quella morale.
Ferrero racconta, per esempio, di quando Natalia lesse per la prima volta il manoscritto di Menzogna e sortilegio che «aveva subito amato immensamente perché anche se sembrava un libro d’altri tempi produceva luminosità e generosità». Per la testimonianza più significativa da un punto di vista editoriale, Ferrero prende in prestito da Édouard Manet l’espediente del bar delle Folies-Bergère, solo che stavolta non siamo a Parigi a pochi passi da Rue La Fayette ma a Roma, in un caffè di Piazza del Popolo e, come l’osservatore del dipinto di Manet, il lettore guarda la scena attraverso lo specchio. È ottobre, sedute a un tavolino, complici e guardinghe, ci sono Elsa e Natalia. Stanno aspettando Ferrero stesso e sua moglie Carla: è il 1977, l’autore è diventato responsabile della redazione letteraria di Einaudi e la sua missione è riportare Natalia – che ha appena concluso un nuovo romanzo Famiglia – in casa editrice. Il problema è che sul tavolino di quel bar romano Ginzburg non mette il suo nuovo manoscritto, come Ferrero aveva sperato, ma quello di Carmelo Samonà. «Fratelli, così si intitola il romanzo, è proprio bellissimo» e secondo le due confabulatrici è perfetto per Einaudi. La pubblicazione del romanzo di Samonà è per Elsa e Natalia una piccola vittoria e quello che Ferrero ci racconta è la nascita di un libro straordinario.
In Album di famiglia ci sono molti altri episodi somiglianti all’esordio dell’autore siciliano e un lettore – appassionato di storia dell’editoria o meno – non può che ringraziare Ferrero per averli condivisi.
La questione però resta aperta: dove sono le altre donne di questa saga famigliare? Chi ha letto I migliori anni della nostra vita, sempre di Ferrero, o Colloquio con Giulio Einaudi di Severino Cesari, senza dimenticare le numerose lettere editoriali raggruppati in diverse raccolte, sa bene che tra i corridoi della sede torinese, e dopo in quelli della sede romana, si affaccendarono tra le altre Bianca Garufi e Ludovica Nagel. La prima fu segreteria generale dal 1944 al 1958, autrice di numerosi romanzi e traduttrice dal francese anche di Simone de Beauvoir – in particolare La force des choses uscito per Einaudi nel 1966 con il titolo La forza delle cose. Bianca Garufi rispose al telefono quando la seconda, Nagel, chiamò in sede e chiese di parlare con il capo del personale per ottenere un colloquio. Dopo poco tempo Ludovica prese il posto di Bianca come segretaria.
E ancora, andando oltre la vicenda einaudiana, mancano all’appello Anna Banti, la traduttrice fantasma Lucia Rodocanachi, Maria Bellonci, Alba de Céspedes, Marise Ferro, Silvana Mauri e perfino la futura moglie di Giulio Einaudi, Renata Aldovrandi. Renata entrò in Einaudi grazie a un annuncio che Cesare Pavese pubblicò su un giornale per trovare una segretaria. A soli 23 anni condivise con l’editore l’esilio svizzero durante la guerra. Bianca Maria Cremonesi, invece, tradusse La società feudale di Marc Bloch e spesso aveva il compito di redigere i verbali delle riunioni del mercoledì: «Qui tutto procede. Pavese si strappa i capelli e si mangia le dita. Mila è tornato con noi ed ogni tanto dice la sua». E poi tante altre che hanno lavorato sempre instancabili e zelanti.
Sempre in Album di famiglia, nel ritratto di Elsa Morante, compare poi Elena De Angeli: «La assisteva una redattrice vasta e rassicurante come una buona balia, Elena De Angeli, che si era specializzata nella gestione di autori complicati, Volponi, Arbasino, Eduardo, e sapeva essere tutto: sorella, amica, consigliera, segretaria, governante, badante. Passavano giorni a confabulare, a mettere a fuoco una parola, un aggettivo». Elena sembra avere un ruolo centrale in redazione ma di lei non conosciamo altro che le informazioni contenute in queste poche righe e l’elogio in un breve articolo del 2016 che le ha dedicato la casa editrice Lindau per aver scoperto l’autore e artista teatrale Sandro Lombardi.
Il caso di Elena De Angeli è un segnale evidente della necessità di saperne di più, a proposito del suo lavoro e di quello di tante altre. La galleria di ritratti di Ferrero è solo lo spunto per una riflessione molto più ampia che riguarda la storia dell’editoria tutta, e in particolare quella compresa tra il secondo dopoguerra e gli anni Settanta. Ad oggi sono pochi – si contano davvero sulle dita di una mano – quelli che si sono preoccupati di dare spazio al lavoro editoriale delle donne.
Una delle rare eccezioni è il prezioso volume a cura di Laura Di Nicola intitolato Protagoniste alle origini della Repubblica. Scrittrici, editrici, giornaliste e sceneggiatrici italiane in cui la studiosa raccoglie una serie di contributi dedicati al ruolo delle donne nel panorama culturale italiano dell’immediato dopoguerra. Di Nicola ha anche pubblicato un illuminante saggio sulla storia di Mercurio, la rivista fondata da Alba De Céspedes nel 1944 a Roma.
Quanto detto fino a qui, in conclusione, può essere racchiuso in poche righe prendendo in prestito i dubbi e le perplessità di Elsa Morante che si interrogava spesso sulla questione di genere: non si capacitava del perché fosse necessario parlare di scrittori e di scrittrici quando «l’unica cosa che conta è la scrittura, che non ha genere». Dovrebbe valere lo stesso per redattori e redattrici, editori e editrici, traduttori e traduttrici, e così via.
Ernesto Ferrero, Album di famiglia. Maestri del Novecento ritratti dal vivo, Einaudi 2022
PASSAPAROLA: GRAZIE ♥Manuela Altruda
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