L’amore tra Lui e Lei nasce come tanti altri: conoscersi, frequentarsi, amarsi, costruire, fino a decostruire. Possiamo considerarla sin da subito la cronaca di una morte annunciata? O forse in un primo momento nessuno si aspettava che andasse a finire così?
Credo dipenda a quale nessuno ci stiamo riferendo con questa domanda, sai? Io penso che il tentativo di costruzione dei due protagonisti sia un tentativo fatto in buona fede – anche perché, forse, aver fede nella solidità delle proprie costruzioni è l’unico modo di metter su una casa. Non sono sicura di poter dare per scontata la stessa cecità da parte del narratore, però: il noi che prende voce in tutta la prima parte del romanzo è ben consapevole del crollo, con la sua onniscienza un po’ monca (sa tutto quello che accade alla coppia perché è la coppia e allo stesso tempo se ne nutre). Sicuramente, nonostante questo, nessuno di loro è avvertito, né può evitare la rottura.
La polvere che respiri era una casa non è “solo” la narrazione di un rapporto di coppia, ma anche un romanzo sulla non-maternità, e la non-genitorialità in generale, e su come questa possa, in alcuni casi, cambiare ogni cosa.
È vero, anche se per me la non-genitorialità di cui parli rimane una metafora. Non perché io abbia preteso di scriverne con superficialità (spero), ma nel senso che quello che mi premeva non era impostare una riflessione sulla maternità o sulla genitorialità mancata e sul presente. Per me La polvere che respiri era una casa è un romanzo sulla capacità di concepire, di creare: una casa come un figlio, come una storia. Sono tutti gesti costruttivi, che in quanto tali implicano l’introduzione di un soggetto terzo (l’oggetto creato), l’uscita dalla coppia. Che quest’uscita si riveli fallimentare non è colpa del progetto in sé.
Infatti Lui e Lei loro sono comunque capaci di dare vita a qualcosa: una storia umana (la loro, e a prescindere da come vada a finire) e storie scritte (sempre le loro, ma pensate per qualcun altro).
In effetti sì. Non solo raccontano la loro storia, ma la loro storia continuerà a esistere e si evolverà anche dopo essere finita. Il lasso di tempo affrontato dal romanzo è sfilacciato ma è comunque un tempo chiuso, circoscritto; su questo tempo chiuso si innestano alcuni guizzi sul futuro di uno dei due protagonisti. Non è tanto per riscatto (suo) o per affetto (mio), forse è proprio per dire che il fatto che la loro storia sia finita non significa che non abbia portato a nulla, né che tutto finisca. Quello che accadrà è solo, appunto, un’altra storia.
Erba, fuoco, pietra, acqua sono gli elementi attorno a cui ruota tutto: la vita in generale quindi? Ma forse anche le fasi del processo creativo?
Potrei dire che pietra, erba, acqua e fuoco sono sicuramente i quattro elementi attorno a cui è ruotata la costruzione del romanzo, non solo il progetto di scrittura dei due protagonisti. L’impianto originale aveva una profondissima connessione con questi quattro elementi, e nonostante gli interventi e le riscritture l’abbiano molto diluita, i rimandi sono ancora presenti. Non è un caso che il libro si apra con la costruzione di una casa, prosegua con rigoglio e incuria, affronti l’alta marea e si chiuda con il fuoco.
«Noi che progettiamo il libro pensando a un bambino; noi che progettiamo il libro solo per non pensare al bambino». In questa frase sembrano racchiuse un po’ le intenzioni del romanzo: la scrittura che a poco a poco assume un ruolo determinante (salvifico in qualche modo?) e l’idea del libro per un futuro figlio che pare, almeno all’inizio, dover fare proprio questo, salvare Margherita e Riccardo dall’attesa, dal rischio della disperazione. Alla fine ciò sembra vero soprattutto per Riccardo e Acqua è «la prima cosa a cui vuole bene da un bel po’». Per Margherita invece cosa rappresenta Erba?
Poter raccontare una storia ha sicuramente un peso nel sopravvivere all’attesa, come dici, finché non diventa a un certo punto, per entrambi anche se in modi diversi, l’unica possibilità di dire la propria. Margherita e Riccardo riescono a parlare scegliendo di escludersi reciprocamente come ascoltatori diretti, riescono a parlare ma non a parlarsi. Come Acqua per Riccardo è molte cose (è volersi bene, è in parte anche una rivincita, affermarsi), anche Erba per Margherita è molte cose. Molto presto smette di essere una fiaba adatta a un bambino, non riesce mai a farsi confessione, però forse diventa un tentativo di spiegarsi, questo sì, nella misura in cui tutto quello che scriviamo in qualche modo ci spiega/ci dice.
A un certo punto c’è una frase molto bella che dice: «Un libro è come un bambino, la sua personalità deve ancora formarsi, può essere multipla». Quali sono le personalità di questo romanzo? Come lo avevi immaginato e come è cresciuto nel tempo?
Il primo progetto del libro è legato a due idee che sono rimaste: da un lato il noi un po’ particolare che uso nella prima parte del romanzo, dall’altro l’immagine di chiusura, l’idea del fuoco come elemento a cui è impossibile sottrarsi e che, soprattutto, è impossibile comprendere. Anche l’idea di resa dei conti finale, di viaggio da affrontare per poter finalmente dire qualcosa, era centrale nel primo progetto. Quello che mi ha stupito è stato vedere come man mano che andavo avanti attraverso le stesure il romanzo si sganciava da una dimensione più sospesa nel tempo e nello spazio e diventava sempre più realistico e quotidiano. È una caratteristica che mi ha sorpresa, ma che mi ha anche consentito di essere più umana, e di bilanciare meglio il rapporto tra la storia principale e i racconti presenti al suo interno.
Quando racconti del fuoco (senza fare troppi spoiler), fai riferimento all’iconografia classica della casa in fiamme e a un dettaglio in particolare: le tende. C’è qualche dipinto in particolare che ti ha ispirata? Io ho pensato all’Incendio di Borgo di Raffaello, ma forse è un riferimento troppo classico. E perché proprio le tende?
Sai che se penso ora a un quadro che abbia a che fare con un incendio, in effetti, vedo piuttosto grandi vedute di edifici, se non intere città, in fiamme? Potrei citare Turner, ma non funziona con l’immagine più specifica e domestica interna al romanzo. Forse nel mio incendio c’è qualcosa di più grottesco, se non cartoonesco, soprattutto per quanto riguarda la messa a fuoco (ops) sulle tende. Mi sembra di aver visto infinite immagini con tende pesanti troppo vicine a una candela o a una fiamma qualsiasi, e il fuoco che le mangia in fretta fino ad arrivare alle travi del soffitto. Come tutte le immagini che si sono sedimentate tanto da sembrarmi, appunto, un classico, hanno però contorni sfumati, si sovrappongono, non saprei citarne una in particolare.
La lingua, la scelta delle parole e di ogni singolo segno di interpunzione sono di una precisione quasi disarmante. Eppure non c’è mai niente di artefatto o forzato.
Grazie, è un complimento enorme, anche perché sono consapevole del fatto che il mio romanzo si regga più sulla lingua che sulla trama. Tra l’altro, è una caratteristica che ha gran parte dei libri che mi piacciono: come lettrice sono molto attenta alla sintassi, al fluire e agli schianti, alla componente musicale incantatoria che una pagina può avere; così come mi piace, tra l’altro, essere messa alla prova dalle scelte lessicali, imparare parole nuove mentre leggo, ammirare la puntualità delle definizioni. Sono un topolino destinato ad affogare dietro al pifferaio magico, mettiamola così. Se sono riuscita a fare almeno in parte lo stesso, ho una cosa in più di cui essere felice.
Sei caporedattrice e editor di una casa editrice che ha fatto della ricerca di nuove voci la sua missione. Ora tu sei dall’altra parte, non l’editor ma l’autrice. Quindi, esordire oggi: che significa?
È da qualche anno che lavoro principalmente con autori alla loro prima opera, è vero, e mi chiedo ora se la nuova consapevolezza che sto guadagnando come autrice esordiente mi consentirà di lavorare in modo più empatico, se questa empatia esisterà, se sarà un bene oppure no, se e quanto continuerò a scindere l’Eleonora editor e l’Eleonora autrice. Sono risposte che ancora non so dare. Dall’altro lato, credo che avere sempre percepito la scrittura come sottoposta alla lettura e al giudizio altrui, come autrice e come editor, mi stia aiutando a capire come muovermi. Sul significato di esordire, invece: forse l’unica cosa che volevo fare era raccontare una storia. Non so se basta, spero di sì.
Eleonora Daniel, La polvere che respiri era una casa, Bollati Boringhieri 2025
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Manuela Altruda

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