Una donna senza nome resta al di qua di una parete che la separa dal mondo morente degli altri umani. Ha una mucca, un torello, un cane, una gatta coi micini e si reinventa la via: ma c’è speranza? Il gruppo di lettura Sil ha letto “La Parete” dell’austriaca Marlen Haushofer
Di Marzia La Barbera
Inizio questa restituzione, come spesso mi capita, con l’intenzione di trovare una sola parola per descrivere La parete, della scrittrice austriaca Marlen Haushofer. Operazione faticosa, per un testo che forse proprio nella fatica trova la sua cifra stilistica. Pubblicato nel 1963 e accolto con discreto successo in Austria, dove vinse l’importante premio Arthur-Schnitzler, il romanzo finì poi quasi dimenticato fino alla sua lenta riscoperta, negli anni Ottanta, quando si affermò come titolo di culto negli ambienti femministi e ambientalisti europei.
‘Fatica’, dunque, come la fatica che si affronta durante la lettura di un racconto che è una cronaca minuziosa, in cui la prosa è arricchita da vivide descrizioni e picchi di lirismo, ma quasi soffocata da un pervasivo senso di claustrofobia che, come è emerso dalla discussione delle Letturate, coinvolge le lettrici ancor più che la protagonista stessa del romanzo, già immersa nel suo laborioso mondo di sforzo, sopravvivenza e rinascita.
La storia, narrata in prima persona attraverso le puntigliose e spesso quasi tediose annotazioni quotidiane di una donna senza nome, parla delle difficoltà che questa personaggia incontrerà e dovrà affrontare dopo essere rimasta prigioniera in una riserva di caccia in alta montagna, isolata dall’improvvisa comparsa di una parete trasparente ma inviolabile. Oltre la parete, il mondo è perduto, «lentamente inghiottito dalle ortiche» (p.146) e gli esseri umani, a lungo smarriti in quell’universo atomizzato, privo delle più semplici forme di comunità e spinto verso gli estremi del consumismo, sono pietrificati, immersi in una sorta di stasi profonda e irreversibile, mentre la natura – una natura impietosa e impossibile da addomesticare – prende il sopravvento.
Al di qua della parete, invece, la vita della nostra narratrice sembra essa stessa germogliare e fiorire: con grande spirito di iniziativa, la donna si reinventa, riscopre attività manuali delle quali aveva perduto i rudimenti negli anni. Si immerge nella fatica che modella e trasforma il suo corpo, abbandonando l’estetica per l’essenzialità di una vita in cui il corpo stesso è un utensile e uno strumento per la sopravvivenza. La donna diventa così agricoltrice, allevatrice, sopravvive per se stessa e per quella che Leila Falà ha definito la sua famiglia queer: una mucca e il suo torello, un cane, una gatta e i suoi gattini.
Non c’è, nelle intenzioni della protagonista, la speranza di mutare la propria condizione o di essere salvata: non c’è nulla che ancora viva oltre la parete, e ciò che ha costruito nel mondo di cui è diventata padrona non vuole essere modificato. Questa caratteristica è forse quella che più di altre contribuisce a rendere il romanzo perturbante, come sostiene Rossella Caleca, nell’accezione più tipicamente freudiana del termine.
La lettura di una cronaca di sopravvivenza in quello che, a prima vista, potrebbe apparire come un romanzo distopico e diventa poi fuorviante nelle sue descrizioni esplicitamente naturaliste, ci ha abituate a immaginare protagoniste e protagonisti che, come il Robinson di Defoe, non accettano la propria condizione e vivono giorno dopo giorno nella convinzione di essere salvati. Al contrario, invece, separata dal resto del mondo da quella parete invisibile, la donna vive ogni giorno scegliendo di non interrogarsi sul futuro, sporadicamente pensando alla propria fine solo in relazione alle sorti dei suoi animali, per i quali avverte il più grande senso di responsabilità.
Molte di noi hanno percepito questa mancanza di futuro come la sensazione della morte ineludibile che permea un testo in cui la scrittura stessa serve a sopravvivere, a preservare intatte le facoltà mentali di chi narra, in un estremo tentativo di conservare la lingua, la forma, i ricordi dell’essere umano quando già il corpo sembra fondersi con la natura – animale e vegetale – in un rapporto simbiotico.
Se dunque l’immediatezza e l’incapacità di immaginare un futuro sono caratteristiche animali e aiutano a sottolineare l’importanza di questa relazione simbiotica, ho scelto tuttavia di privilegiare una diversa prospettiva come chiave di lettura personale, considerando che il presente è anche il tempo dell’utopia. Seppur in maniera marcatamente eccentrica, infatti, La parete sembra descrivere con dovizia di particolari il viaggio verso un ou-tópos, un luogo che non esiste in nessun luogo eppure è in grado di cambiare radicalmente la coscienza del viaggiatore. Il romanzo distorce certamente le categorie, in primis quelle di umano e non-umano, e le ambientazioni di questa narrazione utopistica, ne frastaglia i confini, ma ne conserva alcune caratteristiche fondamentali, come la staticità che è il cuore pulsante di ogni utopia. Nel mondo della nostra narratrice, celato dietro la parete invisibile, tutto si svolge secondo equilibri precisi, con un’attenzione quasi maniacale ai dettagli – fedelmente riportati nella cronaca – per evitare qualsiasi alterazione dello status quo.
È solo un espediente per non impazzire?
Può darsi, ma la staticità, l’equilibrio perfetto tra la donna e gli animali dei quali si sente un po’ madre e un po’ sorella, garantiscono il perfetto funzionamento di quel microcosmo quasi ibrido. L’equilibrio si incrina, improvvisamente, solo con la comparsa sull’alpeggio di un uomo sconosciuto, i cui «abiti, sporchi e consunti, erano di stoffa costosa e confezionati da un buon sarto» (p. 219), quasi un marchio di quel mondo consumista e individualista che la parete ha isolato e fermato in un tempo senza futuro. Ecco, allora, quest’uomo inselvatichito che uccide, brutalmente e senza ragione, il toro e il cane, e incarna, sì, la violenza maschile contrapposta a un femminile che tutela la natura e con essa intreccia una relazione di mutuo appoggio, ma rappresenta anche l’interruzione violenta dello status quo: la minaccia all’utopia che deve essere eliminata con qualsiasi mezzo a disposizione.
Lo sconosciuto viene ucciso a sangue freddo, il suo cadavere allontanato da quell’alpeggio dove «era quasi impossibile restare un io singolo e separato» (p. 147); non è degno, a differenza degli animali, della sepoltura in quel luogo di comunione.
Tuttavia, da questo momento in poi la sicurezza e la stabilità dell’utopia vengono meno, lasciando spazio all’angosciante sensazione che la fine sia imminente e inevitabile. La cronaca deve concludersi e forse allora la donna senza nome impazzirà. Forse la sua stessa umanità si esaurirà nell’impossibilità di scrivere. Ma la mucca avrà un nuovo vitellino e una rara cornacchia bianca, ostracizzata dai suoi pari per la sua diversità, ogni giorno già attende che la donna si rechi alla radura per nutrirla, rinnovando il suo legame con il mondo animale e ormai superando le categorie di domestico e selvatico a lungo rimaste le uniche incrollabili certezze per comprendere il mondo dietro la parete. Una parete che appare sempre più come una scelta, un enigma che non potrà mai essere risolto, mentre faticosamente rifiorisce la sensazione che la vita possa andare avanti e ci sia ancora la possibilità di un cambiamento.
Marlen Haushofer, La Parete, e/o, 2013
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Marzia La Barbera

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