Dopo una ennesima lunga notte di poco sonno stop&go, all’alba mi sono svegliata con una frase riemersa chissà da quale sprofondo della mente: “Metti un po’ a posto”. La diceva mia nonna, classe 1885, 4 figli “di cui due vivi” – dichiarava senza scomporsi – maritata assai tardi e malvolentieri perché la sua passione era il commercio. Lei parlava un sontuoso napoletano ricco di francesismi, e un tedesco cantilenante, retaggio di anni passati in Austria tra le due guerre a gestire uno dei negozi di famiglia. Amava a dismisura il figlio maschio – scavezzacollo e scialacquatore del patrimonio familiare – molto meno la femmina (mia madre), tenuta col guinzaglio corto e impedita nelle sue aspirazioni di studio. L’unica sua attività da casalinga era la consultazione mattutina con la cuoca (una strega vestita di nero e perennemente rintanata in cucina) su cosa fare per pranzo e cena. Scenette meritevoli di essere inserite in una commedia di Scarpetta: “e se facessimo ‘e purpette?”, “tenimme pure ‘e mulignane…”.
Per il resto, in casa non si occupava di nulla: aveva una “serva” (sic!) per le faccende – cui non bisognava dare “confidenza” – un fattorino, Filippo, che si divideva tra casa e negozio, un’amica povera, vedova di un commilitone del nonno – che noi nipoti chiamavamo zia. Era addetta alla nostra cura quando tornavamo da scuola, e al cucito: colli e polsi delle camice maschili da sostituire, cappotti e giacche da rivoltare, file di bottoni da riallineare, “aggiusti” di abiti confezionati da una vera sarta e dunque da rinfrescare perché fossero praticamente eterni. Lei e la “zia” si sono date del “Voi” per sessant’anni, pur convivendo.
“Metti un po’ a posto” non significava pulire o rassettare sul serio. Aveva il senso di dare una parvenza di ordine agli spazi di quella casa labirintica: giornali da buttare, libri da chiudere, pantofole e vestaglie da riappendere dietro la porta del bagno, portacenere da svuotare, cuscini da sprimacciare, gilet e cravatte, sciarpe e scialli da riporre nei cassetti, vasi di fiori cui cambiare l’acqua, stoviglie da riporre, bucato da ritirare e piegare per lo stiro. Ero spesso delegata alla ricerca del suo rosario d’avorio antico, che le scivolava sempre nelle pieghe della dormeuse durante le pennichella pomeridiana – che lei chiamava “orazioni” – come il plaid di mohair scozzese che usava per coprirsi e non “sconcicare” il letto rifatto.
“Metti un po’ a posto” mi risuonava nella testa stamattina, mentre guardavo sconsolata la pila di magliette estive rimaste su una poltrona perché non ho ancora svuotato l’armadio dai maglioni invernali. Ma chi se n’importa? mi ha sussurrato la mia parte anarchica mai addomesticata alla casalinghitudine. Ho faticato a entrare nella giornata, a prendere coscienza di che giorno e ora era, a farmi la doccia e vestirmi – “vestiti da casa”, come quando ero bambina – a svuotare i posacenere, riporre le troppe sciarpe in giro, sprimacciare i cuscini, svuotare la lavastoviglie, buttare un’arancia andata a male e decidere che cosa avrei mangiato a pranzo e cena.
“Metti un po’ a posto”, mi sono detta nell’aprire il computer guardandolo in cagnesco per quanto sono indietro sui lavori da consegnare. Da dove comincio?
Già, da dove, dato che l’impressione prevalente nella clausura da Covid-19 che pur ci ha chiesto di rimanere attive è quella di un blob che ancora tracima da tutte le parti, rendendo indistinguibili le settimane i giorni e le ore, che confonde ogni ragionevole priorità del “prima”, che rende poroso il confine tra realtà e virtualità. Sono più “veri” gli ambienti che frequento su Internet della poca “vita” che riesco ancora oggi ad agire quando vado in farmacia, dal fornaio, al supermercato. A volte compare la postina, che mugugna un saluto dietro la mascherina e mi lascia lettere e pacchi ai piedi della scala, che non apro per giorni. I molti libri iniziati rimangono sparpagliati per casa, aperti a testa in giù – io che amo i segnalibri – chissà se li finirò mai. Le arance non mangiate continuano a marcire nella coppa sul tavolino. Faccio il caffè con la moka grande ma non ho con chi condividerlo. Quel che resta lo metto in una bottiglina, come si faceva a casa di mia nonna, pronto ad essere riscaldato. Lascio suonare il telefono, mi disabituo a parlare. Il “dentro” mi avvolge come un mantello, il “fuori” è una terrazzetta su cui esco di tanto in tanto per spicciare qualche foglia secca dalle piante. A volte c’è un merlo, che mi guarda curioso da dietro il vetro e zampetta sulle piante per beccare qualche bacca o un verme, chissà.
La mia quarantena durerà anche oltre la fine del lockdown. Prima o poi, mi prometto solennemente, metterò un po’ a posto. Cercando un altro ordine, credo.
PASSAPAROLA:










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