L’epica dei maschi, la tragedia delle donne. La Musa ci ripensa

Anna Maria Crispino, 21 febbraio 2021

Riprendiamo l’articolo della direttora di Leggendaria sulle eroine classiche: l’articolo è nel n.145, ora in vendita in libreria e sul sito, che festeggia i 25 anni di una rivista di cultura e politica delle donne da sempre libera e aperta al mondo. Sosteniamola, acquistandola o abbonandoci in un anno molto difficile per noi tutte e tutti. E anche per una orgogliosa e ribelle impresa di donne.

 

Il romanzo di Natalie Haynes Il canto di Calliope è molto più di una riscrittura dell’Iliade: è un doppio rovesciamento della narrazione del testo fondante della cultura occidentale. Non è la prima a farlo, ne crediamo sarà l’ultima dato che sul quel confine tra mito e Storia c’è ed è in atto un lavoro di molte, e in molte forme.

Il primo salto mortale Haynes lo compie raccontando tutta la vicenda della guerra di Troia dal punto di vista dei troiani. Anzi delle troiane – secondo rovesciamento – mettendo radicalmente in discussione il concetto stesso di “eroe” che innerva la narrazione maschile. E lo fa con una scansione narrativa che ha un incipit fulminante: è infatti la stessa Musa cui il poeta si rivolge per comporre la sua opera – Calliope, appunto – ad apparire molta seccata per quella celeberrima invocazione: «Cantami, o Diva, del pelide Achille l’ira funesta…». Perché, gli ricorda, la storia della guerra di Troia è più una tragedia che un’epica. «Le morti degli uomini sono epiche, le morti delle donne sono tragiche» (p. 106) e dunque se e quando la storia la si racconta tutta, assume un altro aspetto.

D’altronde, il silenzio sulle donne in quella guerra si potrebbe anche spiegare col fatto che «Quando una città viene saccheggiata, si distrugge ogni cosa, perfino le parole» (p. 68). E nella caduta di Troia sono le parole delle donne ad essere state distrutte insieme alla città.  Ma ora, dato che «le donne hanno aspettato il loro turno anche troppo» (p. 163), parlano, parlano tutte: regine e profetesse, schiave e divinità, ninfe e sacerdotesse, amazzoni e spose, figlie, concubine – in un alternarsi di capitoli che ritessono la trama dell’Iliade in un affresco stupefacente per varietà di voci e di colori. Due i fili forti, anzi tre: il racconto delle troiane, l’interlocuzione di Calliope con Omero e le lettere di Penelope al suo sposo assente, che lo interrogano sul suo mancato ritorno, dopo 10 anni di guerra e gli altri 10 passati in giro per il Mediterraneo, quasi un contrappunto mentre ascolta le gesta di Ulisse cantate dai poeti nelle corti greche, compresa la sia.

«Quando finisce una guerra – scrive Haynes – gli uomini perdono la vita. Le donne perdono tutto il resto» e dunque non sono meno “eroi” la vecchia regina Ecabe (Ecuba) e le sue figlie e cognate, né Penelope che pur non trovandosi sotto le mura in fiamme della città di Priamo da lontano scrive le sue lettere a Ulisse. Il suo eroismo sta in una attesa che diventa sempre più angosciosa col passare del tempo, quasi a voler sottolineare lo “spreco” della sua vita: «Ho implorato gli dèi di riportarti a casa prima di diventare sterile per l’età». E nelle sue missive ripercorriamo le vicende dell’Odissea, i dieci anni di ulteriore attesa che il viaggio di ritorno da Troia a Itaca hanno implicato: “scuse”, le definisce, “ostacoli assurdi e inverosimili” per evitare di tornare a casa, dice la paziente, devota Penelope non senza una nota di sarcasmo: «Aspettare è la cosa più crudele che io abbia mai sopportato» (p. 171).

La caduta di Troia non aveva reso i greci più gentili, anzi: le troiane giudicano i greci «avidi come cornacchie», “barbari”, “egoisti”, “crudeli”; per loro «la doppiezza era una seconda natura» (p. 200). «Non sono un esercito, questi greci. Sono una pestilenza» (p. 76), dice Briseide mentre aspetta che il suo destino venga deciso. Menelao è uno spregevole idiota, Agamennone un irascibile vanaglorioso. Ma gli strali più impietosi delle troiane sono diretti contro Achille, l’eroe per antonomasia: che si comporta come un bambino imbronciato quando Agamennone gli sottrae la schiava ricevuta come bottino di guerra; che in un sol giorno è capace di uccidere sessanta uomini; un assassino più che un guerriero; un macellaio privo di sentimenti e onore.

D’altronde già Pat Barker, ne Il silenzio delle ragazze, fa dire a Briseide, sacerdotessa di Apollo, sposa di Minete e poi schiava del Pelide dopo che i greci ebbero espugnato Lirnesso (città alleata di Troia): «Il grande Achille. Il luminoso, splendido Achille; Achille simile a un dio. Montagne di epiteti che le nostre labbra non hanno mai pronunciato. Ma Achille, per noi, era solo un macellaio» (p. 7). Anche la narrazione di Pat Barker è tutta dal punto di vista delle donne e insiste sull’insensatezza della guerra, che non è solo scontro tra maschi ma ha profonde – e finora inenarrate – conseguenze sulle donne.

Smontando la figura di Achille che Omero ci ha consegnato luminosa ed eroica, Haynes peraltro sottolinea che l’eroe è più che altro un talismano, uno stendardo per l’esercito greco: tanto che, quando la spartizione delle schiave provoca una volgare disputa tra maschi, lui “per dispetto” si tiene fuori dai combattimenti per più di un anno. Se Achille, un «assassino tra i più spietati», non scende in campo non solo indebolisce l’esercito greco ma ha anche l’effetto di demoralizzare le truppe di Agamennone. Che si ostina a voler tenere con sé Criseide finché una pestilenza non decima il campo degli achei e lui è costretto a restituire la giovane al padre Crise. Ma vuole in cambio Briseide… A fronte di questa nota vicenda di contrapposto orgoglio maschile, Haynes ci racconta, in uno dei capitoli più belli del romanzo, la trasformazione delle due giovani donne «da persone a cose di proprietà» (p. 83).

E se gli umani ci appaiono così insensati, gli dèi dell’Olimpo non sono da meno: capricciosi, volubili, irragionevoli, vendicativi sono in perenne conflitto tra di loro mentre muovono i fili dei destini in un eterno gioco di astuzie e ripicche. Attori e attrici a pieno titolo nelle cause remote della guerra ma anche nel suo svolgimento e nell’esito finale. Tutto si tiene nella narrazione che ci è stata tramandata, dalla storia del pomo della discordia che fa entrare in scena Paride, alla traiettoria di Elena, figlia di Zeus e Leda, regina di Sparta, poi principessa di Troia, e poi di nuovo a Sparta senza apparentemente pagare pegno. Perché Elena risulta sovradeterminata dal gioco degli dèi: rapita da Teseo quand’era ancora una fanciulla, fu chiesta in moglie da tutti i capi greci: sposò Menelao principe di Micene che così divenne re di Sparta. Ma fu la contesa tra le dee per la mela d’oro che portò Paride a rapire “la più bella” e portarla a Troia. Di qui la guerra per restituirla a Menelao.

Molte sono le versioni sulla sua sorte dopo la caduta di Troia e il ritorno a Sparta ma Haynes non le dedica un capitolo a parte: ce la fa solo intravedere in mezzo alle troiane radunate intorno a Ecabe sulla spiaggia, nel cerchio delle figlie e delle nuore coi loro figli, in attesa che i capi greci decidano a chi assegnarle come schiave. La vecchia regina ha solo pensieri di odio per Elena: «“Tutto per colpa di quell’infida sgualdrina spartana” […] Il suo desiderio di vendetta era assoluto, e vano» (p. 42).  E quella “infida sgualdrina” inaspettatamente le si para dinanzi, portata in tenda da soldati greci anche se lei protesta affermando che dovrebbe essere condotta da Menelao. Il confronto tra le due è aspro da parte di Ecabe, quasi indifferente da parte di Elena che non sembra intimorita dal disprezzo che le dimostra la suocera. Alle accuse di essere responsabile della guerra, Elena ribatte che fu Paride a venirla a cercare; a quella di essere una donna sposata, risponde che anche Paride lo era. Il principe troiano viziato dalla madre e da Priamo, incapace di comprendere perché non lo abbiano accolto con gioia quando è rientrato a Troia con una nuova moglie, incredulo rispetto alla reazione di Menelao perché abituato a prendersi tutto ciò che desidera; di fronte alla madre e alle sorelle, Elena lo dipinge con spietata precisione: «Perfino quando vide i fratelli, gli amici e i vicini combattere e morire in una guerra che lui aveva causato, non chiese mai scusa, non se ne attribuì mai la responsabilità». Per Paride, il problema non era il suo comportamento, ma la reazione di Menelao che, ai suoi occhi, era totalmente inspiegabile. La guerra era stata colpa di Elena che non aveva resistito alla seduzione del principe troiano, dunque, o anche di Paride che non era in gradi di valutare le conseguenze delle sue azioni? Elena non ha dubbi: era stata colpa di Afrodite. Ma Ecuba si augura che Menelao la uccida.

Fu dunque Afrodite la maîtresse di quell’amore peccaminoso e nefasto? Se lo chiede A proposito di Elena, la grecista Giuseppina Norcia, che ci conduce per mano alla ricerca di una donna di una complessità estrema, di cui nei secoli è stato scritto di tutto e il contrario di tutto. In un testo composito – saggio, racconto, teatro – Norcia parte dalla costatazione che in realtà «Di Elena non si sa niente. Crediamo di conoscerla ma non l’abbiamo mai guardata. È questo il suo paradosso, o forse l’indizio che ci lascia […] Di lei si conosce però l’effetto che ha sugli altri. Incantamento. L’indicibile desiderio di possederla, per sempre. Il piacere frammisto a un terribile senso di libertà. La paura, anche». «Tutti coloro che hanno desiderato Elena intorno a lei hanno costruito un’ossessione consumata nella violenza, individuale o collettiva» (p. 29).

Le altre donne la disprezzano ma anche la temono. «Perché la bellezza di una donna è imperdonabile?», chiede Norcia, sottolineando «quanta violenza possa essere agita anche dalle donne contro una donna. […] apparentemente la regina di Sparta non riabilita il femminile, non si presta ad essere una eroina come Antigone o Ifigenia, donne del coraggio e del sacrificio. […] Perché il dolore e la rinuncia di una donna sono più accettabili del fascino, della bellezza, del piacere?» (p. 22).

Lei, Elena, «costantemente sente su di sé il desiderio degli uomini e l’ostilità delle donne» (p. 39), che la giudicano, tutte, tranne la saggia Penelope che nell’Odissea la difende, o meglio la giustifica: «un dio la spinse a compiere quell’atto indegno: lei non aveva in animo la funesta follia che fu la prima causa della nostra sventura» (XXIII).  Indagare su Elena, ci dice Giuseppina Norcia, ci serve a decostruire il racconto mitico per capire come i Greci abbiano costruito le immagini, figure, della donna. «Ma significa anche vedere quanto questo mito sia ancora attivo, quante visioni e credenze antichissime – ora feconde, ora irrigidite nello stereotipo – continuano ad agire dentro di noi» (p. 45).

 

Natalie Haynes, Il canto di Calliope, Trad. di Monica Capuani, Sonzogno, 2021

Pat Barker, Il silenzio delle ragazze, Trad. di Carla Palmieri, Einaudi, 2019

Giuseppina Norcia, A proposito di Elena, VandA.edizioni, 2020

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Anna Maria Crispino, giornalista e saggista, ha fondato e tuttora dirige la rivista Leggendaria. Libri Letture Linguaggi. Attualmente lavora come direttora editoriale della Iacobelli editore. È tra le fondatrici della Società Italiana delle Letterate (SIL) di cui dal 2000 organizza, con altre, il Seminario estivo residenziale. Autrice di saggi sulle scritture e il pensiero delle donne, ha scritto e/o curato diversi volumi, tra i quali: Lady Frankenstein e l’orrenda progenie (a cura di, con Silvia Neonato, Roma: Iacobelli editore 2018); Dell’ambivalenza. Dinamiche della narrazione in Elena Ferrante, Julie Otzuka e Goliarda Sapienza (a cura di, con Marina Vitale, Roma; Iacobelli editore 2016); Oltrecanone. Generi, genealogie, tradizioni (a cura di, Roma: Iacobelli editore 2015). Ha tradotto e/o curato alcuni volumi della filosofa Rosi Braidotti, tra i quali: Trasposizioni. Sull’etica nomade (Roma: Luca Sossella editore 2008) e Madri Mostri e Macchine (Roma: manifestolibri 2005). Vive in un borgo su un lago molto bello, a volte spazzato dalla tramontana.

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