Marionette, corpi e immagini che invitano il pubblico a riflettere su temi ambientalisti. Nel suo teatro visuale ci sono corvi meccanici critici verso la devastazione degli umani ai danni del pianeta o pupazze che narrano di libertà femminile. Cuscunà ha vinto un bando della Regione Friuli Venezia Giulia per il suo “Tour multispecie”. Qui il calendario dei prossimi spettacoli: https://www.martacuscuna.it/#tour
Di Chiara Cremaschi e Sarah Perruccio
Cara Sarah,
ho avuto la fortuna di vedere tutta la personale di Marta Cuscunà alla Biennale Internazionale della Marionetta a Parigi. Mi ha colpita moltissimo.
I suoi lavori hanno sempre dei testi profondi, che rivelano studio e riflessione, una drammaturgia forte, una messa in scena di corpi, marionette e immagini che indaga lo spazio e pone questioni politiche fondamentali. È una narratrice di resistenze e lo fa attraversando passato e futuro, per costringerci a guardare il presente.
Ora Marta è in Italia anche con “Corvidae. Sguardi di specie”, che nasce come serie tv scritta per il programma di RAI 3 La Fabbrica del Mondo di Marco Paolini e Telmo Pievani. La serie è uscita dallo schermo e arriva in teatro con tre stagioni in cui uno stormo di corvi regala una prospettiva diversa sui danni che come specie abbiamo combinato al pianeta e sulle possibilità che abbiamo di rimediare. Si potrà finalmente vedere anche “Earthbound”. Il titolo è evidentemente riferito al neologismo inventato da Bruno Latour per rispondere al bisogno contemporaneo di definire la nostra specie in base a un nuovo rapporto con la Terra, che non si limiti più al cieco attaccamento al suolo, come fino ad ora aveva indicato la parola “umano” (da homo, strettamente legato al termine humus, “terra”).
Dichiara Marta Cuscunà che «La questione climatica ci richiede di essere di nuovo sensibili e collegati a Gaia, ai suoi molteplici legami e rapporti simbiotici. Superare la frattura tra Uomo e Natura, riconoscendo che l’ambiente influenza lo sviluppo dell’individuo che esiste grazie a relazioni simbiotiche con altre specie come batteri, virus e funghi. Questo nuovo approccio all’essere umano come holobyonte ci permetterebbe di trovare risposte ai mutamenti ecologici». Secondo Latour, abbiamo bisogno di non essere più semplicemente “umani” ma “earthbound”, legati alla terra. E se, come dice Donna Haraway, «le storie fanno i mondi. I mondi fanno le storie», “Earthbound” è uno dei racconti possibili del mondo nuovo in cui potremmo trovarci a vivere domani.
Hai voglia di vedere i suoi spettacoli?
Risposta di Sarah
Ciao Chiara,
Ho colto subito il tuo invito, colma di curiosità. Con mio fratello Marco abbiamo preso un regionale per arrivare nella nostra amata Napoli. Corvidae. Sguardi di specie era in scena al Teatro Nuovo, nei quartieri spagnoli, uno spazio che spesso ospita le proposte più interessanti della drammaturgia contemporanea. Lì ci aspettavano due posti in prima fila, faccia a faccia con i corvacci metallici: scuri, eretti su alti piedistalli, con lunghi becchi appuntiti come lame, e bulloni al posto degli occhi. Ci aspettano e un po’ inquietano. Sono pronti a cibarsi di carcasse? Forse le nostre? Lo spettacolo parla della fine del mondo, dopotutto. Oppure, per gli ottimisti, di una sua possibile rinascita.
Marta Cuscunà emerge dalle quinte e si piazza dietro alle pertiche su cui si ergono i pennuti senza piume (realizzati da Paola Villani), afferra il primo dei joystick metallici e gli trasferisce la propria vitalità. Più che presi dall’intento di cibarsi di noi, i corvi – gli uccelli più intelligenti secondo moltissimi studi – discettano sulla condizione del mondo e sulle responsabilità di noi esseri umani. Stiamo consumando tutte le risorse, distruggendo gli habitat e portando quindi all’estinzione una specie dopo l’altra; presto non ci sarà nulla da mangiare. In definitiva, se solo ci estinguessimo noi Sapiens Sapiens, si potrebbe forse tornare a un equilibrio più virtuoso.
Lo spettacolo è suddiviso in brevi quadri, come se si trattasse di episodi di una serie tv, introdotte dalla memorabile sigla di Quark (ossia la Suite n. 3 in do maggiore per violoncello solo di Bach) a ricordarci che si tratta sì di un gioco ma anche di un lavoro con basi scientifiche che si rivolge al suo pubblico per sollecitare la riflessione. Ogni sezione affronta un tema differente, immaginando gli sviluppi futuri di alcune questioni che oggi sono parte del dibattito pubblico come la produzione di carne sintetica e lo scontro tra il movimento ecologista Fridays for future e le lobby del petrolio. In un bell’esercizio d’immaginazione i corvi discutono dell’annegamento di Donald Trump in un lussuoso campo da golf in Irlanda a causa dell’innalzamento dei mari. Sono sagaci, ma anche in ansia, i corvi. Vorrebbero salvarsi, e vedere il mondo in salvo, ma temono fortemente l’incredibile stupidità umana. Cuscunà, in questo spettacolo futuristico e attentamente ricercato, dà voce e movimento ai quattro animali in modo analogico. Li muove con i joystick metallici e dà loro voce senza alcun ausilio tecnologico, onorando l’aspetto più artigianale dell’arte teatrale e marionettistica. Ogni animale ha il suo carattere, ovviamente calcato e caratterizzato come ci aspetteremmo da una marionetta o da un burattino, e così ciascuno incarna i diversi atteggiamenti che anche noi umani abbiamo nei confronti di questo nostro mondo (paura, cinismo, negazione etc). Uno spettacolo che, pur avendo solide basi nella ricerca scientifica e filosofica (si riferisce al pensiero dell’antropologa Anna Tsing, della biologa Lynn Margulis, del filosofo Bruno Latour e di Donna Haraway) rimane godibile per un pubblico vastissimo, fedele anche alla sua genesi televisiva e al suo intento di divulgare e pungolarci all’azione.
Sarah Perruccio e Chiara Cremaschi dialogano con Marta Cuscunà
Tutta la tua produzione ha il filo rosso delle resistenze, soprattutto femminili, e della relazione con la natura. C’è molta Donna Haraway già nelle Clarisse di Udine! Come studi, quando, dove? Ci interessa sempre esplorare le connessioni evidenti e sotterranee delle creazioni.
Quello che succede è che di solito trovo una storia, una vicenda che mi colpisce, soprattutto nell’immaginario: mentre leggo, comincio ad avere delle visioni su come potrei raccontarle sul palco. Dopodiché, cerco di raccogliere informazioni nello specifico rispetto alla storia in questione, poi comincio ad ampliare il raggio di ricerche, quindi raccolgo materiali per analogie, cercando di individuare le tematiche essenziali, e andando a spaziare in diverse discipline artistiche, diversi periodi storici. E con tutto questo grande orizzonte di materiali, comincio a scrivere dei primi esperimenti testuali, facendo riferimento ai protocolli drammaturgici di José Sanci e Sinisterra, che è stato il mio maestro di drammaturgia.
Scrivo, inizialmente, senza pensare già alla forma compiuta che avrà il copione. Scrivo dei piccoli tasselli drammaturgici che poi, soltanto alla fine del periodo di scrittura libera, provo a mettere in fila, a capire quale senso cronologico potrebbero assumere. Mostro questa prima bozza di copione, insieme a una ricerca iconografica iniziale, alla scenografa con cui lavoro, Paola Villani, e a Marco Rogante, che è l’assistente alla Drammaturgia e alla Regia. Contemporaneamente a questa prima scrittura drammaturgica faccio ancora una ricerca iconografica in base alle prime suggestioni visive.
Dall’incontro con Paola e Marco cominciamo a strutturare, invece, il processo di ideazione e progettazione dei primi prototipi, della scenografia e delle creature meccaniche che utilizzerò in scena. Di solito il processo è molto lungo, due anni, due anni e mezzo. E quello che succede è che Paola inizia a progettare, a costruire insieme a Marco dei prototipi che vengono testati da me nelle varie residenze artistiche, fino ad ora abbiamo cercato di farne una al mese. Vediamo soprattutto tutti i limiti che vanno invece ripensati e sui quali va riprogettata la meccanica delle figure. E, da quando comincia questa fase, la drammaturgia e la meccanica, cambiano insieme, si modificano reciprocamente: a seconda di quello che scopriamo che le figure possono effettivamente fare in scena, la drammaturgia un pochino si adatta.
Questo trio è fondamentale, quello che condivide il percorso più lungo di creazione artistica. Dopo di che, quando ci siamo chiariti le idee su quale sia la forma finale definitiva delle figure, arriva tutto il resto della squadra artistica e iniziamo l’allestimento in teatro. Ci sono il disegnatore luci, il disegnatore del suono, la squadra si ingrandisce. E tendenzialmente, per come lavoro io, una volta che si arriva al debutto, la forma dello spettacolo è veramente chiusa, è definita e rimane tale. “La semplicità ingannata”, che ormai gira da più di un decennio, ha esattamente la forma della prima volta.
Poi non cambiano più perché c’è già tanto lavoro nel concepimento iniziale?
Sì, soprattutto per come intendiamo noi l’allestimento, quindi il fatto che la forma finale dello spettacolo sia come un unico grande ingranaggio. Cambiare qualcosa di sostanziale implicherebbe rimettere in allestimento lo spettacolo, ri-coinvolgere tutte le altre persone coinvolte, insomma, sarebbe un investimento. Fino ad ora abbiamo sempre optato per mantenere la forma del debutto, anche perché dopo due anni e mezzo, il tempo per rivedere e ripensare lo spettacolo c’è.
Nei tuoi spettacoli ci ha colpito molto la stretta connessione tra testo, immagini presenti e evocate, e messa in scena dei corpi costruiti con il tuo che li muove ma in qualche modo si fa muovere dal racconto. Da dove inizi a concepire uno spettacolo?
C’è sicuramente l’idea di cercare di capire che cosa di quel tema non si riesce a dire con le parole o per cui le parole non sono abbastanza. E quindi andare a studiare tutte le intersezioni, i buchi, in cui invece la parte visuale riesce ad essere molto più efficace, perché magari riesce ad essere più evocativa. C’è quasi sempre una scelta di quali debbano essere le figure che sono in scena, ed è una scelta drammaturgica.
Partendo dai corvi, la scelta della loro presenza è proprio quella di avere una specie che ci osserva, quindi prendere un altro punto di vista. E in particolare i corvi derivavano da un altro spettacolo che Marco Paolini aveva visto, che era “Il canto della caduta”, che si ispirava a un antichissimo mito ladino che raccontava la caduta dell’umanità nella guerra. E, all’interno di questo racconto ancestrale, c’era già la figura dello stormo dei corvi, l’idea di questa specie altra che ha la nomea di essere un uccello del malaugurio, di essere senza cuore perché si ciba di cadaveri, e che osserva dall’alto la nostra specie che si massacra a vicenda. Apparentemente, è un’attesa con l’acquolina in bocca, perché, ovviamente, il banchetto che si presenta dopo la carneficina, per i corvi, dovrebbe essere motivo di gioia. In realtà, poi si rivelano essere le loro riflessioni quelle più umane, invece, sul fatto di uccidersi selvaggiamente.
Marco Paolini aveva visto questo spettacolo e ha pensato che i corvi potessero usare lo stesso punto di vista per ragionare su come stiamo affrontando la crisi climatica.
Quindi la scelta dei corvi nasce da questo essere altro da noi, di osservarci dall’alto e di avere una fama che poi in realtà tradisce la profonda delicatezza, quasi l’affetto con cui ci guardano e ci osservano. In altri spettacoli c’è, come nel caso de “La semplicità ingannata”, una soglia che devono a un certo punto attraversare le protagoniste, che è quella della deprivazione della libertà: le pupazze appaiono nel momento in cui le monache forzate vengono costrette alla clausura. Da un lato, mi permettono di rappresentare questa coralità di un gruppo di donne che riesce a emanciparsi dal ruolo a cui erano costrette, dall’altro, rappresentano il momento cruciale di scelta in cui si trovano le protagoniste, che è quello di diventare marionette nelle mani di chi ha strappato loro la libertà. Oppure, invece, nonostante questa loro condizione di mancanza di libertà, immaginare un possibile riscatto.
Poi c’è “Earthbound”, che parte dalle storie di fantascienze immaginate da Donna Haraway, in cui le protagoniste sono queste Camille, figure ibride tra umani e specie in via d’estinzione. La possibilità di dare corpo sul palco a questi ibridi mi sembrava perfetta per delle creature meccaniche. Non era vincolato ai limiti del corpo umano, ma diventava subito un corpo altro, non solo come metafora simbolica, sono effettivamente in scena corpi più che umani, perché c’è tutta la parte meccanica, la parte dei materiali siliconici e in qualche modo quel motore umano che comunque sono io che gli do vita.
Il tuo percorso artistico inizia come attrice? Quando incontri le marionette e i pupazzi? Che rapporto hai con loro?
Sì, ho iniziato come attrice. Ho avuto la fortuna di fare un provino a una scuola europea per l’arte dell’attore, a San Miniato, in provincia di Pisa. In questo provino io utilizzavo in modo abbastanza spontaneo molti oggetti. Volevo partecipare al corso di teatro musicale, una sorta di primi passi nel musical. L’allora direttore di “Prima del teatro”, Roberto Scarpa, notò invece questo utilizzo degli oggetti, e mi consigliò di fare il corso di teatro visuale con Joan Baixas, un regista catalano, direttore del corso di teatro visuale all’Accademia d’Arte Drammatica di Barcellona, che poi è diventato il mio maestro. E grazie al cielo, insomma, nonostante la mia reticenza (perché io volevo assolutamente fare il teatro musicale), Scarpa, insieme agli altri insegnanti, mi diedero una borsa di studio per frequentare entrambi i corsi.
Alla fine del suo corso, Joan Baixas mi disse che, secondo lui quella era la mia strada e che mi avrebbe chiamato a lavorare con lui a Barcellona. Dopo un annetto lo fece veramente: mi ha in qualche modo preso a bottega da lui a Barcellona per due produzioni. Lui ha un approccio veramente sperimentale a questo tipo di linguaggi che forse in Italia rimangono ancora legati alle tecniche più tradizionali, mentre Baixas mescola tecniche diverse, addirittura amalgama i linguaggi teatrali anche con quelli della pittura. Questo mi ha spinto alla sperimentazione, alla mescolanza dei linguaggi senza paura di tradire la tradizione. Decisamente sì, anche perché l’approccio che hanno a Barcellona, come in altri Paesi europei rispetto al teatro visuale, è drasticamente diverso da quello che abbiamo noi in Italia, che non lo insegniamo neanche nelle accademie teatrali.
Qual è il tuo rapporto con le marionette e i pupazzi? C’era già prima del tuo provino?
Direi che tendo a immaginarli come dei prolungamenti del mio corpo, quindi qualcosa che mi permette di moltiplicare l’identità sulla scena.
Ma, se vogliamo proprio andare all’origine di tutto, ho ricordi anche di infanzia, perché qui, vicino a dove abito, si faceva un grande festival di teatro di figura nelle valli del Nattesone, a cui i miei genitori mi hanno portato. Ho ricordi anche un po’ spaventosi di teatro di figura che sicuramente hanno colpito la mia immaginazione di bambina. Poi, all’inizio della mia carriera ho lavorato con il CTA, il Centro di Teatro d’Animazione di Figura di Gorizia, che faceva in particolare spettacoli per bambini con le figure. E sempre loro però, quando erano un pochino più grandi, organizzavano il Puppet Festival, che era pensato in realtà per ospitare spettacoli di teatro di figura per adulti e in alcune edizioni era dedicato in particolare ad alcuni autori di drammaturgia contemporanea. Per esempio, un’edizione meravigliosa che ho visto, è stata quella dedicata a Beckett.
Tra l’altro, è stato lì, che ho conosciuto Paola Villani, che partecipava con un primissimo spettacolo dei Pathosformel, la compagnia di cui lei è cofondatrice.









Redazione LM

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