Riflessione conclusiva dopo gli interventi suscitati dalla lettura del libro di Adriana Cavarero “Donne che allattano cuccioli di lupo”. Le differenze tra madri simboliche e madri generative messe a tema dalle generazioni più giovani
Di Gisella Modica
Ringrazio Ivana Margarese, Luisa Vicinelli e Serena Todesco per i loro generosi contributi in risposta alle domande da me sollecitate nella rubrica Madri, Non Madri 4 del 9 settembre, a proposito della lettura del libro di Adriana Cavarero Donne che allattano cuccioli di lupo. E vorrei chiudere questa fertile corrispondenza con alcune riflessioni a seguito della successiva lettura di Donna si nasce. E qualche volta si diventa (Mondadori) scritto da Cavarero e Olivia Guaraldo. Testo che riprende e approfondisce alcuni temi già contenuti in Donne che allattano.
Sono arrivata al femminismo, negli anni Ottanta, attraverso la porta del pensiero della differenza che mi ha aperto orizzonti di senso. Educata dalla militanza nella sinistra extraparlamentare degli anni Settanta, alla rivoluzione dei due tempi, e a riconoscere il “nemico principale”, concordo con Cavarero che “il nemico” da combattere è il patriarcato e l’imposizione dell’eterosessualità come “naturale”, piuttosto che l’eterosessualità in sé. Così come sono da combattere le imposizioni gerarchiche materia/logos, natura/cultura, insite nell’ordine patriarcale “fin dall’antica Grecia”. Dicotomie che declassano la materia giudicata “priva di agentività”, e con essa la maternità, declassata a cosa da dominare al pari della natura. Da qui la necessità del femminismo di pensare al “sesso che genera” e “alla nascita da madre” fuori dal pensiero patriarcale, “per un radicale rovesciamento”.
Se volgo lo sguardo al mio passato femminista, mi ritrovo in queste analisi ampiamente trattate. Non posso infatti non rilevare che, grazie al femminismo, molti binarismi e gerarchie relativi ai campi materia/logos, natura/cultura, a partire dagli anni Ottanta sono stati messi sistematicamente in discussione, se non abbattuti, nel tentativo di conferire quell’autorità e quell’indipendenza simbolica al sesso che genera, e alla nascita, cui fa riferimento Cavarero, liberando la maternità dalle falsificazioni e dagli stereotipi, dandole parola, e riconsegnando alle donne in buona parte ciò che era stato espropriato. Ma non è bastato.
La verità dell’esperienza materna è tutta ancora da esplorare, scrive Cavarero, riferendosi in particolare alla parte più oscura del materno, confinante con la “bestialità”, rappresentata dall’esperienza della gestazione e dal parto. Una zona più vicina alla zoe che al bios, della cui esperienza solo la letteratura – con Lispector, Ernaux, Ferrante – è stata in grado di dire la verità. La finzione, più che la filosofia, sembra trovare le parole per dire del “versante buio della maternità”, sottolinea Cavarero.
Eppure, rimanendo sempre con lo sguardo rivolto al passato, dell’“oscuro materno” – definito di volta in volta “terribile”, “indecidibile”, “indicibile”, “irreparabile”, “indecente”, “eccedente”, “eccessivo”, “il negativo”, sia la Libreria delle donne di Milano (coi Quaderni gialli) sia il pensiero della differenza, hanno ininterrottamente scritto. A cominciare dagli anni ‘90, coi testi della Comunità Diotima – Il cielo stellato dentro di noi, Mettere al mondo il mondo, L’ordine simbolico della madre di Luisa Muraro (editi da La Tartaruga), fino agli anni Duemila con L’ombra della madre e con La magica forza del negativo (editi da Liguori). Ma altre pensatrici lo hanno messo a tema: Irigaray, Cixous, Kristeva, Rich, Chodorov, Zamboni, per citarne alcune.
Il “tremendo”, “ripugnante”, “disgustoso”, insito nell’atto del “figliare”, dello “scindersi”, del “due in una”, nominato da Cavarero nella sua accezione strettamente biologica, mi rimanda a quanto scrive Chiara Zamboni sull’“oscuro materno”, il quale, “fuori dal simbolico, può diventare fantasma pericoloso e vendicativo”. Necessita pertanto di “un lungo apprendistato”, un processo continuo di “scavo e apertura interiore” in quanto, procurando per sua natura paura e repulsione, si tende a rimuoverlo. Rimosso per questo suo eccedere e indecenza, dalla politica, nel tentativo di “tenerlo presente”, ai fini di un agire femminista, il pensiero della differenza ha inventato delle pratiche – la disparità, l’affidamento, l’autorità – per “dargli forma e regola”. Ma l’oscuro materno, a giudizio di Ida Dominjanni, fa resistenza a qualsiasi tentativo di sua “messa al lavoro”. “Fa da ostacolo alla politica, compresa quella del simbolico”. I conti non tornano mai.
Se si conviene sulla necessità di un agire trasformativo del materno, nel sociale, mi chiedo se nel riproporre l’oscuro materno come “esperienza conoscitiva” e “presa di coscienza della dimensione cosmica”, ai fini del rovesciamento del patriarcato: primo, non sia utile una riflessione sull’efficacia delle pratiche agite nel corso di questi anni, tema sollevato da Dominjanni in L’ombra della madre.
Secondo, cosa comporta affrontare il discorso su un piano esclusivamente biologico.
La relazione originaria di ogni essere umano con la madre, scrive Cavarero, passando da una “relazione di contatto” attraverso l’animalità dei corpi, la bestialità, diventa esperienza conoscitiva della natura e presa di coscienza del far parte della dimensione cosmica e della dipendenza costitutiva dell’essere umano. “A prescindere dalla volontà”.
Anche a prescindere dal simbolico? mi domando.
“Nella nascita si è in due e questo già agisce come schema per un’etica posturale e contingente che avvii un ripensamento del nucleo della comunità e della responsabilità”, scrive Ivana Margarese, concordando con Cavarero.
L’esperienza “dell’uno che si scinde e si fa due”, di tipo strettamente biologico, la “confidenza con la materia corporea dell’origine”, anche da parte di chi non partorisce, sarebbe dunque in grado, se ho bene inteso il pensiero, di fare conoscere la “verità essenziale della condizione umana”; di rovesciare la visione antropocentrica ed egemonica del patriarcato sulla natura, ricollocando l’essere umano all’interno di una visione “biocentrica radicale”.
“Il tema dell’animalità è un buon punto da cui cominciare”, sostiene infatti Cavarero. Così come l’incontrovertibilità del “dato nudo e crudo” della componente biologica, e del binarismo sessuale maschio/femmina della specie umana, necessaria alla sua riproduzione. Del resto, anche il movimento LGBTQ+ si appella al dato biologico nel rivendicare i propri diritti di minoranza e nel contestare il primato dell’eterosessualità da parte del patriarcato. L’appello all’esistenza in natura delle persone intersex, e il conseguente catalogo dei molteplici sessi in funzione anti-binaria, va nella direzione di una biologizzazione del discorso, scrive Cavarero. “Evidentemente il dato biologico conta”. A prescindere dalla volontà.
I corpi, da cui le donne non possono prescindere, vanno raccontati diversamente, “a partire da una consapevolezza femminista”, scrive la stessa Cavarero. Che fa riferimento all’efficacia della letteratura. Forse perché la scrittura comporta quel lavorio introspettivo e ininterrotto di scavo, di consapevolezza, di presa di coscienza e riconoscimento di sé? Lavorio che avviene attraverso un atto di volontà che comporta, per esempio, la presa di distanza dall’oscuro materno, e/o dalla madre reale, di cui parlano Ferrante, Lispector e anche Duras.
“Scrivere è parlare dal fondo del grembo materno”, scrive Ferrante. L’oscuro materno dunque richiede narrazione, e trattasi di narrazioni difficili, in quanto vanno a toccare “la radice della materia”, qualcosa che “fa orrore”. Serve consapevolezza.
A tale consapevolezza si perviene perché nate donne, e quindi potenzialmente madri, e/o per aver attraversato fisicamente l’esperienza biologica della maternità? Attraverso quali pratiche la generatività del materno, il suo potenziale creativo può acquisire “quel nodo di consapevolezza necessaria che contiene ricadute sulla prassi, sulla socialità”, di cui scrive Serena Todesco, al punto da rovesciare la visione antropocentrica?
Luisa Vicinelli risponde che “se la nostra esistenza è guidata da individue che conoscono la vita e la morte, la conoscenza cellulare della materia corporea dell’origine, va da sé che ci sarà anche giustizia sociale”.
Il “va da sé” mi rimanda a quel “a prescindere dalla volontà”.
Si tratta dunque di una consapevolezza “innata”?
In merito al secondo punto: il femminismo ha operato una differenza tra “potenza generatrice” e “potenza simbolica” del materno, scrive Dominjanni. Non il corpo biologico, ma il corpo parlante, la capacità di decidere su se stesso, fa paura al potere. E prosegue: “Si discute…se…portare nello spazio pubblico il lato oscuro della potenza materna, senza la mediazione delle pratiche di disparità, autorità, di cui ci siamo avvalse fin qui per significarla. Ci andrei piano. Sganciare il principio materno dalle pratiche… può voler dire esporlo senza presidi ai ritorni di un immaginario patriarcale”.
Se guardo adesso al presente vedo giovani femministe, molte delle quali artiste, poco interessate a questioni ontologiche sull’origine, e più inclini invece a riposizionamenti critici e a riformulazioni di nuove pratiche, facendo esperienza di ciò che prima non ha funzionato.
Scrive Ilenia Caleo (curatrice insieme a Federica Giardini e Isabella Pinto dei Quaderni Bodymetrics. La misura dei corpi): “De-naturalizzare il corpo, il genere e il sesso, è stata una delle strategie storiche del femminismo, una potente azione contro-egemonica di ribaltamento nei confronti di un discorso filosofico che ha descritto il corpo come muto, pre-linguistico, pre-culturale…Questo distanziamento dalla categoria di natura ha però un lato insidioso… e necessita di un aggiornamento degli strumenti concettuali per ripensare la dimensione materiale”.
Nel ripensare il corpo e la sua dimensione materiale, queste giovani non si rifanno ad una concezione unitaria o identitaria, ma lo intendono piuttosto come luogo di molteplici e contraddittori intrecci simbolici, politici ed economici. Dove l’interrelazione corpo-linguaggio, corpo-comunità, è in un continuo divenire metamorfico e sconfinamenti con altre specie e non solo umane, affermando che natura/cultura, corpo/mente materia/discorso sono campi di tensione intra-attivi, reciprocamente implicati, per cui “una postura statica non è possibile”. Partendo dall’esigenza di “muoversi senza appartenenze tra le diverse genealogie del femminismo”, non si schierano sul fronte della disputa tra essenzialismo e costruzionismo, dichiarando di non voler contrapporre o ridurre un termine nell’altro.
È forse un modo per “aggirare” la questione del materno?
Per quanto mi riguarda mi trovo molto vicina ad Antonietta Potente, mistica domenicana, che in un’intervista, dichiara: “Madri o no, il problema della nostra autorità non passa più attraverso questi paradigmi, ma attraverso i segni dell’anima, ragioni del cuore, sapienza e conoscenza della vita, della quotidianità più quotidiana dell’umano più umano”.
È una scelta con chi stare, umani e non solo umani, come atto di volontà intenzionale e creativo, a prescindere dalle connessioni biologiche, per nuove modalità di esistenza basate sull’interdipendenza. È avere una visione altra del cosmo, creando corpi collettivi come comunità. È sapersi rapportare con la natura sapendo che non ha bisogno di noi e sopravviverà alla nostra morte.
Senza entrare nel vortice dell’attuale conflitto tra femminismi in merito al tentativo di abolizione della parola “donna” dal vocabolario, o al tentativo “ingrato” di “oscurare la madre” – conflitto all’interno del quale i due ultimi libri di Cavarero si posizionano da una parte ben precisa – a me pare che le modalità di queste giovani femministe, animate da un lato dall’urgenza della giustizia sociale e da un attivismo militante di fronte ai disastri ambientali, e dall’altro dal desiderio di sottrarsi, di divergere più che somigliare, alle madri, possono risultare percorribili per superare la palese finora non praticabilità politica dell’oscuro materno.
Gisella Modica
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