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Il film “Upshot, Le conseguenze del dolore”, realizzato nel 2023 dalla regista Maha Haj, si svolge in Galilea, tra il verde dei campi ed è interpretato da due anziani con i figli lontani. Un modo diverso di testimoniare la tragedia palestinese

Di Gisella Modica

«Se questo film lo avessi realizzato dopo il 7 ottobre, avrebbe prevalso la rabbia e avrei fatto un documentario, non un film artistico». Così ha dichiarato Maha Haj, regista palestinese di “Upshot, Le conseguenze del dolore”, realizzato nel giugno del 2023 (durata 34 minuti), proiettato sulla terrazza dell’ Institut Francais, a Palermo, a fine giugno 2025.
Il film racconta di due anziani coniugi (Mohammad Bakiri e Areen Omari) che vivono in una fattoria dove coltivano ulivi e allevano galline. La sera, intorno al tavolo, bevendo the e mangiando stufato d’agnello, parlano dei loro cinque figli che vivono lontano, si scambiano le notizie apprese nell’ultima telefonata ricevuta, sul lavoro, sulle scelte e sui progetti di vita di ciascuno, non sempre dal padre condivisi, mentre la madre lo invita ad essere più indulgente. Parlano dei nipoti che hanno promesso di andarli presto a trovare. Scene di ordinaria quotidianità, che accadono ovunque nel mondo. In un mondo di pace.
A farci “scoprire” che i due anziani coniugi non parlano di fatti realmente accaduti o di persone realmente in vita, sarà un giornalista (Amer Hlehel), che sotto un forte temporale si presenta al cancello della fattoria e chiede di intervistarli su un evento drammatico, di cui nel passato i due coniugi pare siano stati protagonisti. Non diciamo qui quale sia il fatto, ci basta sapere che ha avuto come conseguenza un dolore indicibile, insopportabile.
Lo stesso che prova la regista, come lei stessa ha dichiarato, di fronte alla tragedia del suo popolo, dolore che sta all’origine della creazione del film e che lo pervade. Un film struggente, straziante e insieme delicato, intriso di nostalgia, e al contempo fortemente “politico”. Un modo differente, imprevisto, spiazzante per chi guarda, di testimoniare la tragedia dei bambini di Gaza, e che il sentimento della rabbia, a cui prima la regista accennava, non avrebbe potuto creare. Sentimento capace di animare i cortei e le proteste, anche da questa parte del globo, di provocare la solidarietà di chi assiste da lontano a una storia che non gli/le appartiene, e pensa o spera che a lui/lei non potrà mai accadere.
In un numero di dwf del 2018, sulla resistenza palestinese vista dalle femministe, l’attivista Ruba Saleh suggeriva di usare come nozioni politiche, come pratiche di resilienza, il dolore, l’amore, la nostalgia, la memoria del corpo, la sua vulnerabilità. Insomma le esperienze emozionali, percettive, vissute dalle donne nel quotidiano, scaturite dalla perdita, dalla mancanza, che permettono di connettersi gli uni agli altri, piuttosto che usare “i fatti” e i corpi visti esclusivamente come soggetti/oggetti di violenza nella sfera pubblica.
Sono quei “fatti” che il giornalista chiede ai due coniugi di raccontare ancora una volta, per non dimenticare, ma, spiazzato dalla scena visionaria a cui assiste incredulo – il padre gli porta i saluti di uno dei figli, suo amico d’infanzia – andrà via prima del previsto, con la scusa che il temporale è cessato.
«Upshot è una storia che ha luogo in nessun luogo, è un luogo immaginato, un luogo del futuro», ha dichiarato la regista. Eppure quel luogo esiste, ed è in Galilea, dove il film è stato girato. Un luogo verde e rigoglioso, che ispira pace, serenità, e dove spesso piove. Un luogo lontano dagli stereotipi che vogliono la Palestina secca e arida o devastata dalle bombe e intrisa di sangue. Ma se della Palestina non mostri queste immagini, non hai accesso a possibili finanziamenti per la realizzazione di un film. Se non parli di morte, di violenza e distruzione, non hai diritto a parlare di Palestina, perché nell’immaginario collettivo la Palestina, al di fuori di queste inquadrature non esiste, ha sottolineato il coproduttore Paolo Benzi (Okta Film), presente alla proiezione, insieme a Maria Nadotti, che ha dialogato con la regista.
L’immaginazione è ciò che resta dopo che si è perso la casa, i figli, la terra, tiene in vita ciò che è assente, che manca o è stato perduto, lo fa rivivere. Non è rimozione della Nakba, da parte degli stessi palestinesi, come spesso si crede in Occidente, che ne impedirebbe il riscatto, il compimento della storia. È un atto di giustizia ripartiva.
L’immaginazione è sguardo di sconfinamento, luogo di negoziazione tra ciò che siamo e sappiamo, e ciò che potrebbe potenzialmente esistere, se noi lo facciamo esistere. L’immaginazione ti insegna a vedere là dove lo sguardo è stato impedito di guardare, o che tu stesso non vuoi o non sei in grado, perché affetto da cecità selettiva, da insensibilità, mancanza di empatia, di immaginazione, appunto. Lo scrive l’antropologa Stefania Consigliere, alla ricerca di nuove ecologie per vivere tra le rovine del presente. Affezioni indotte e imposte da un sistema neoliberista strutturalmente violento, basato sulla menzogna, come quello di Netanyahu, che rende mostruoso e non degno di vita tutto ciò che non corrisponde o non si adatta alla sua narrazione della realtà, spacciata come unica e possibile.  Un sistema dentro il quale, in forme diverse, anche noi viviamo, non solo i palestinesi.
Ma la realtà non è solo quella che vediamo o che siamo indotti a vedere.
È questo il messaggio che mi arriva dal film. Serve un cambio di prospettiva, o di sequenza, operato da una macchina da presa come quella di Maha Haj, capace di sporgersi oltre il margine del conosciuto, per mostrare l’inatteso e fare esistere altro. Serve una “seconda vista”, plurisensoriale, come la chiama Anna Maria Ortese, la quale scriveva anche che una rivoluzione che non contempla il dolore terrestre, lascia il mondo peggiorato.
Upshot, premo Giuria Giovani al Festival di Locarno, parla di dolore terrestre, un sentimento universale, che ci tocca. In cui ci rivediamo. A partire dal paesaggio, che fa da sfondo al film, somigliante in particolare a quello nostro mediterraneo, e che ci invita a dire Siamo tutti Palestinesi.

Il calendario delle proiezioni è consultabile sul sito www.oktafilm.it o scrivere a: distribuzione@oktafilm.it

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Gisella Modica

Gisella Modica, attivista femminista scrive per le riviste: Letterate Magazine on line e Leggendaria. È socia della Biblioteca delle donne Udi Palermo e della Società Italiana delle Letterate. Pubblicazioni: per Stampa Alternativa Falce, Martello e cuore di gesù Storie verosimili di donne e occupazioni di terre in Sicilia (2000) e Parole di Terra (2004). I racconti della Cattedrale Storie di occupazioni, rimozioni, immersioni Villaggio Maori (2016). Le personagge sono voci interiori Vita Activa (2017); Come Voci in Balia del Vento Iacobelli (2018); per Mimesis/Eterotopie ha curato con Alessandra Dino Che c’entriamo noi. Racconti di Donne, Mafie, contaminazioni (2022). Ha scritto racconti e saggi in libri collettanei: Terra e parole Le donne riscrivono paesaggi violati a cura di R. Falcone e Serena Guarracino, ebook, @woman, 2017; Abitare la vita abitare la storia. A proposito di Simone Weil a cura di Maria Concetta Sala, Marietti, 2015; Lessico della crisi e del possibile Cento lemmi per praticare il presente a cura di Fabrice Olivier Dubosc, ed. Seb 2019; SIL/labario Conflitti e rivoluzioni di femminismi e letteratura a cura di Giuliana Misserville Rita Svandrlick, Laura Marzi, Iacobelli 2022.

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